Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo.
Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza.
Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.
Antonio Gramsci, da “L’ordine nuovo”.
- Gramsci sardo
L’identità isolana ha rappresentato una caratteristica fondamentale ed ineludibile nella formazione di Antonio Gramsci. Il suo peculiare pensiero si è sviluppato anche attraverso la conoscenza di persone e ambienti culturali eterogenei, spesso notevolmente distanti (sia geograficamente che culturalmente) dalla sua terra natia, senza però dimenticare le sue origini. Anzi, si può in un certo senso affermare che la sua identità ha costituito il filtro attraverso il quale Gramsci ha metabolizzato e rielaborato in maniera originalissima il pensiero dei principali teorici socialisti (Marx, Engels, Labriola,…) giungendo a coniugare l’internazionalismo con il sardismo.
Per meglio inquadrare questo particolare aspetto è conveniente ripercorrere la vita di Gramsci dalla nascita fino alla partenza a Torino per gli studi universitari.
Il padre, Francesco, di lontane origini greco-albanesi, trascorse la gioventù a Gaeta. In seguito alla morte del padre nel 1881 fu costretto a cercare immediatamente un lavoro e lasciò la Campania per la Sardegna trovando impiego presso l’Ufficio del registro di Ghilarza. Qui conobbe Giuseppina Marcias, figlia di un esattore delle imposte, e la sposò nel 1883. Dall’unione nacquero sette figli dei quali il quarto fu Antonio Francesco Sebastiano, nato ad Ales il 22 gennaio del 1891 in virtù del cambio di residenza della famiglia nel paese in questione a seguito del trasferimento dell’ufficio nel quale lavorava il padre. Di lì a poco la famiglia si stabilirà a Sorgono, paese natale di Giuseppina.
All’età di due anni Antonio si ammalò di una forma di tubercolosi ossea, il morbo di Pott, che lo segnerà nel fisico deformandogli la colonna vertebrale e impedendo una normale crescita del corpo. Difatti da adulto Antonio non superò il metro e mezzo di altezza.
Negli ultimi anni del XIX secolo la Sardegna viveva una situazione alquanto travagliata. La politica economica protezionistica condotta negli anni precedenti dalla “Sinistra storica”, sfociata nella guerra doganale con la Francia, aveva causato forti contraccolpi all’economia delle regioni italiane più arretrate particolarmente legate all’esportazione di prodotti agricoli, inclusa la Sardegna colpita da una enorme ondata di pauperismo. Una vera e propria espulsione di manodopera dalle aziende agricole si risolse in parte nel riversarsi della forza lavoro in altri settori (in particolare nelle aziende minerarie del Sulcis), in parte nell’emigrazione dall’isola.
È in questo momento che fanno la loro timida comparsa in Sardegna i primi nuclei socialisti, soprattutto nel nord e nel Sulcis. Tuttavia è bene sottolineare che la penetrazione socialista nell’isola ebbe grandi difficoltà soprattutto per la scarsa comprensione delle peculiari condizioni locali, problema peraltro molto sentito dal Gramsci adulto e verso il quale tenterà, con grande impegno, di trovare delle valide soluzioni.
Un’ulteriore complicazione veniva dalla recrudescenza di sentimenti anti-statali (mai del tutto sopiti) che portarono con loro i primi germi del nazionalismo sardo, fenomeno al quale si può in parte ricollegare la piaga del banditismo.
In questa complessa situazione la politica sarda si muoveva ancora in prevalenza nei binari della consolidata prassi tipica dello stato italiano liberale dei primi decenni, consistente nell’esercizio del potere politico da parte di singoli personaggi non legati a particolari partiti dotati di un’organizzazione capillare ma in grado di attrarre consensi più o meno diffusi attraverso estese reti di interesse e, così, egemonizzare il panorama politico.
La dialettica politica dell’isola fu la causa del repentino peggioramento della condizione della famiglia Gramsci. Alle elezioni politiche del 1897 si fronteggiavano Francesco Cocco Ortu ed Enrico Carboni Boy.
Probabilmente in virtù dell’aver sostenuto il Carboni Boy, a seguito della vittoria di Cocco Ortu, Francesco Gramsci fu posto sotto inchiesta e sospeso dall’impiego. Processato, fu infine condannato a 5 anni di carcere lasciando la famiglia in ristrettezze economiche.
La situazione fu presa in mano dalla madre che riuscì a far fronte all’estrema miseria grazie a lavori di cucito portati avanti fino a notte fonda, giorno dopo giorno, immagine tenerissima che rimase impressa nella mente del piccolo Antonio, il quale, nel frattempo, aveva iniziato a frequentare la scuola elementare con un anno di ritardo per via delle sue precarie condizioni di salute.
Terminate le elementari Antonio dovette attendere due anni per frequentare il successivo ciclo di studi in quanto la situazione economica lo permise solo nel momento in cui il padre, scarcerato nel 1904 grazie ad un’amnistia, riuscì a recuperare il vecchio posto di lavoro. Nel 1905 riuscì dunque ad iscriversi al ginnasio di Santu Lussurgiu, conseguendo la licenza ginnasiale nel 1908 e iscrivendosi successivamente al Liceo “Dettori” di Cagliari. Durante questi anni di Liceo visse assieme al fratello maggiore Gennaro che lavorava in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo.
A Cagliari Gramsci ebbe il primo contatto con la realtà urbana, arricchendo il suo animo indipendentista con le tesi socialiste che andava conoscendo in maniera viepiù maggiore attraverso materiale che gli veniva fornito dal fratello Gennaro, tornato socialista dal servizio militare effettuato in Piemonte. Nel contempo inizia a riflettere sui fatti più importanti del recente passato sardo e sui motivi alla base dell’arretratezza dell’isola riconducendola ai rapporti tra dominanti e subalterni, oppressori ed oppressi, rifiutando con forza le tesi riguardo una presunta inferiorità etnica degli isolani.
Molto importante nel periodo cagliaritano di Antonio sarà l’amicizia con il professore Raffa Garcia, direttore de “L’Unione Sarda” ed insegnante di lettere al Dettori. Fu lo stesso Garcia, colpito dalle qualità intellettuali del giovane Gramsci, a consegnargli la tessera di giornalista nel 1910 cosicché Antonio poté, nello stesso anno, vedersi stampato il suo primo articolo.
Conseguito il diploma nel 1911, partecipa ad un concorso indetto dall’Università Carlo Alberto di Torino per l’assegnazione di borse di studio riservate agli studenti poveri, riuscendo ad ottenerne una grazie alla quale potrà iscriversi alla facoltà di Lettere.
A causa di continui problemi di salute Antonio proseguirà gli studi universitari per alcuni anni con grosse difficoltà, finché decise di abbandonarli del tutto. Nonostante ciò il periodo torinese incise notevolmente sulla sua formazione culturale.
Torino era sostanzialmente una città operaia dove il tema della lotta di classe si faceva sempre più attuale. E, a contatto con tale ambiente, Gramsci scopre i valori della solidarietà operaia e dichiara di aver compreso davvero il pensiero di Marx a partire dal periodo torinese. A coronamento di questo percorso, nel 1913 si iscrive al Partito Socialista.
Pur diventato socialista a pieno titolo, Antonio non dimenticherà mai la Sardegna, come potranno verificare diversi personaggi che avranno modo di conoscerlo a fondo. Dirà di lui Togliatti: «era, allora, nei primi anni della giovinezza, fieramente non soltanto sardo, ma, direi, sardista».
Il sardismo è riscontrabile in numerose situazioni, come nella scelta, per le elezioni del 1913, di aderire al movimento antiprotezionista di Deffenu e Fancello e nel forte interesse che mostrerà, nel corso del successivo decennio, nei confronti degli orientamenti ideali e della politica del Partito Sardo d’Azione, tenendo peraltro una fitta corrispondenza con Emilio Lussu.
A Torino, insomma, il ribellismo sardo si fonde con il rivoluzionarismo socialista. Qui si creano i presupposti per lo sviluppo del pensiero gramsciano, la cui somma originalità starà proprio nella capacità di coniugare socialismo e sardismo in un unicum il quale, seppur risalente quasi un secolo fa e forgiato nella vulcanica civiltà europea della prima parte del XX secolo, può rivelarsi ancora valido e in grado di offrire spunti di riflessione per comprendere meglio quell’intricato enigma che è il mondo dei giorni nostri.
- Dalla Grande Guerra a “L’ordine nuovo”
Con l’uccisione di Francesco Ferdinando d’Asburgo il 28 giugno del 1914, in Europa si mette in moto il sistema di alleanze e controalleanze che, nel giro di un mese, porterà allo scoppio del primo conflitto mondiale. Questo avvenimento fu solo la scintilla che fece deflagrare un instabile equilibrio politico europeo, precario già da diverso tempo per via di numerosi fattori (il militarismo e la sfida all’Inghilterra da parte della Germania guglielmina, l’indebolimento interno dell’Austria-Ungheria, le frizioni tra le potenze europee per il controllo del mondo colonizzato, la bipolarizzazione dei rapporti diplomatici in Europa,…).
A spingere alla rapida escalation bellica contribuì, peraltro, anche il successo, nelle maggiori potenze europee, di linee di pensiero anti-pacifiste e nazionaliste.
Come noto l’Italia rimase inizialmente estranea al conflitto, mantenendo una linea prudentemente neutrale ma non in senso assoluto. Una consistente componente delle forze economiche, politiche e sociali del Paese, una volta accantonata l’ipotesi di entrata in guerra con gli Imperi Centrali, considerò l’eventualità di schierarsi con l’Intesa.
In breve nel fronte interventista confluirono correnti estremamente eterogenee: repubblicani, socialriformisti, radicali, nazionalisti, liberali conservatori. Il mondo socialista italiano, contrariamente a quel che accadde in altri Paesi europei, si schierò da subito in maniera netta per la neutralità.
Tuttavia, uno dei leader socialisti più in vista, Benito Mussolini, già nell’autunno del 1914 smette di appoggiare la neutralità assoluta del socialismo italiano per schierarsi su posizioni meno categoriche. In particolare scrisse sull’”Avanti!” un articolo in cui propagandava la ‘neutralità attiva ed operante’. Secondo Mussolini la strada da seguire non era, insomma, una neutralità totale ad ogni costo che avrebbe finito per ghettizzare il Partito Socialista isolandolo completamente dal discorso politico italiano. Bisognava invece rimanere si neutrali, ma in maniera ‘attiva’, vale a dire osservando con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti e cogliendo qualunque occasione si presentasse a vantaggio del popolo in generale e dei disegni rivoluzionari socialisti in particolare, anche se questo avesse significato entrare in guerra nell’immediato futuro. La guerra, inoltre, alla sua conclusione, avrebbe probabilmente portato ad una instabilità politica e istituzionale in grado di offrire spiragli per un’eventuale azione rivoluzionaria socialista.
L’articolo in questione causò malumori e reazioni furibonde in seno al Partito che culminarono con l’espulsione di Mussolini dallo stesso (peraltro il futuro dittatore approderà presto a posizioni pienamente interventiste difese sulle pagine del suo nuovo quotidiano, “Il Popolo d’Italia). In questo frangente è bene dire che Gramsci difese la posizione di Mussolini in un articolo comparso sul settimanale “Il grido del popolo” temendo che la neutralità assoluta avrebbe portato «ad una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei nostri diritti». Tuttavia, in linea generale, la critica alla guerra caratterizzò gli articoli del giovane Gramsci votati alla polemica contro i nazionalismi e alla difesa dei valori internazionalisti della dottrina socialista.
Nonostante ciò la Grande Guerra fu fondamentale nella formazione del pensiero gramsciano. Se il Gramsci del 1914 è ancora uno studente votato soprattutto verso studi glottologici, quello del 1918, forgiato dagli sconvolgimenti del conflitto e della rivoluzione bolscevica, è un maturo pensatore e attore della politica italiana. Il suo pensiero è che la guerra abbia agito da fattore di mobilitazione del masse e motore delle crisi istituzionali dei regimi borghesi, ingrandendo la società, vale a dire abbia contribuito a ridestare le masse popolari sensibilizzandole nei confronti delle dinamiche socio-politiche consentendo loro un pieno ingresso nei processi storici in qualità di soggetti attivi. Ha, insomma, favorito lo sviluppo in esse di una coscienza di classe.
Come accennato poche righe addietro, anche la rivoluzione bolscevica destò un forte interesse in Gramsci, particolarmente solidale con le teorie, e soprattutto l’operato di Lenin. Una delle particolarità più clamorose della rivoluzione bolscevica fu che riguardò uno stato profondamente arretrato come la Russia, nel quale, secondo la dottrina marxista, non ci sarebbero dovute essere le condizioni per il successo di una rivoluzione proletaria. In linea teorica la società russa avrebbe dovuto attendere lo sviluppo di una moderna classe borghese perché il proletariato potesse anche solo pensare alle sue rivendicazioni di classe. I fatti storici dimostrarono l’insussistenza del determinismo marxista, peraltro da tempo negato da Lenin che interpretava in chiave idealistica il pensiero del filosofo di Treviri.
Se il pensiero di Lenin fu tanto importante per Gramsci, e fu da lui ritenuto l’apice della cultura socialista, anche la cultura borghese manifestò importanti novità. Nel gennaio del 1918 il presidente americano Wilson enunciò i cosiddetti “Quattordici punti”, coi quali esponeva i principi secondo cui sarebbero dovuti essere gestiti i rapporti internazionali per far sì che non si riproponessero le condizioni per la deflagrazione di un nuovo grande conflitto. In particolare si auspicava uno sviluppo delle relazioni economiche internazionali nel segno del libero commercio, argomento che trovò il consenso di Gramsci, avverso a qualunque forma di protezionismo in quanto foriera di frizioni con i partner commerciali e destabilizzante per le relazioni tra stati.
Con la fine della guerra si apre il tema del possibile crollo del sistema capitalistico. I Paesi vinti (Germania e Austria) vivono stagioni estremamente travagliate caratterizzate da tremende crisi economiche (in particolare nella repubblica di Weimar) e dai tentativi dei movimenti socialisti di sfruttare questo momento per raggiungere l’agognata meta della rivoluzione proletaria, tentativi frustrati dalla ferma reazione delle forze borghesi. Ma, nonostante figurasse tra i vincitori, anche l’Italia vive situazioni analoghe. In particolare il biennio 1919-1920, in quanto caratterizzato dalla grande vitalità dei socialisti nonché da numerose agitazioni sociali, sarà ribattezzato come il “biennio rosso”. In seno al PSI assistiamo in questi anni alla prevalenza della corrente massimalista (anche se i riformisti, pur in minoranza, mantenevano una posizione di forza sia nel gruppo parlamentare che nelle organizzazioni economiche), ma anche alla nascita di correnti più estreme del massimalismo. Soprattutto i giovani del partito (tra cui lo stesso Gramsci) si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all’esempio dei bolscevichi.
Per dar voce a questa linea alternativa di azione socialista venne fondato a Torino il 1° maggio del 1919 il periodico “L’ordine nuovo”. Grazie ad esso il fondatore (Antonio Gramsci) e i suoi principali collaboratori che lo seguirono nell’impresa (Togliatti, Tasca, Terracini,…) ebbero modo di diffondere il proprio programma di azione. In particolare si auspicava la creazione di organismi interni alle fabbriche strutturati sul modello dei soviet russi: i consigli di fabbrica. Tali organi, eletti direttamente dagli operai, si sarebbero dovuti occupare non tanto di problemi sindacali quanto di politica, e raggiungere l’obiettivo della gestione diretta delle fabbriche da parte degli stessi operai, togliendo tale controllo al capitalista. I consigli di fabbrica avrebbero dovuto costituire, secondo Gramsci, la struttura portante del Nuovo Stato Proletario, uno “Stato dei Consigli”. Ciò nel senso anche di un’elaborazione di lungo respiro caratterizzata da una particolare sensibilità verso la ricerca e la definizione di forme di rivoluzione storicamente determinate per ogni nazione. I consigli di fabbrica rappresentavano proprio le forme rivoluzionarie verso cui doveva orientarsi ‘necessariamente’ il movimento operaio italiano.
Le teorie della rivista vennero effettivamente messe in pratica con l’elezione dei consigli in numerose fabbriche italiane, mentre le rivendicazioni dei lavoratori si facevano sempre più pressanti. La risposta del mondo capitalistico fu la serrata delle fabbriche cui fece seguito l’occupazione delle fabbriche stesse da parte degli operai che, in taluni casi, furono perfino in grado di organizzare e portare avanti la produzione in maniera autonoma. Sembravano aprirsi interessanti prospettive per il movimento operaio, senonché non esisteva un’idea precisa su come spostare lo scontro dal ristretto ambito di fabbrica all’attacco generale allo stato borghese, nemmeno all’interno del gruppo dell’ordine nuovo.
L’epilogo del biennio rosso fu affatto deludente rispetto alle prospettive che erano sembrate nascere con l’occupazione generale degli impianti di produzione. L’allora capo del governo Giovanni Giolitti, evitando di intervenire direttamente per riportare l’ordine nelle fabbriche, era riuscito a non far degenerare la situazione e a creare i presupposti per porsi come arbitro della contesa. Il 19 settembre del 1920 riuscì a convincere gli industriali ad accettare buona parte delle rivendicazioni dei lavoratori i quali, come contropartita, spinti a ciò anche dalle pressioni delle organizzazioni sindacali, cessarono le occupazioni. Se da un lato la vicenda si concludeva con una vittoria sindacale da parte degli operai, dall’altro era grande la delusione tra coloro che, nei gloriosi giorni dell’occupazione, avevano sperato in una rivoluzione proletaria italiana.
- La nascita del PCdI
Il fallimento sostanziale delle iniziative socialiste del biennio rosso e le prime avvisaglie del pericolo proveniente dal consolidamento del movimento fascista spingono gli esponenti più marcatamente rivoluzionari del PSI all’abbandono definitivo della linea attendista seguita fino a quel momento dal partito. Per i giovani della minoranza di sinistra era giunto il momento di dare una svolta.
Questi dissidi interni si intrecciarono con le reazioni del partito alle decisioni prese durante il II congresso del Comintern del luglio 1920. Lenin fissò 21 punti a cui avrebbero dovuto aderire i partiti facenti parte del Comintern. Si chiedeva sostanzialmente di uniformarsi al modello bolscevico e in particolare si richiedeva di assumere la denominazione di “Partito Comunista” e di espellere gli appartenenti alle correnti riformiste.
Al congresso del PSI tenutosi a Livorno nel gennaio 1921 massimalisti e riformisti non accettarono queste condizioni e ad abbandonare il partito furono i membri della minoranza di sinistra (tra cui Gramsci). Costoro, che già mesi prima avevano approvato senza riserve le richieste del Comintern e, durante una riunione a Milano, avevano fissato un proprio programma di azione politica, fondarono un nuovo partito, il Partito Comunista d’Italia.
La scissione della corrente di sinistra dal PSI, e la conseguente fondazione del PCdI, fu meno epocale di quanto possa sembrare in un primo momento. Il neonato Partito Comunista, per quanto più votato all’azione e più dinamico rispetto a quello Socialista, continuava a non comprendere a pieno le conseguenze dei passi in avanti del fascismo, compresa la Marcia su Roma dell’ottobre del 1922. Solo alcuni anni dopo, soprattutto grazie ad un’ottima analisi del fascismo da parte di Gramsci, che vedeva i germi di questa deriva presenti già nel passato dello stato borghese italiano, fu possibile riformare la dottrina e l’azione del PCdI di modo che il passato socialista fosse effettivamente superato a tutti gli effetti.
Gramsci fu, infatti, l’unico a percepire precocemente (già nel ’21) il pericolo di un colpo di mano delle forze fasciste appoggiate dalla borghesia italiana. L’analisi del fascismo peraltro fu per lungo tempo argomento di riflessione gramsciana. Esso venne definito come una deriva reazionaria nata come prodotto politico della piccola borghesia urbana e agraria che ha consegnato il potere alla grande borghesia. Nonostante, come detto poc’anzi, il fascismo trovasse le proprie premesse nel precedente panorama politico italiano, rappresentava comunque una cesura netta col passato. Lo stato liberale diventava stato reazionario.
La lotta contro il fascismo dovrà essere condotta attraverso una lotta popolare che veda unite la classe operaia alla classe contadina. Senza l’unione delle due massime forze popolari non sarebbe stato possibile opporsi alle forze reazionarie. Era questo un pensiero notevolmente originale rispetto all’operaismo dominante nel nord Italia, il quale destinava alla sola classe operaia il diritto/dovere di condurre la rivoluzione proletaria dovuto anche alla sensibilità di Gramsci nei confronti delle masse popolari del sud, con particolare riferimento alla Sardegna, inserite in un contesto ancora fortemente arretrato e formate prevalentemente da contadini poverissimi in balia di un potere ‘baronale’, per certi versi legato ancora alle pratiche dell’ancien régime.
Quest’ultimo punto influenzò notevolmente i rapporti di Gramsci con il PCUS. Accolse con entusiasmo la direzione intrapresa in Unione Sovietica in materia di politica economica a seguito del X congresso del PCUS del marzo ’21. Il risultato era una Nuova Politica Economica (NEP) che poneva le basi per la auspicata convergenza di interessi e obiettivi tra masse operaie e contadine. Tuttavia, per gli stessi motivi che lo avevano portato ad appoggiare caldamente la NEP, fu profondamente deluso dal cambiamento di rotta in tal senso intrapreso da Stalin nel 1928 che abbandonò la NEP in favore di un’industrializzazione forzata ai danni delle masse contadine. In questo modo una componente fondamentale delle masse popolari veniva sacrificata in nome della rapida modernizzazione industriale del Paese.
Ulteriore motivo di eterodossia rispetto alla maggioranza del PCUS, che vedeva aumentare di giorno in giorno l’influenza di Stalin, fu la repressione dell’opposizione di sinistra di Zinov’ev e Kamenev, del 1925. Costoro erano sostenitori della rapida industrializzazione del Paese (in un momento in cui Stalin rimaneva ancora orientato a favore della NEP) e della tesi della ‘rivoluzione permanente’. Dal canto suo Stalin riteneva decisamente più realistico e a portata di mano l’obiettivo del ‘socialismo in un solo paese’. Quando ancora la situazione non era degenerata nella persecuzione violenta, ma vedeva semplicemente la corrente di sinistra messa in minoranza e allontanata dal Comitato Centrale, Antonio Gramsci scrisse dall’Italia una lettera (siamo nell’ottobre del 1926) nella quale, per quanto dichiarasse di appoggiare la linea staliniana, riteneva auspicabile una normalizzazione della situazione attraverso un riavvicinamento delle parti, senza giungere a fratture insanabili e persecuzioni vere e proprie. Bisognava mantenere ad ogni costo la coesione del PCUS in quanto, in assenza di ciò, non si sarebbe potuto raggiungere l’obiettivo del trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali.
La lettera non pervenne al PCUS in quanto bloccata da Palmiro Togliatti, membro di spicco del PCdI in quel momento presente a Mosca, in modo da evitare frizioni tra il partito italiano e la ‘centrale’ sovietica.
L’intenzione di Gramsci era di recarsi in seguito di persona a Mosca in modo da discutere i suoi consigli direttamente con la dirigenza del partito comunista sovietico. Tuttavia non avrà mai l’occasione di recarsi in Unione Sovietica.
La situazione in Italia era degenerata a partire dalla marcia su Roma. Il Partito Fascista Italiano era riuscito ad egemonizzare la politica italiana anche attraverso violenze e soprusi (emblematico fu l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti il 10 giugno del 1924 risultato di un clima di violenza e intolleranza instaurato dal nascente regime), e la libertà di azione delle legittime opposizioni politiche, ridotte ad operare in spazi sempre più angusti, dovette subire un letale giro di vite in seguito al fallito attentato dell’anarchico Zamboni ai danni di Mussolini avvenuto il 31 ottobre del 1926. A seguito di questo fatto il regime ritenne opportuno inasprire la repressione dei movimenti di opposizione e negare le più elementari garanzie politiche. L’8 novembre dello stesso anno, Antonio Gramsci, in violazione della immunità parlamentare di cui godeva in virtù del fatto di essere stato eletto alla Camera dei Deputati alle elezioni del 6 aprile del 1924, fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.
- Gramsci prigioniero di Mussolini
Dopo alcuni mesi passati al confino ad Ustica, nel febbraio del 1927 venne trasferito al carcere di San Vittore. Nel frattempo veniva preparato il processo per le accuse di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe che ebbe inizio nel maggio del 1928 per conto del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, sorto alla fine del 1926 allo scopo di giudicare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico e per la sicurezza del regime.
Terminato con un’emblematica frase pronunciata dal pubblico ministero («Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare»), il processo si concluse con la condanna dell’imputato a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Nel luglio del 1927 Gramsci venne tradotto in Puglia, al carcere di Turi.
Antonio non si scoraggiò e non perse la speranza di riguadagnare in breve la libertà. Già prima del processo, durante la detenzione a San Vittore, partorì l’idea di un possibile scambio di prigionieri tra Mosca e il regime fascista. D’altronde questa pratica era tutt’altro che rara, e lo stesso Gramsci collaborò più di una volta negli anni precedenti a trattative in tal senso. Inoltre la possibilità di un accordo tra l’Unione Sovietica e l’Italia fascista era affatto plausibile in quanto i rapporti tra le due nazioni erano migliori di quanto si possa immaginare guardando al futuro prossimo della guerra, fin dal 1924 quando lo stato italiano fu il primo ad allacciare normali rapporti diplomatici con Mosca.
Dunque nel 1927, secondo un progetto proposto da Gramsci, Mosca tenta di aprire trattative con l’Italia attraverso il Vaticano, in quanto si proponeva il rilascio di sacerdoti detenuti in Unione Sovietica in cambio del rilascio di prigionieri politici in Italia, tra cui lo stesso Gramsci. Si richiedeva sostanzialmente un atto di clemenza da parte di Mussolini. Questo primo tentativo non andrà a buon fine in quanto Mussolini, pur rassicurando sull’assenza di pericolo per l’incolumità dei prigionieri politici in attesa di processo, spiegò di non poter emanare nessun atto di clemenza prima della sentenza definitiva.
I tentativi non si fermarono e negli anni successivi Antonio continuò a credere nella possibilità di uno scambio di prigionieri. Togliatti, dal canto suo, ritenne più saggia la strada di un possibile rilascio unilaterale del prigioniero per motivi di salute (vista la gravità del morbo di Pott di cui Gramsci soffriva fin da bambino) o, eventualmente, familiari. Per arrivare a questo risultato tentò, nel 1928, di convincere Bucharin, allora ancora nelle grazie di Stalin, a proporre la questione a Mussolini attraverso l’intercessione dell’esploratore Umberto Nobile. Costui aveva effettuato in quello stesso anno una seconda spedizione tra i ghiacci dell’artico, nella quale era rimasto bloccato assieme al suo equipaggio. Recuperato da un aereo leggero svedese, era riuscito a trarre in salvo il resto dell’equipaggio grazie all’intervento della rompighiaccio sovietica Krassin. La speranza di Togliatti era che questo fatto potesse aiutare ad aprire qualche spiraglio in direzione della liberazione del prigioniero ma così non fu.
Dopo anni di prigionia anche Gramsci abbandonò la prospettiva della possibilità di uno scambio tra prigionieri e, nel 1932, propose al proprio partito di verificare la possibilità di richiedere la sua liberazione in qualità di atto unilaterale di liberalità. La speranza era che nella riuscita della proposta contribuisse un’eventuale decisione di Mussolini di garantire l’amnistia in vista del decennale della marcia su Roma. Tuttavia anche questa possibilità sfumò senza alcun risultato.
Ad ogni modo il lungo tempo passato in carcere non trascorse inoperosamente. Già dal periodo di detenzione a San Vittore Gramsci aveva sentito il bisogno di occuparsi sistematicamente di qualche soggetto che «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». La soddisfazione di tale bisogno gli venne concessa durante la lunga detenzione a Turi dove finalmente ottenne l’occorrente per scrivere. Abituato a scrivere su fogli sciolti durante la precedente attività di giornalista, dovette però accontentarsi di scrivere su quaderni. Ciò in quanto le regole di detenzione prevedevano uno stretto controllo del materiale scritto prodotto dai carcerati e il formato del quaderno si prestava decisamente meglio ad essere esaminato senza il timore che parte della produzione scritta venisse nascosta o comunque sfuggisse in qualche modo all’attento occhio dei carcerieri rispetto a dei fogli di carta facilmente occultabili. Come ausilio al suo lavoro di riflessione ed elaborazione, chiese numerosissimi libri da leggere nella sua cella, di economia, storia, politica, filosofia, spesso inviatigli dall’esterno nei limiti di ciò che poteva essere consentito stanti le rigide regole del carcere anche rispetto al contenuto dei libri. Ottenne, inoltre, l’autorizzazione a ricevere quotidiani e riviste, anche in questo caso previo consenso delle autorità rispetto al contenuto degli stessi.
Ad ogni modo, grazie al materiale concessogli, Gramsci poté iniziare a stendere per iscritto i propri pensieri e le proprie riflessioni. Caratteristico era il suo modo di lavorare: coloro i quali ebbero modo di osservarlo durante la sua produzione riferiscono che era solito riflettere a lungo camminando per la sua cella. Una volta elaborato un pensiero o una riflessione si chinava sul tavolino per scrivere, senza nemmeno sedersi ma tenendo un ginocchio sullo sgabello come appoggio. Terminata la parte elaborata riprendeva a camminare e riflettere e via così. Presero in questo modo forma i celeberrimi “Quaderni del Carcere”, del cui contenuto si parlerà nella parte successiva.
Quantunque detenuto, poté ugualmente comunicare con l’esterno grazie alle frequenti visite della cognata Tatiana Schucht (sorella della moglie Giulia nel frattempo ritornata in Unione Sovietica). Per tramite di Piero Sraffa, Tatiana poteva in questo modo far conoscere il pensiero e le considerazioni di Gramsci al PCUS e al PCdI. Così facendo Antonio non si trovò mai davvero totalmente isolato dalla temperie politica e culturale che caratterizzava il mondo esterno, pur nei limiti, enormi, che la condizione di carcerato chiaramente imponeva.
La vitalità mentale di Gramsci contrastava con un fisico sempre più debilitato anche a causa delle dure condizioni di detenzione. Nel 1931 fu colpito da arteriosclerosi ed ebbe un’improvvisa quanto grave emorragia. Le sempre più rare lettere inviategli dalla moglie (sofferente di una seria forma di depressione) contribuivano inoltre a farlo sentire sempre più isolato dal mondo degli affetti. Nel 1933 una seconda grave crisi emorragica fece temere il peggio. Si riprese parzialmente ma mai più del tutto. Le condizioni di salute in continuo peggioramento spinsero diversi intellettuali europei a richiedere sempre più a gran voce il rilascio di Gramsci, o, quanto meno, migliori condizioni di detenzione che consentissero un’adeguata assistenza sanitaria. Spinto dalla forte pressione internazionale Mussolini si vide costretto a farlo trasferire prima nell’infermeria del carcere di Civitavecchia, poi in una clinica di Formia dove gli fu concessa la libertà
condizionata pur impedendogli di curarsi altrove per timore di una sua fuga all’estero. Nel 1935 fu infine trasferito in una clinica di Roma in gravi condizioni anche per via del subentrare dell’ipertensione e della gotta.
Ottenuta la piena libertà il 21 aprile del 1937, si spense pochi giorni dopo, il 27 aprile, a causa di un’emorragia cerebrale.
- I Quaderni del Carcere
Dal 1929 al 1935 Gramsci riempì di pensieri e riflessioni ben 33 quaderni, portati a Mosca dopo la sua morte e pubblicati una prima volta dall’editore Einaudi alla fine degli anni ’40 secondo un ordine tematico. Una seconda edizione, figlia di una più accurata operazione di analisi critica, cronologica e filologica, vide la luce nel 1975. Per quanto fosse auspicabile fin da subito una certa attenzione all’ordine cronologico, si presentavano in questo senso non poche difficoltà sia per via dei rarissimi riferimenti temporali lasciati dall’autore, sia per via del fatto che la sua vulcanica mente lavorò in maniera discontinua, a prima vista forse disordinata, magari iniziando una digressione su un determinato argomento per poi lasciarlo temporaneamente in sospeso in modo da curarne altri, ed infine riprenderlo in mano molto tempo dopo. Tuttavia il disordine è solo apparente, mentre ciò che davvero emerge è l’eclettismo dell’autore, in grado di spaziare liberamente tra argomenti anche molto distanti tra loro e tratteggiare, infine, un quadro culturale generale veramente impressionante in quanto a varietà e precisione.
Avendoli potuti osservare di persona durante sono stato colpito dalla minuscola e ordinata scrittura, molto elegante (prodotto anche dell’insegnamento calligrafico caratterizzante la scuola italiana degli anni che furono, davvero fruttuoso in questo caso). Rarissime le cancellature, peraltro risolte in larghi tratti obliqui che lasciano leggere abbastanza agevolmente ciò che giace sotto di loro, quasi a voler tener traccia di ogni singolo tassello del filo conduttore dei suoi pensieri. Totalmente assenti (per lo meno per quanto riguarda ciò che ho potuto osservare) eventuali correzioni, indice di estrema accuratezza e consapevolezza al momento dell’elaborazione mentale, in piedi, passeggiando avanti e indietro nella piccola cella, come descritto in precedenza.
Ritornando al contenuto dei quaderni, una prima impalcatura all’opera si trova subito nel primo quaderno, nel quale Gramsci indica gli argomenti che intende trattare in un indice suddiviso in 16 materie, struttura in seguito rimaneggiata man mano che il lavoro prendeva corpo.
Come già accennato, le materie di studio e riflessione sono piuttosto variegate, si va dalla ripresa dello studio della lingua tedesca alla linguistica, passando per la filosofia politica (Machiavelli in primis) e per la letteratura italiana (con la Divina Commedia a detenere, come ovvio che sia, un posto privilegiato).
Gramsci dichiarò fin da subito l’intenzione di non voler trascorrere infruttuosamente la detenzione ma, al contrario, di voler utilizzare il tempo con lo studio di tutto ciò che ritenesse degno di occupazione, anche in virtù della libertà (se di libertà si può parlare data la sua condizione) di poter trattare determinati argomenti nella loro natura più pura, svincolato dalle possibili influenze di contesti socio-culturali dai quali era irrimediabilmente escluso in maniera pressoché totale.
Tra le innumerevoli elaborazioni, ritengo giusto concludere questa relazione citando la teoria dell’egemonia, forse la più pregnante e feconda di ulteriori sviluppi dell’intero universo dei Quaderni del Carcere. Si tratta, è vero, solo di una piccola parte dell’oceano del pensiero gramsciano, ma è pur vero che, non potendo per ovvi motivi una relazione sintetica trattare nello specifico questa immensa mole, ed essendo a mio parere inutile un banale elenco degli argomenti, citare un unico caso esemplare come questo risulta la scelta più saggia.
Per egemonia Gramsci intende l’azione e la condizione per cui una classe può mantenere il controllo sociale di un determinato Paese. La conquista di tale posizione comporta che la classe egemonica manifesti una vera e propria supremazia sulla politica e sulle forze sociali attraverso la direzione intellettuale e morale di gruppi affini e alleati e il dominio su quelli che ad essa si oppongono. Ogni Paese ha una storia a sé ma è possibile studiare dal punto di vista dell’egemonia qualunque storia nazionale in modo valido in quanto analizzare chi e come in ciascun Paese abbia raggiunto l’egemonia significa comprendere lo sviluppo della società di quel determinato Paese e individuare le forze sociali che in esso agiscono (ad esempio l’analisi di come la borghesia giacobina francese della fine del XVIII secolo abbia raggiunto un ruolo di direzione su forze sociali affini, in particolare sulle masse contadine, e si sia posta in una posizione di dominio rispetto ai ceti nobiliari e clericali, aiuta a comprendere lo sviluppo e la composizione della società della Francia del periodo rivoluzionario).
Ora, questo tipo di analisi non si limita solo allo studio di eventi del passato, bensì può essere lo strumento dell’elaborazione di possibili scenari futuri di egemonia delle classi subalterne. Nel momento in cui la classe dirigente e dominante non riesca più a rappresentare intellettualmente e moralmente l’intero blocco delle forze sociali da essa dirette, si perviene ad una crisi dell’egemonia che apre spiragli per una possibile rivoluzione da parte delle classi subalterne nella misura in cui queste ultime riescano ad indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti e ad allargare la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali. In questo modo si crea un nuovo blocco sociale coeso attraverso l’azione del quale le classi subalterne possono raggiungere l’egemonia.
Nel caso pratico dell’Italia (della quale, come è ovvio che sia, Gramsci si preoccupa nello specifico) l’egemonia viene esercitata, nel momento in cui vengono scritti i quaderni (e, aggiungo io, probabilmente ancora oggi, con le dovute correzioni di ordine storico) da un’alleanza tra industriali, finanza, proprietari terrieri e classi medie. Un’alleanza non omogenea, attraversata da interessi divergenti, e tuttavia tenuta in piedi mediante un sistema ideologico che impedisce alla incipiente divergenza di interessi di esplodere in rottura aperta. Inoltre vi è una continua azione delle forze del blocco in questione volta ad impedire che le classi subalterne possano raggiungere un livello di coesione tale da minacciarne l’egemonia. L’unico modo che hanno le classi subalterne di superare questo ostacolo e pervenire all’unificazione di interessi ed obiettivi tra le loro diverse componenti, direzione verso cui tendono per la loro stessa natura, è maturare una precisa coscienza di classe. Con questo si intende il raggiungimento di una concezione superiore della vita, della consapevolezza della propria condizione di subordinazione e, conseguentemente, della funzione che queste stesse classi possono svolgere.
Per sviluppare questa autocoscienza critica, e organizzarsi in modo da superare lo status di componente passiva e diventare attori del contesto storico-sociale, le classi subalterne hanno bisogno di produrre un’élite di intellettuali, intesi come specialisti dell’elaborazione concettuale e filosofica, che possano gettare le basi per lo sviluppo di un’ideologia propria e per la valorizzazione dei propri valori culturali. Imponendo alla società tale ideologia e tali valori una classe politica emergente diviene in grado di esercitare la propria egemonia sulla società stessa.
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