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Fino a qui abbiamo visto che l’esperienza è il risultato della combinazione di dati immessi dallo spazio e dal tempo all’interno della nostra mente. Kant non avrebbe parlato di mente, ma fa capire l’idea. La domanda successiva, che è una delle direttive principali di tutto il pensiero kantiano applicato alla conoscenza, è relativa all’unità di questi dati di senso. Ovvero, la nostra esperienza ordinaria non è disgiunta per istante in entità individuali separate, come avrebbe voluto, o meglio, ritenuto la filosofia della mente elaborata da David Hume. Per Hume noi abbiamo solo dati di senso esperiti per ciascun istante. L’unità delle idee è dovuta a principi di aggregazione come somiglianza e continuità. Ma, obietterebbe Kant, che pure considerò Hume il filosofo che lo “svegliò dai dogmi della metafisica”, come è possibile allora che noi non abbiamo singole collezioni di dati di senso ma vere e proprie unità? La parola che usa Kant per indicare questa unità di dati di senso è “fenomeno”. Un fenomeno è qualsiasi cosa l’intelletto – la mente – riunisca in un’unità a partire dai dati di senso. Una palla è un fenomeno in questo senso: essa è una un’unità di dati di senso dove l’unità è data infatti non dai dati ma dalla mente – intelletto.
Il motivo per cui non si può identificare la mente con l’intelletto è che, per Kant, l’intelletto non è tutta la mente umana. La mente umana è la complessa unione dell’intelletto, della ragione e dell’unità ultima che unisce intelletto e ragione, ovvero l’”io penso” come attività senziente. In realtà, non è del tutto così chiaro che esista una coscienza unitaria che riunisca in sé tutta la mente, sotto un unico ombrello auto-cosciente. Anzi, sicuramente le cose non stanno così, ma sicuramente la mente ha una sua unità grazie al fatto che l’”io penso” è strutturalmente organizzato in modo da dare coerenza all’insieme altrimenti disunito di dati di senso.
È interessante osservare che la visione di Kant è molto più orientata all’intelletto, che non alla ragione, circa le nostre conoscenze ordinarie. Per questo, Kant esplicitamente dice: “Parlando in generale, l’intelletto è la facoltà delle conoscenze”.[1] Questo è vero in due sensi: (a) l’intelletto è ciò che spiega le nostre conoscenze ordinarie, cioè è ciò che le causa (per essere più precisi, è ciò che le rende possibile), e (b) l’intelletto è ciò che determina la possibilità stessa dell’avanzamento delle nostre conoscenze ordinarie. Ovvero, i giudizi analitici sono possibili grazie all’attività dell’intelletto molto più che all’attività della ragione. Quindi, cosa è e cosa fa l’intelletto?
Prima di rispondere a questa domanda, di nuovo, bisogna far mente locale sul modo in cui Kant sta affrontando questo problema. Ancora una volta torniamo alla questione dei giudizi, ovvero alla nostra possibilità di costruire asserzioni su stati di cose. Cerchiamo di capire dunque cosa è cosa fa l’intelletto partendo da un esempio concreto: (A) la palla si muove perché è stata calciata da un piede. Questa asserzione è possibile grazie al fatto che abbiamo un insieme di fenomeni riuniti insieme: la palla in moto, il piede e la relazione tra i due. La domanda interessante è appunto la seguente: il piede e la palla sono di per sé due cose distinte, ma noi le vediamo unite nell’azione del movimento trasferito dal piede alla palla. Come è possibile? La risposta è semplice: la relazione di causa è il collegamento che l’intelletto fornisce ai due fenomeni distinti, ovvero a due insiemi di dati di senso, riuniti in due fenomeni che noi concepiamo come ‘palla’ e ‘piede’ e che riuniamo nuovamente insieme sotto l’unica categoria di causa. Su questo punto vale la pena riportare un passo dello stesso Kant:
Ma la congiunzione non è propria degli oggetti, e non può perciò esser ricavata da essi magari attraverso la percezione, e così fatta propria dall’intelletto. Essa è invece null’altro che un’operazione dell’intelletto. Questo, a sua volta, altro non è che la capacità di congiungere a priori e di ricondurre il molteplice delle rappresentazioni date sotto l’unità dell’appercezione. E questo è il principio supremo di tutta la conoscenza umana.[2]
Questo punto centrale differenzia Kant, ad esempio, sia da Hume sia da Spinoza. Per Hume la categoria di causa è solamente un’inferenza consuetudinaria (ovvero dovuta ad un’abitudine) della mente umana. Per Spinoza, invece, la causa e l’effetto sono due modi di chiamare i modi – eventi – i quali stanno proprio in quella relazione. La causalità in Spinoza è nell’oggetto, in Hume è illusoria ma è nella mente. In Kant la causalità non è nell’oggetto, ma non è illusoria perché l’intelletto è programmato a pensarla così. Pensiamo allora all’intelletto come ad un computer che è settato proprio per avere all’interno del suo programma la funzione “causa”. Logicamente, l’output che produce è naturalmente quello atteso!
Per mostrare cosa sia l’intelletto, dunque, vale la pena di tentare di capire un passaggio della Critica in cui Kant riassume quanto abbiamo mostrato sopra: “Il molteplice delle rappresentazioni può esser dato in un’intuizione, che è puramente sensibile, quindi null’altro che recettività: e la forma di questa intuizione può trovarsi a priori nella facoltà rappresentativa, pur non essendo che la maniera in cui il soggetto viene affetto. Ma la congiunzione (conjunctio) di un molteplice in generale non può mai provenirci dai sensi, e neppure esser racchiusa nella forma pura dell’intuizione sensibile. Essa è infatti un atto della spontaneità della facoltà rappresentativa, la quale, per esser distinta dalla sensibilità, è detta intelletto…”[3]
L’intelletto, dunque, è ciò che fornisce unità ai fenomeni e li congiunge. Abbiamo visto una di queste congiunzioni, ovvero la causalità. I nostri giudizi, però, sono molto più vasti e non limitati alla sola nozione di causalità. E Kant rintraccia ben dodici categorie divise in quattro tipi che ci limitiamo a riportare: (I) Della quantità: unità, pluralità, totalità; (II) Della qualità: realtà, negazione, limitazione; (III) Della relazione: dell’inerenza e sussistenza, della causalità e dipendenza, della comunanza; (IV) Della modalità: possibilità – impossibilità, esistenza – inesistenza, necessità – contingenza.[4] Quindi, per riassumere la natura delle categorie: “Ne viene la conferma che le categorie, per sé prese, non costituiscono affatto conoscenze, ma semplici forme del pensiero, per la costruzione di conoscenze in base a intuizioni date”.[5] Dunque, spiegando la natura di questo passaggio arriviamo a fare il punto della situazione sull’intelletto e sulla sua funzione all’interno della visione kantiana.
L’idea generale è, appunto, fornire una ricostruzione razionale delle condizioni generali delle nostre conoscenze ordinarie. L’esempio del calcio della palla può essere fruttuosamente tenuto a mente. Formulare la frase ‘la palla si è mossa grazie al calcio del piede che ha trasmesso movimento’ richiede, come visto, non solo l’immissione di dati di senso, forniti dall’intuizione spaziale e temporale, ma anche la costituzione di entità – fenomeni come la palla e il piede – riuniti in relazione – causale, in questo caso. I dati dell’esperienza sono fondati sulle intuizioni di spazio e tempo, senso esterno e senso interno che danno l’idea che la palla ha una sua dimensione che si sposta dopo che il piede ha dato il calcio. Per vedere (in parte) la complessa interazione tra le varie parti della mente umana in questo semplice esempio riportiamo un diagramma:
Giunti a questo punto possiamo dirci sufficientemente soddisfatti. Certo, potremmo andare avanti a lungo, per esempio, noi non abbiamo che mostrato i risultati di quanto Kant propone, non come lui dimostri i risultati. Ma ci pare che essi siano, anche così, più che convincenti. Giunti a questo punto siamo arrivati alla soglia delle conoscenze ordinarie, oltre le quali c’è la seconda parte di questa nostra analisi, ovvero la ragione. Infatti, sino a qui, possiamo affermare di sapere come conosciamo il mondo e, nel prossimo paragrafo, ultimo di questa sezione, vedremo i suoi limiti. Ciò detto, però, vedremo appunto come la ragione giochi un ruolo all’interno della conoscenza umana, latu sensu, e non nei termini di quella nozione, invero piuttosto povera, di ‘conoscenza’ investigata dall’epistemologia analitica. Quel tipo di conoscenza, per Kant, si esaurisce con l’attività intellettuale.
[1] Ivi., Cit., p. 165.
[2] Ivi., Cit., p. 164.
[3] Ivi., Cit., pp. 160-161.
[4] Ivi., Cit., p. 146.
[5] Ivi., Cit., p. 260.
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