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La formazione dell’Europa cristiana è un libro monumentale sul periodo tardoantico, vale a dire, pressappoco, dai primi secoli d. C. (200 d. C.), all’anno mille. Già su questo difficile argomento, vale a dire la ragione di una cesura di grandi periodi storici, nel libro si possono trovare interessanti osservazioni, la prima delle quali il motivo per cui la tardoantichità si è ritagliata, nel tempo, uno spazio e un’attenzione sempre maggiore. E’ pur vero che nessuno, in precedenza, ha mai creduto alle date in termini assoluti: il 476 d. C., data del crollo dell’impero romano d’Occidente, non è che uno degli anni che sarebbero potuti andar bene per segnare la fine del dominio romano occidentale. Le cose, però, sono sempre molto più sfumate, se si va a scendere nel dettaglio, ed è ciò che Brown fa.
Il libro, per la verità, non è solo lo spunto per un’analisi ad ampio raggio sul periodo tardoantico. Esso è dominato dal tema principale, già esplicitato nel titolo: l’ascesa del cristianesimo nel mondo occidentale. Tuttavia, il cristianesimo, oggi, ci appare in una veste estremamente artificiale, formale, unitaria, quasi coerente, eccetto che per gli irrinunciabili dogmi, eternamente in conflitto tra loro. Ma questa è un’immagine viziata dall’istituzione storico formata dopo il concilio di Trento, nel 1600 e dopo la crescita istituzionale e omologatrice che ha rafforzato e unificato il credo cristiano, nelle sue varie declinazioni. Essa è divenuta una religione mondiale, come la definisce il Bayly nel suo splendido Nascita del mondo moderno. Ma così non era affatto nel periodo tardoantico: allora c’erano sacche di paganesimo, molto sincretismo e una marea di varianti e di interpretazioni del vangelo e della parola divina. Tutte quelle che verranno chiamate eresie, non sono altro che delle declinazioni del cristianesimo che si sono rivelate perdenti sotto il profilo storico. Il libro di Brown ce ne dà un’idea. In esso si ritrova l’attenzione per la grande narrazione sotto il profilo della storia globale, della storia sociale e della civiltà in senso ampio, con particolare attenzione alla nascita di quell’uomo-chierico che sarà dominante in gran parte del medioevo che, addirittura, sostanzia l’appercezione dell’epoca anche su di esso: il medioevo, la società dei monaci, dei guerrieri e dei manovali.
Pregevole è l’analisi storica dei confini con i popoli germanici, i primi posti in cui le presunte onde di barbari si riversano. Per la verità, ormai abbiamo accettato l’idea, anche a livello elementare, che le “invasioni barbariche” siano state, per lo più, frutto della fantasia e delle leggende, poi secolarizzate nei libri di storia di liceo. Non senza ragione, i barbari hanno trovato il loro eco negativo giacché la civiltà romana è quella che sentiamo, dopo il rinascimento, più vicina alle nostre stesse aspettative di “grande popolo italiano”. Così, torna comodo poter dipingere l’impero romano come entità politica sopraffatta dal “caos” barbarico. In realtà, come ben mostra Brown, non ci furono “invasioni” ma grandi migrazioni, non sempre di stesse dimensioni e proporzioni. Inoltre, i popoli barbari spesso entrarono all’interno delle istituzioni romane, sostituendosi ai romani stessi. In altre parole, essi intervennero dall’interno nel sistema politico. Il vero e proprio “crollo” politico e istituzionale dell’impero romano si raggiunge solo quando i tempi erano piuttosto avanzati, quando, ormai, le forze centrifughe erano tali per cui l’accentramento del potere statale romano, in Occidente, non reggevano più il controllo delle regioni periferiche. L’impero era stato vessato per secoli dalla disorganizzazione e dalle guerre civili, come ci illustra bene Tacito. Le “invasioni” accelerarono dei processi, senza, sostanzialmente, crearli del tutto.
La precisione dell’analisi e la sua scientificità conduce Brown ad addentrarsi in molti processi storici veramente interessanti perché poco conosciuti. Innanzi tutto, la nascita del cristianesimo e la chiesa delle origini fu sottoposta a sole due persecuzioni, durate, pressappoco, vent’anni (in due). Nella percezione tramandata dalla tradizione, sempre molto ligia a mantenere di buon occhio l’operato della Chiesa, ci si ricorda volentieri come i pagani romani avessero perseguitato i poveri cristiani per periodi lunghissimi. Ma non fu così. E, soprattutto, sebbene non fu giusto, non si può dire che i romani non avessero i loro motivi politici, giacché i cristiani negavano proprio la base della statualità romana, incentrata sul parziale culto della figura dell’imperatore e dell’impero stesso. Comunque, seppero fare di meglio i cattolici spagnoli nei loro territori sudamericani, quello che viene spesso ricordato come “il più grande sterminio della storia dell’umanità”. Brown, non senza una certa ironia, con una grande conoscenza pervasiva di ogni aspetto della tardoantichità, dalla filosofia alla letteratura, riesce a riportare alla luce tutte le difficoltà, tutte le sfaccettature del cristianesimo delle origini e della rinnovata concezione del mondo: i cristiani non eliminarono la superstizione, cioè l’idea che la natura fosse dominata da tanti dei, ma, semplicemente, la qualificarono in negativo: gli dei pagani divennero demoni, nel senso in cui intendiamo oggi quella parola (ma non come l’intendeva Socrate, ad esempio). Un solo Dio, un solo Verbo, un solo credo. Ma quale credo? Quale Dio e cosa disse il Verbo? Innanzi tutto, il Dio cristiano è un Dio lontano dalla vita. Sta lassù e ci guarda, pensavano i cristiani delle origini. C’era l’esigenza, mai spenta, di portarlo un po’ più vicino a noi, da quella distanza siderale. Così vennero concepiti i santi, figure leggendarie la cui popolarità si fondava sulla certezza che queste persone riuscissero, tramite i loro magici influssi divini, a riportare Dio più vicino. E allora queste persone diventano piccoli dei, continuamente in lotta con le forze del male. Essi diventano i veri e propri specchi, i quali han ben ragione di essere pregati. Così, per estensione, diventano luoghi di culto i santuari e le chiese dei grandi santi, così come diventano preziose le loro reliquie. Questo passaggio, dal politeismo al monoteismo, non fu senza drastiche azioni di distruzione, operate dai cristiani: ad esempio, capitava spesso che i cristiani mutilassero le statue degli dei della città o cercassero di estirparne i riti collettivi, non sempre con successo.
Il libro conclude alle soglie dell’anno mille, quando ormai il paganesimo non esiste più nell’Occidente e neanche nell’Oriente. Il panorama che Brown traccia è molto attento e molto differenziato, perché la tardoantichità non è un periodo monolitico, ma è frastagliato da varie esperienze storiche diverse.
L’impero romano d’Oriente non era percepito come una frattura storica con l’impero precedente, ma una sua continuazione. Almeno fino a Giustiniano, compreso, l’impero continuava ad avere l’ideale ricongiungimento con la controparte occidentale. Un sogno politico, evidentemente, perché, ormai, era impossibile per ragioni militari. Però, questo “sogno” rimarrà in auge almeno fino a Carlo V e fino al 1555 d. C., data nella quale il sovrano spagnolo abdicherà a favore di suo figlio, Filippo II. Nell’impero romano d’Oriente l’esperienza cristiana viene mediata soprattutto dai santoni del deserto, gli stiliti e gli eremiti, la cui esperienza confluisce nelle forme di monachesimo orientale. Costoro costituiscono il contraltare occidentale del santo, come lo intendiamo in Italia. Anch’essi erano delle figure che servivano a riportare Dio sulla terra, troppo lontano dal suo imperscrutabile scranno per poterlo sentire vicino.
Brown tratta di tutte le varie esperienze con molta cura e attenzione giacché attestano tutte, a loro modo, un diverso modo di concepire il cristianesimo, che, comunque la si voglia vedere, costituirà una delle realtà omologanti e unificanti dell’Europa. Ancora oggi si rivendica l’idea che l’Europa sia unita nel cristianesimo. Una caratteristica, questa, che i cristiani non hanno mai perso: la volontà di imporre la loro visione anche agli altri, perché lo fanno per il bene degli altri.
Il sottotitolo stesso del libro di Brown è pertinente e illuminante, su quelle che sono le sue intenzioni e le realizzazioni di esse: Universalismo e diversità 200-1000 d. C.. Brown riesce nel difficile intento di fornire una chiara visione d’insieme di quello che è stato, come più volte sottolineato, un pluralismo ideologico e sociale. Ma è capace di tenere insieme ogni differenza e peculiarità. Egli tratta dell’Irlanda di San Colombano, della Francia di San Martino, piuttosto che dell’Italia di San Gregorio, come pure dell’impero romano d’Oriente e delle sue vicissitudini iconoclaste con straordinaria, magistrale capacità di visione d’insieme e di specificità, allo stesso tempo.
La partizione del libro ricalca in maniera fedele quanto detto fin’ora: Parte prima, fine dell’impero: 200-500 d. C., la seconda parte, Eredità divergenti; la terza parte; La fine del cristianesimo antico: 600-750 d.C.; quarta parte; Nuove cristianità 750-1000. Il periodo trattato, come si vede, va dal 200 d.C. al 1000 d. C., cioè ben al di là dei confini stretti della tardoantichità, così come sono stati comunemente assorbiti da quanti hanno studiato la storia al liceo. Va da sé, che Brown riesce perfettamente nella sua analisi.
Si tratta di un libro scritto da uno dei più grandi specialisti del settore, per un pubblico vasto, che non si limita solo agli storici di professione. La capacità narrativa, unita alla perfezione nelle analisi storiche, fanno de La formazione dell’Europa cristiana uno dei migliori esempi di “storiografia naturalizzata” contemporanea, cioè l’intento di considerare la Storia dal punto di vista puro, privo di morale o di ideologia. Ma Brown riesce anche ad accattivare il lettore con la sua ironia, che, spesso, fa capolinea. Un libro da conservare e da studiare, paragonabile per mole, autorevolezza e bellezza alla Nascita del mondo moderno del grandissimo storico C. Bayly. Un’opera monumentale.
PETER BROWN
LA FORMAZIONE DELL’EUROPA CRISTIANA
MONDADORI
PAGINE: 766.
EURO: 12,90.
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