Wilson, Ward (2013), Five Myths About Nuclear Weapons, Mariner Books, New York.
Five Myths About Nuclear Weapons è un saggio di Ward Wilson, edito dalla Mariner Books di New York nel 2013 ma ancora e più che mai attuale. War Wilson è senior fellow al British American Security Information Council (BASIC), esperto di armamenti atomici e perspicace ricercatore. Questo libro è senza dubbio uno dei migliori lavori usciti su questo argomento, in cui domina una sorta di pensiero unico, formato dalle riflessioni di esperti della teoria dei giochi che hanno poi applicato la logica astratta alla deterrenza nucleare (per esempio Kahn e Shelling). Proprio per le cinque tesi (i cinque miti) di cui parla il titolo, il libro si pone come obiettivo una sana critica concettuale e logica di alcuni assunti fondamentali che ancora guidano il pensiero degli analisti sulla deterrenza nucleare. Va da sé che in questi ultimi mesi, in cui si è a lungo riparlato di armi atomiche e termonucleari, questo libro, naturalmente non tradotto in italiano, risulta salutare e davvero illuminante.
Cinque tesi per cinque miti per cinque capitoli. Il primo titola “Nuclear weapons shock and awe opponents” ovvero “le armi atomiche sconvolgono e sorprendono i nemici”. Questa affermazione, secondo Wilson, è diventata canonica dopo le due bombe sganciate a Hiroshima e Nagasaki, le quali indussero la resa del Giappone. Ma Wilson porta numerosi argomenti per dimostrare che non furono le due bombe atomiche a indurre la resa al Giappone. In primo luogo, ciò che bisogna assumere non è che il Giappone pensasse di vincere la guerra. I giapponesi protraevano una guerra già persa e percepita persa solo per imporre delle migliori condizioni di resa nelle trattative di pace (cosa che spesso si dimentica perché nella seconda guerra mondiale, che ancora ci ottenebra le menti, gli alleati imposero solo rese incondizionate). Il Giappone si arrende il giorno dopo in cui l’URSS dichiara guerra al paese del Sol Levante, invade la Manciuria (allora occupata da truppe giapponesi male in arnese per i frequenti richiami per difendere le isole patrie) e l’isola di Sakhalin, una gigantesca isola che sta proprio sopra l’isola di Hokkaido, la terza più a nord delle isole patrie giapponesi. Wilson riporta anche testimonianze dirette dell’élite giapponese che non sembra particolarmente sconvolta dalle atomiche quanto invece dall’ingresso dell’URSS e dell’apertura del secondo fronte, diametralmente opposto (nord-ovest) all’avanzata americana (da sud-est). Non solo, ma Wilson ragiona in termini molto concreti. Egli ci ricorda che la distruzione delle città è un fatto antico nella storia ma che, pur nella sua antichità, ha raramente se non mai determinato la fine di guerre. Inoltre, i bombardamenti convenzionali degli americani hanno causato la distruzione di più città senza alcuna necessità dell’arma atomica. In particolare, in termini di potere distruttivo, il bombardamento di Tokio è stato (in termini di km2 distrutti) ben più devastante. Un effetto peculiare, poi, danno le immagini fornite di più di un bombardamento in cui è davvero impossibile distinguere i risultati dei bombardamenti convenzionali da quelli nucleari. Infine, le città giapponesi erano già virtualmente distrutte e per questo gli americani già bombardavano centri sempre più piccoli (fino a 30.000 persone). La bomba atomica, però, era un’ottima scusa per sviare l’attenzione delle responsabilità politiche dell’imperatore e della gerarchia militare. Infatti, questi potevano invocare la resa per via di una super-arma persa nella corsa tecnologica. Una scusa obiettiva, secondo Wilson, che riporta interessanti stralci di diari di diplomatici e militari giapponesi.
Il secondo capitolo, H-Bomb Quantum Leap (Il salto quantico della bomba-H) è altrettanto interessante. Il primo capitolo mostra che le bombe atomiche (cioè quelle A, sganciate su Hiroshima e Nagasaki) non determinarono la resa del Giappone né un particolare shock nell’élite, a differenza dell’apertura del secondo fronte. Tuttavia, il secondo capitolo avanza di grado. Sebbene non abbiamo prove, sappiamo che le bombe termonucleari (che in soldoni funzionano fondendo l’atomo di idrogeno e che richiedono la previsa esplosione di un ordigno nucleare) sono molto più distruttive di quelle atomiche. Questo è vero. Ma quanto sono più distruttive? In termini di energia rilasciata, le bombe H sono circa 1000 volte più capaci di quelle A. Ma pochissimi sanno (e il recensore per primo) che non c’è un principio di proporzionalità tra l’energia rilasciata e il potere distruttivo. Infatti, osserva Wilson, questo sembra ovvio (1000 volte energia rilasciata = 1000 volte potere distruttivo, per esempio in proporzione di potere distruttivo del raggio del vento atomico). E infatti non è così. Secondo i calcoli di Wilson, la bomba H è più distruttiva di quella A di poco più del 50%. Questo non significa naturalmente che sia qualcosa di meraviglioso, ma solamente che questo presunto “salto atomico” non c’è. E quindi si rinnova la domanda: ma allora a che servono le armi atomiche? Se servono a distruggere città, la bomba A era già sufficiente, nonostante il fatto che appunto distruggere città è un atto mostruoso ma non determina la fine delle guerre, nonostante tutto. E su questo, purtroppo, Ward sembra stare dalla parte della ragione: si può discutere, ma è un fatto che nel passato sostanzialmente un numero trascurabile di guerre sono terminate a seguito della distruzione di una o più città dalle fondamenta mentre la stragrande maggioranza non è finita e invece è proseguita.
Il terzo capitolo Nuclear deterrence works in a crisis (la deterrenza nucleare funziona nelle crisi) smonta l’idea che la deterrenza nucleare, cioè la paura nei confronti delle armi atomiche, previene le crisi. Non solo questo si è dimostrato falso in molte circostanze (considerate da Wilson), ma non ha neppure preventivato la possibilità di guerre locali in cui c’era asimmetria nucleare, dimostrando il fatto che le armi atomiche non necessariamente riescono a dissuadere l’avversario dal combattere. E purtroppo anche qui Wilson ha molte frecce al suo arco: la guerra tra Israele e gli stati arabi, la guerra in Vietnam, la guerra in Corea, la guerra in Afghanistan (sia dell’URSS che USA), la guerra in Iraq (prima e seconda) sono solo alcuni casi in cui la guerra c’è stata nonostante l’asimmetria nucleare. Quindi, se le bombe atomiche e termonucleari servono a persuadere, sicuramente non sempre riescono a dissuadere.
Il quarto capitolo “Nuclear Weapons Keep us Safe” (Le bombe atomiche ci rendono più sicuri) considera il problema della sicurezza fondata sulle armi atomiche. La conclusione a cui ne arriva Wilson non è soltanto che le armi atomiche infatti non ci rendono più tranquilli per via della deterrenza che non sempre funziona ma che comporta il rischio reale dell’impiego di qualche ordigno. La tesi è che le armi atomiche sono inutili. Questo si mostra in due modi. Il primo è che si è cercato in tutti i modi non di renderle più grandi (cosa potenzialmente possibile visto che non c’è un limite superiore alla fusione, basta aumentare la grandezza della bomba) ma più piccole, per avere un impiego sensato non contro le città, ma contro le truppe. Ma anche lì si è visto che non sono maneggevoli, sia perché spingono l’avversario all’escalation, sia perché non sono sicure neppure per chi le usa. Come mi disse un marinaio di un sottomarino nucleare a Baltimora, impiegato volontario nel museo navale: “noi avevamo anche siluri atomici da usare contro una grande concentrazione navale” e alla domanda e voi che fine facevate? Il marinaio sorrise e disse “beh, a noi ci dissero che avevamo lo spazio e il tempo per fuggire, ma nessuno ne era molto convinto”. Mutatis mutandis, le armi atomiche sono scomode anche sul terreno. Quindi non rendono più sicure, al contrario rendono più insicuri di due estremi del conflitto.
Infine, l’ultimo capitolo “There is no alternative” (Non c’è alternativa) cerca di mostrare l’infondatezza della tesi secondo cui le armi atomiche una volta inventate non si possono disinventare. Ma, sostiene Wilson, non è questo il punto. Molta tecnologia del passato non è mai stata usata ed è lentamente scomparsa non perché disinventata ma perché inutile. Egli porta diversi esempi, non tutti così convincenti, ma il concetto risulta efficace. La tecnologia si abbandona quando termina di essere utile e impiegata. Secondo Wilson, dunque, le armi atomiche devono scomparire non perché siano troppo pericolose (certo, anche per questo) ma soprattutto perché ingombranti, pericolose per tutti e neppure decisive. E questo ci porta alle tesi generali del libro.
Prima di tutto, le armi atomiche non sono utili. Sono ingombranti e non conseguono a grandi vantaggi militari. In secondo luogo, esse hanno oscurato la capacità delle persone di ragionare in termini scientifici sul problema. Infatti, Wilson osserva che le parole impiegate per parlare degli ordigni nucleari sono tratte da testi mitici (olocausto nucleare, armageddon, apocalisse…) che parlano appunto della fine del mondo, come uno schiocco di dita. Anche Wilson, come altri prima di lui, osserva che anche nel più clamoroso dei casi, ben difficilmente l’intera razza umana finirebbe. Quel che di sicuro finirebbe sarebbe non tanto la cultura quanto un certo stile di vita e un certo modo di vivere comunitario. Ma questo non è l’apocalisse, certo il peggiore dei casi ma non l’estremo dei casi. Wilson ne conclude che bisognerebbe avere un approccio più critico e più razionale nei confronti delle armi atomiche che senz’altro vanno diminuite o eliminate proprio perché, in ultima istanza, pericolose senza essere utili. Infine, il principale motivo per cui le bombe atomiche ancora esistono è che per essere presi sul serio sulla scena internazionale bisogna avere le armi atomiche. Wilson porta l’esempio del denaro: esso non si può mangiare né bere ma ci serve perché lo impieghiamo come misura universale dei beni che scambiamo. Le bombe atomiche hanno un simile ruolo politico. Esse servono per mostrare la propria credibilità sul piano delle relazioni internazionali.
Dopo tutto il gran parlare delle armi termonucleari in questo periodo un libro simile è davvero una lettura catartica. Se anche non sempre Wilson riesce ad essere incisivo allo stesso modo, questa è un’opera straordinariamente originale, capace di scalfire anche il più convinto sostenitore di una tesi assunta per buona sulle armi atomiche. Si tratta di un libro davvero ben scritto e intelligente, in cui obiettivamente non si può non rimanere indifferenti. Un lavoro di straordinario acume che spinge ad ulteriore analisi e riflessione. Pur non essendo tradotto in italiano (come molti lavori eccellenti che si suppone non interessanti per il pubblico), Wilson ha una prosa semplice è chiara in un inglese abbordabile ad un lettore anche medio-basso. Mentre per un lettore avanzato si tratta di una lettura che si finisce letteralmente in poche ore.
Ward Wilson
Five Myths About Nuclear Weapons
Mariner Books
Pagine: 187
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