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Ci sono due limiti alla conoscenza intellettuale. Un limite è comune all’intera conoscenza umana. Il secondo limite è, invece, peculiare dell’intelletto. Vediamo il limite generale. La nostra conoscenza è fondata sui dati di senso e sull’ordine che ad essi dà l’intelletto. Ma oltre questo? Oltre questo c’è il ‘forse’. Infatti, noi non possiamo conoscere null’altro che non sia inscritto all’interno dell’intelletto dai dati di senso, sia esso un finale giudizio analitico o sintetico. Ma i dati di senso da dove vengono? Questa è, in Kant, una domanda relativamente mal formulata perché è a partire da essi che noi abbiamo infatti conoscenza: senza dati di senso, non abbiamo alcuna conoscenza, compresa conoscenza di noi stessi perché, per Kant, noi conosciamo le nostre categorie pure proprio a partire dall’interazione di esse con i dati di senso. Insomma, per Kant non abbiamo un accesso privilegiato ai nostri stessi stati mentali se non nel senso che possiamo conoscerli attraverso le esperienze e le operazioni che la stessa mente esperisce e compie. Quindi, evidentemente, si tratta in qualche modo di una conoscenza indiretta dei nostri stessi stati mentali. Benissimo, ma allora vi propongo un ragionamento.
Supponiamo l’esistenza di un oggetto al di là dell’universo conosciuto. Questo oggetto è possibile ma è conoscibile? Esso è inconoscibile perché è al di là della nostra capacità di osservarlo. Ma supponiamo un altro tipo di ente, ovvero un oggetto indipendentemente da tutti i nostri dati di senso di esso. Cosa rimane? Sarebbe fuorviante dire che non rimane nulla. Sicuramente non rimane nulla che possa essere conosciuto di esso. Però l’argomento non suppone che l’oggetto sia completamente esaurito dai nostri dati di senso. Questo si può intuire, ad esempio, osservando che gli atomi sono stati (indirettamente) osservati solo dalla fine del XIX secolo in poi. Ma gli atomi sarebbero stati (indirettamente) osservabili anche prima, se soltanto noi ne fossimo stati capaci. Ma supponiamo che abbiamo completamente esaurito tutti i possibili dati di senso su di un oggetto (ovviamente, un’assunzione per assurdo): cosa abbiamo ottenuto? Abbiamo ottenuto soltanto ciò che noi possiamo dire di sapere su di esso e nient’altro. Cosa sia l’oggetto indipendentemente da quei dati di senso ci è completamente precluso (punto fondamentale su cui ritorneremo per spiegare come ciò sia possibile). Data l’importanza – e la controintuitività – di questo punto, vale la pena riportare un passo direttamente di Kant:
Se i fenomeni fossero cose in sé, nessuno sarebbe mai in grado di stabilire, sulla scorta della successione delle rappresentazioni del loro molteplice, in qual modo tale molteplice sia connesso nell’oggetto. Ma in realtà noi non abbiamo a che fare se non con le nostre rappresentazioni; ed è assolutamente al di là della nostra sfera conoscitiva determinare in qual modo le cose possono stare in se stesse (senza riferimento alle rappresentazioni, mediante cui esse agiscono su di noi).[1]
Un passo fondamentale. Kant non sta sostenendo che noi conosciamo il mondo per quello che è. Egli sostiene che noi lo conosciamo per quello che appare a noi. Ora, naturalmente, il suo problema era proprio quello di non ricadere nell’arbitrio totale dove ognuno la pensa come vuole. Ma a questo punto dovrebbe essere chiaro che proprio questo è impossibile! Ognuno non la pensa come vuole proprio perché poche cose sono così rigorosamente regolate come il pensiero stesso che è comune a tutta l’umanità. In Kant, dunque, la conoscenza non è oggettiva ma obiettiva perché, come dirà in altro loco, essa è possibile solo a condizione che ci si ponga da un punto di vista universale, abbandonando ogni possibile inclinazione personale. Se sai qualcosa, è perché il tuo pensiero non era influenzato da bias cognitivi – diremmo oggi. Esso era ben formato e, in quanto tale, obiettivo perché rispetta le condizioni di giudizio universali, condivise da ogni soggetto che, al tuo posto, la penserebbe allo stesso modo.
Esiste, però, una seconda limitazione alla conoscenza. L’intelletto sarebbe in grado di fornirci le conoscenze per cucinare ma non per scrivere un libro di cucina. Perché per scrivere un libro di cucina serve una teoria generale dove le nostre conoscenze non si limitano a quanto esperiamo e combiniamo ma si estendono in ogni possibile cucina, sufficientemente simile alla nostra. Ovvero, l’intelletto da solo non è capace di garantire la scienza o, se vogliamo, le scienze. Per questo occorre una facoltà differente che intervenga nell’espandere la nostra conoscenza. Questa facoltà è la ragione, una facoltà molto più potente, per certi aspetti, dell’intelletto e, infatti, sotto il continuo rischio di grandi errori di cui il più grande è la generazione di infinite metafisiche che, per quanto razionali, sono del tutto prive di (dati di) senso. Per questo, in fondo, Kant ha scritto la sua Critica della ragion pura, come abbiamo visto: un’opera di metafisica che tenta di riformare la metafisica quasi bandendola.
[1] Ivi., Cit., p. 227.
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