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John Polkinghorne è un fisico teorico, teologo e pastore anglicano. È autore del libro Credere in Dio nell’età della scienza [1998, io utilizzo l’edizione Raffaello Cortina 2000 (collana SCIENZA E IDEE, diretta dal filosofo della scienza Giulio Giorello)].
Trattandosi di un’opera alquanto complessa nei contenuti, la mia analisi non ha la pretesa di essere esaustiva.
L’autore rende espliciti i suoi intenti nel primo capitolo (intitolato, come l’intero libro, Credere in Dio nell’età della scienza) sostenendo che, al fine di comprendere adeguatamente la realtà in cui viviamo, ha tenuto conto dell’esperienza umana in tutta la sua varietà e ricchezza, rinunciando a sterili tentativi di dimostrazione razionale della presenza di Dio. Un passo emblematico è il seguente: «Perché dovremmo anteporre l’impersonale al personale, l’oggettivo al soggettivo, il quantificabile al simbolico, il ripetibile all’unico? Sono tutti parte dell’unico mondo della nostra esperienza» (p. 31).
Vengono individuati diversi punti di contatto fra teologia cristiana e pensiero scientifico moderno. Anzitutto, il Big Bang studiato in cosmologia non dev’essere confuso con il momento della creazione dell’universo da parte di Dio; tale creazione, così come è narrata nel Libro biblico della Genesi, è da intendersi in senso ontologico piuttosto che fisico, ossia in qualità di rappresentazione della dipendenza ontologica di tutto l’universo – e in particolare dell’essere umano – da Dio (come ricorda l’autore, questo aspetto era stato già intuito da Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo). Nondimeno, la presenza di Dio non concerne solo una prospettiva astrattamente atemporale ma si dispiega concretamente nella storia umana, come attesta la Rivelazione contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Per quanto attiene specificamente alle modalità dell’interazione provvidenziale fra Dio e gli esseri umani, un modello possibile sarebbe costituito dai sistemi caotici: «Un’interpretazione realistica delle impredicibilità epistemologiche dei sistemi caotici ci conduce all’ipotesi di un’apertura ontologica entro cui si può ritenere che operino nuovi principi causali, di carattere olistico, i quali determinerebbero così la configurazione del comportamento futuro. Cogliamo qui un barlume dei modi in cui potremmo mettere in atto la nostra volontà e di come Dio eserciti un’interazione provvidenziale con il mondo» (p. 75). Tuttavia mentre gli esseri umani, che sono esseri corporei, agiscono sia sul piano dell’energia sia su quello dell’informazione, Dio, che è un Essere puramente spirituale, agisce solo sul piano dell’informazione, dall’alto verso il basso. Il modo di agire divino non risulterà sempre facile da comprendere agli esseri umani: «Avremmo un inestricabile intreccio [il traduttore fa notare che l’autore utilizza in questo punto il termine entanglement, il quale indica anche una delle situazioni “paradossali” studiate in fisica quantistica]: non sarebbe più possibile distinguere gli eventi dicendo che Dio ha fatto questo e la natura quest’altro. La fede potrà ancora riconoscere la mano di Dio all’opera, ma non sarà possibile identificare l’intervento divino e dimostrare che è proprio così. In questo senso il nesso causale è implicito piuttosto che esplicito» (p. 86). Il continuo evolversi dell’universo fisico e il libero arbitrio dell’uomo sembrano implicare che Dio non possa conoscere il futuro: «Non si tratta, però, di un’imperfezione nella natura divina, dal momento che il futuro non è ancora là dove lo si può conoscere. Nell’atto della creazione, nel lasciar-essere il veramente altro, non è implicata solo una kenosis [uno svuotarsi] del potere divino, ma anche una kenosis della conoscenza divina. L’onniscienza viene autolimitata da Dio nella creazione di un mondo aperto e in perpetuo divenire» (p. 87). Relativamente alla scienza e alla teologia, nonché ai loro reciproci rapporti, nella consapevolezza che l’uomo, in questa vita, non riuscirà mai a conseguire la verità assoluta bensì soltanto una soddisfacente verosimiglianza, l’autore definisce sinteticamente la sua posizione realismo critico: «Lo scienziato e il teologo lavorano entrambi a partire da una fede, una sorta di realistica fiducia nell’affidabilità razionale della nostra comprensione dell’esperienza» (p. 145).
Nel corso della vita ogni uomo e ogni donna sperimentano la sofferenza. Perché la sofferenza, dovuta a cause naturali o umane (involontarie o volontarie), impedirebbe di attribuire alla vita umana un senso ultimo, un senso che non sia meramente soggettivo? Semmai, dovrebbe stimolare coloro che stanno ancora cercando un tale senso ad approfondirne la ricerca, e coloro che ritengono di averlo già trovato a verificarne l’adeguatezza: «Il problema della sofferenza non è un semplice dilemma razionale. Essa costituisce una profonda sfida esistenziale alla fiducia umana nel valore e nella vittoria della bontà. Funziona a un livello psichico profondo e la si può accettare solo a questo stesso livello. La risposta cristiana al problema del male e della sofferenza è una risposta cristologica» (p. 52). A questo riguardo, il Dio del Cristianesimo non si è (teisticamente) arroccato in un’imperscrutabile trascendenza, né si è (deisticamente) adagiato in un’asettica indifferenza: «Il Dio cristiano non è uno spettatore compassionevole, che guarda dall’alto, con simpatia, alle sofferenze del mondo. Il Dio cristiano è davvero “il compagno sofferente che capisce”, perché in Cristo Dio ha conosciuto la sofferenza e la morte dell’uomo dall’interno. Il Dio cristiano è il Dio crocifisso. […] Sulla croce anche il lager di Auschwitz si trova in Dio stesso, è stato cioè assunto nel dolore del Padre, nella consegna del Figlio e nella forza dello Spirito. [Qui è evidente il riferimento dell’autore al pensiero del teologo evangelico contemporaneo Jürgen Moltmann sviluppato nel libro Il Dio crocifisso (1972), da cui ha tratto il passo riportato.] […] Solo una cristologia ontologica è adeguata alla difesa di Dio di fronte alla sofferenza umana. Dio deve davvero essere là, in quelle tenebre» (p. 53).
Il brano seguente è tratto dal libro Il Re, il Saggio e il Buffone. Il Gran Torneo delle religioni (Un’affascinante narrazione che apre la strada al dialogo) [1998, io utilizzo l’edizione Giulio Einaudi 2000], scritto dal teologo e pastore protestante kenyota Shafique Keshavjee: «[Christian Clément, il personaggio che rappresenta i cristiani] – I cristiani non pensano che l’assenza di sofferenza sia il valore ultimo dell’universo. Poiché Dio è amore, come ci ha detto l’apostolo Giovanni (I Giovanni 4,8), e poiché il suo amore è tale che non si impone, ma si offre, allora quest’amore è inseparabile dalla possibilità di un rifiuto. Ancora oggi Dio soffre vedendo le sofferenze degli uomini. Che dico? Non soltanto vede le nostre ferite, ma si identifica con esse. Dio è straziato da ogni cosa che ci strazia. Secondo una parabola molto nota, Gesù ha affermato che era solidale con gli affamati e gli assetati, gli stranieri, gli ignudi, i malati e i prigionieri (Matteo 25,31-46). Credo che fosse presente nei suppliziati di Treblinka e di Auschwitz, nei bambini africani mutilati e straziati di cui ci ha parlato Alain Tannier [il personaggio che rappresenta gli atei], nei massacrati della Cambogia, del Sudan, dell’ex-Jugoslavia, del Rwanda e di tanti altri paesi…» (pp. 166-167).
Credere in Dio, nel Dio del Cristìanesimo, non significa soltanto credere alla Sua esistenza: significa confidare in Lui, nella consapevolezza che Egli desidera abitare gli esseri umani, per renderli pienamente partecipi della Sua stessa vita. Sta a ciascuno di noi, ad ogni uomo e ad ogni donna, decidere di accogliere la Sua proposta, e questa decisione è ragionevole; soprattutto nell’età della scienza.
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