2019 Trend
Cicerone si riferiva agli aruspici domandandosi come essi riuscissero a prendersi reciprocamente sul serio. Nonostante ancora l’illuminismo fosse ben lontano dalle accademie, l’illustre e sfortunato politico romano capiva che prevedere il futuro è cosa dai risultati alquanto improbabili.
Lo è ancor di più parlando di politica internazionale, il campo dell’assoluta incertezza e della casualità: ciascuno dei soggetti che vi opera ha una sua strategia, nel migliore dei casi, e il combinarsi di tali strategie genera esiti differenti dalle intenzioni di coloro che le avevano immaginate. Questo fenomeno, noto sin da San Tommaso, si chiama “eterogenesi dei fini” (vedi Cozzi (2019) in Socrate va in guerra), a cui si sovrappongono poi comportamenti e azioni intraprese da soggetti estemporanei, che vanno dai “lupi solitari” (cioè quei soggetti che senza essere membri formali di gruppi terroristici, compiono assalti ai danni di bersagli da loro genericamente identificati come “nemici”) ai corpi elettorali. Azzardare quindi previsioni in materia di politica internazionale può essere fuorviante, meglio è magari cercare di capire quanto sta accadendo ed il perché. Intendo quindi provare a fornire un quadro generale delle situazioni politiche, economiche e sociali del mondo globalizzato e delle specifiche aree strategiche e nelle quali si manifestano fenomeni di crisi.
Un quadro generale
Com’è organizzato il mondo che si affaccia sul 2019? Quello che abbiamo di fronte è un sistema internazionale molto più complesso di quanto fosse nel recente passato. Sicuramente il numero di attori autonomi, cioè non dipendenti da “grandi potenze”, è aumentato dalla fine della Guerra Fredda. In questo contesto si confrontano quattro soggetti principali: Stati Uniti, Cina, Russia e Unione Europea e vari altri che chiameremo “medie potenze”.
Gli Stati Uniti sono l’unica, autentica “superpotenza”. Con questo si intende che, a tutt’oggi, nessuno degli altri soggetti è in grado di fronteggiare con speranza di avere la meglio, il potere globale degli americani. Né dal punto di vista militare, né economico-finanziario, né, per ora, tecnologico.
Il secondo soggetto che per caratteristiche geopolitiche, demografiche, economiche e militari è sicuramente una “grande potenza” è la Cina. È un soggetto emergente, ancora non ha espresso pienamente le sue potenzialità, ma sta lottando intensamente per affermarle. Con la popolazione più numerosa del mondo; il secondo prodotto interno lordo, ed una superficie pari a quella degli Stati Uniti, essa può, in termini economici, rapidamente raggiungere il capofila statunitense ammesso che riesca a mantenere gli attuali ritmi di sviluppo. La Cina ha tre debolezze relative: le dimensioni e la tipologia demografica della sua popolazione, che da luogo a problemi di ineguaglianza distributiva. Il PIL pro-capite è ancora notevolmente più basso di quello americano ed europeo. La seconda debolezza è militare. La Cina ancora non ha raggiunto gli Stati Uniti dal punto di vista della tecnologia militare e dual use, soprattutto nel settore navale. Tuttavia, sta facendo rapidi progressi in questo ambito strategico, cioè il terreno su cui il confronto con gli USA si presenta più immediato, visti gli interessi di entrambe le potenze per l’Oceano Pacifico. La terza è il fatto che la Cina è ancora un paese Comunista, cioè un paese ad economia centralizzata, con forti aiuti pubblici alle imprese, e che ha come primario obiettivo la piena occupazione, invece del profitto di impresa. Questo fatto distrae risorse dall’accumulo capitalista e, di conseguenza dalla crescita. L’obiettivo della piena occupazione, di per sé, non è “sbagliato”, anche se può essere alquanto velleitario e non è detto che sia sempre un fatto positivo per l’economia. Se punto alla piena occupazione tout court, è possibile che crei posti di lavoro fittizi al solo scopo di avere più occupati, e di conseguenza produco minore efficienza cioè uno spreco di risorse. Se l’obiettivo è la crescita, e se quindi investo sul miglioramento del ciclo produttivo, probabilmente avrò indirettamente anche maggiore occupazione. La presenza di ammortizzatori sociali adeguati potrebbe sopperire all’obiettivo della piena occupazione. Il discorso a questo punto però richiederebbe una trattazione che esulerebbe molto dall’argomento trattato e che rimanderei ad altri lavori.
L’altra “potenza” da prender in considerazione nel discorso complessivo è la Russia. Nonostante la postura aggressiva, essa continua ad avere i problemi che furono prima della Russia degli Zar e poi dell’Unione Sovietica: economia debole rispetto alle dimensioni territoriali e poco diversificata, incentrata sull’esportazione delle materie prime (row materials). Sviluppo tecnologico molto orientato agli armamenti e alla sicurezza, e meno ai consumi. L’eterna spada di Damocle della demografia inadeguata ad occupare gli immensi spazi improduttivi. Nel teatro delle potenze, non si può non considerare l’Unione Europea (EU). Essa sembra oggi più orientata a “non risolvere” le proprie debolezze, che a cercare di valorizzare i propri punti di forza. La pura somma dei PIL e della popolazione ne farebbero un’entità economica per alcuni aspetti superiore sia alla Cina che agli Stati Uniti, eppure essa continua ad essere al di sotto della somma di 28 nazioni, invece di un unico soggetto politico, quale potrebbe e forse dovrebbe essere. La difficoltà delle classi politiche dei vari paesi a dare risposte efficaci ai malesseri, più o meno reali, di ampie fasce di popolazione. Le divisioni interne agli stati membri, fatte di micro-egoismi etnici e sociali, immobilizzano il passaggio da insieme di stati nazione a soggetto politico, capace di agire come unico sullo scenario internazionale. L’EU appare costretta sulla difensiva su ogni fronte e con la continua minaccia di essere frantumata e i singoli membri. Questo renderebbe più facile ad affluenti compratori, l’acquisto dei loro preziosi “assets” (es. Cina). Una frantumazione dell’Europa ed una conseguente sostituzione del “robusto”, monetariamente parlando, Euro, con deboli monete locali, trasformerebbe la “campagna acquisti”, in una vera passeggiata
La mancanza di una capacità militare e di intelligence e counter-intelligence comunitaria, la espone ad attacchi pericolosi per le sue singole democrazie, che vivono una fase difficile, con rischi di blocco di quelle riforme politiche ed economiche necessarie a far fronte alle sfide della globalizzazione. Soprattutto temibili sono le aggressioni non convenzionali per condizionarne gli orientamenti politici. La debolezza politica e la “inesistenza” militare, accompagnata da una ricchezza e da un consumismo diffuso, semplificano la vita ai concorrenti commercial, così come di coloro che ne temono la potenzialità, ove essa si affermasse come soggetto politico. All’interno del confronto fra i soggetti globalizzati, giocano le partite locali medie potenze e stati che sperano di migliorare la propria posizione relativa, anche restando all’interno di alleanze. Gli esempi non mancano. La Polonia, fondatrice del gruppo di Visegrad, in funzione antirussa, ma che indirettamente indebolisce l’unità europea, a favore di un agglomerato di nazioni che trova attento ascolto dall’altra parte dell’atlantico. La Turchia di Erdogan, che vuole riaccendere gli splendori del vecchio impero Ottomano. La Corea del Nord, con la sua sempre incombente minaccia nucleare. Il Vietnam e le Filippine, preoccupate dell’esuberanza cinese. Il Giappone, che abbandonata la tradizione pacifista, ha avviato una intensa campagna di riarmo.
Lo scenario che si presenta è disseminato di “Trappole di Tucidide”, un’immagine inventata da un docente della Harvard Kennedy School of Government. La definizione si rifà al confronto fra Atene e Sparta, nel quale Sparta si sentì minacciata dall’aggressività di Atene, allora potenza emergente al punto di muoverle guerra. Questa dinamica, dominata dalla paura spinge i vari soggetti a rappresentarsi come soldati in un campo di battaglia con solo due alternative: vincere o morire. Se le scelte si focalizzano su di un “nemico” e non sul contesto generale, si passa dall’approccio multilateralista, in cui tutti accettano di parlare con tutti, in un sistema regolato da norme e da mediazioni (Onu, Word Trade Organization, Corte Internazionale dell’Aja, Unione Europea), ad un sistema in cui vince semplicemente il più forte. Il fatto è che la percezione di “essere” il più forte, non sempre coincide con la realtà pratica. Vedasi il caso delle molteplici sconfitte americane nelle guerre degli ultimi 70 anni. In questo momento l’atteggiamento aggressivo di Donald Trump parrebbe muoversi in questa direzione, o forse addirittura avere già avviato la fase successiva cioè una guerra, quella commerciale.
Il confronto
C’è dunque in corso quella che Jacob L. Shapiro, direttore dell’analisi di Geopolitical Future, definisce una seconda guerra dell’oppio (guerra tra Impero Cinese e Gran Bretagna tra il 1839 ed il 1860). Un conflitto in cui l’oggetto del contendere non è di tipo territoriale ma commerciale; cioè costringere l’avversario ad accettare le proprie merci.
Il sistema mondiale è prossimo alla fine di un ciclo, che iniziò negli anni 70, con la visita di Nixon in Cina e che vide un’alleanza di fatto tra Stati Uniti e Cina, in funzione antisovietica. Il patto consentì a Deng Xiao Ping di lanciare una parola d’ordine curiosamente poco comunista, ma molto attraente per tutti: “arricchitevi”. Questo arricchimento avvenne attraverso l’uso di quella che, in quel momento, era la grande forza della Cina: La grande abbondanza di popolazione, cioè la grande disponibilità di manodopera a basso costo. Questo consentì avviare la creazione di quella che si può comunemente chiamare la “fabbrica del mondo”. Grandi quantità di ogni tipo di prodotto, a prezzi competitivi, perché la bassa remunerazione della manodopera, l’assenza di limiti sindacali all’impegno dei lavoratori cinesi e le enormi economie di scala lo permettevano. Il punto di svolta fu l’ingresso della Cina nel WTO, nel dicembre 2001, cioè il suo formale “riconoscimento” come nazione capitalista parte del sistema mondiale del commercio. Tutto questo in cambio di cosa? Innanzitutto della canalizzazione dell’abbondante risparmio pubblico e privato Cinese nell’acquisto di titoli di stato americani, utili a finanziare le guerre globali di Bush. Ma anche e soprattutto il completamento del disegno di finanziarizzazione dell’economia. Un programma politico economico iniziato venti anni prima da Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti e Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito.
Le produzioni industriali furono spostate nei paesi emergenti, Cina innanzitutto. Furono trasferiti anche gli impianti che ormai erano tecnologicamente superati e ammortizzati nei bilanci. In questa trasformazione logistica ed economica, il mondo occidentale sarebbe divenuto la “banca del mondo” in cui “la fabbrica del mondo” in teoria, avrebbe investito i suoi ricchi risparmi, pubblici e privati. Nel frattempo, il governo cinese, diretto da uomini politici accuratamente selezionati dal partito, ha conseguito l’obiettivo di rendere la Cina la seconda potenza mondiale, con prospettive di essere la prima. Vi sono state crisi anche in Cina. Bolle speculative e conflitti interni, molti dei quali ancora irrisolti, ma l’Impero di Mezzo continua ad avanzare.
Oggi il mondo “si è capovolto”. Il mercato è sovraccarico di prodotti, le economie avanzate hanno bisogno di finanziarsi con l’esportazione. Sono strette nella forbice tra la conservazione dei livelli di vita acquisiti e la formidabile produttività dei sistemi industriali informatizzati, a fronte di una deriva speculativa dei flussi finanziari.
Tutti vogliono vendere a tutti. La Cina col suo miliardo e mezzo di consumatori è un mercato che attrae le maggiori economie. Ma come accadde ai tempi della guerra dell’Oppio non vuole più comprare prodotti, oggi, meglio attrezzata dei tempi dei Qing, preferisce comprarsi gli assetts dei Paesi capitalisti. Questo cambia molto le carte in tavola. Gli Stati Uniti di Trump rompono la regola che ha garantito per anni l’alleanza transatlantica, per cui la Superpotenza garantiva ai suoi alleati oltre che la protezione militare, un ricco mercato. Essendo gli scambi in quel mercato regolati con la valuta nazionale americana alla fine la superpotenza ci rimetteva poco.
Economia 2019
A giugno 2018 World Bank nel suo Global Economic Prospect, presentava prospettive positive di crescita conseguenti alla fine della lunga crisi finanziaria. Metà del mondo stava registrando una crescita importante, che avrebbe potuto essere amplificata dalla continua performances positiva delle economie di USA e Cina. Tale opinione era sostenuta da dati quantitativi a livello globale relativi ad occupazione (dati Word Bank), investimenti e interscambi ed inflazione positiva, ma moderata. Tutto ciò faceva pensare che l’economia avesse, nel suo complesso, trovato un ragionevole bilanciamento tra inflazione e disoccupazione.
Tuttavia, se a breve le prospettive appaiono ancora positive, vi sono una serie di fenomeni che proiettano ombre sull’andamento dell’economia a medio termine.
La minaccia principale è rappresentata dalle politiche protezionistiche, che potrebbero condurre ad una guerra commerciale. L’idea che l’Europa potrebbe scegliere liberamente di porsi dal lato del suo interesse nel confronto, cioè contro gli Stati Uniti di Trump, è puramente velleitaria, soprattutto considerando la scarsa coesione degli europei. Ci sono una serie di rapporti indiretti che conducono a far sì che il non applicare le misure imposte dagli USA avrebbe pesanti ricadute sull’export europeo.
Le minacce protezionistiche hanno un duplice effetto, se dovessero realizzarsi avrebbero conseguenze distruttive sull’economia mondiale. Ma il fatto che vengano anche semplicemente brandite, crea una condizione di incertezza nel sentire degli investitori. Questo acuisce i fenomeni di ricerca di investimenti sicuri e redditizi al di fuori del sistema dell’economia reale (finanza invece di industria, rendite invece di occupazione).
Possibili crisi creditizie nei paesi emergenti espongono queste economie a rischi di insolvenza, rispetto alla crescita dei tassi di interesse ed a shock nel mercato dei cambi. Una frenata troppo rapida della politica monetaria americana potrebbe danneggiare soprattutto le economie, deboli e quelle fortemente indebitate, cui un dollaro ancora più forte di quello che è oggi renderebbe più difficile l’importazione di materie prime, ma anche persino di risorse alimentari. Ad esserne certamente favoriti sarebbero gli esportatori, Russia in testa, che vedrebbe crescere i propri introiti in valore
Come si è detto non sembra esserci all’orizzonte una crisi finanziaria violenta. Soprattutto non sembra esserci un elemento di innesco di essa, come lo furono i titoli internet alla fine del secolo scorso, o la bolla immobiliare nel 2008. Secondo gli studiosi di Economia, anche con qualche supporto empirico, storicamente le crisi finanziarie hanno periodicità decennale. Ma possono essere più o meno profonde (crisi del 29 e crisi del 2007-2008, rispetto a crisi dell’87 o del 2000). Il 2019 cadrebbe nella data fatale del ciclo decennale, ma al momento si parla solo di una “frenata”, che parrebbe confermata da segnali di recessione “tecnica” cioè un calo del prodotto interno lordo e dell’attività produttiva, relativa solo ad un breve e recente periodo (ad esempio l’ultimo trimestre di un anno).
Be First to Comment