A Savage War of Peace narra le vicende della guerra di Algeria, combattuta tra la Francia e tra i diversi gruppi di liberazione nazionale, tra cui FLN (Fronte di Liberazione Nazionale). Si tratta di una delle guerre più ignorate dall’Europa Occidentale, perché la sua cattiva coscienza viene semplicemente messa a nudo.
(1) E’ stata una guerra durata di fatto più di otto anni, in un territorio da sempre mira del controllo delle potenze dell’Europa (dall’impero romano in poi) per ragioni che oggi diremmo “geopolitiche”, ruggente parola di moda che si applica sempre volentieri, come il silicone Saratoga, utilissimo per appiccicare qualsiasi cosa. (2) La guerra in Algeria è iniziata quasi subito dopo la seconda guerra mondiale: egli europei pacifici, gente saggia. (3) I francesi non hanno risparmiato nessun mezzo a loro disponibile pur di ottenere la vittoria (mancata), compresa la tortura, l’uso dell’air power, il napalm e le catastrofiche rappresaglie più o meno spontanee sulla popolazione civile chiamate in modi irripetibili, tra cui ratonnade e varianti che anche un lettore digiuno della lingua della diplomazia estinta come me sa benissimo comprendere nel suo pieno senso derogatorio. (4) I risultati della guerra sono stati catastrofici per la Francia, che ha rischiato il colpo di stato militare, la guerra civile e che ha visto il termine della quarta repubblica.
La guerra in Algeria, dunque, mostra che gli europei non sono diventati più saggi dopo la “lezione”, presunta tale, della seconda guerra mondiale. In secondo luogo, essa ha mostrato che la guerra totale non è, non è mai stata né sarà mai l’unica forma di guerra. Inoltre, la guerra in Algeria mostra che la fine degli imperi europei non ha significato la sparizione subitanea degli europei e dei loro interessi dopo la “ritrovata saggezza” post-1945. Gli europei hanno continuato a perseguire i loro interessi anche per mezzo dell’uso della guerra e di tutte le sue conseguenze. Non è vero che l’Europa ha conosciuto oltre settant’anni di pace e non è vero che il terrorismo è figlio dei nostri tempi. Gli attentati terroristici durante la guerra in Algeria sono stati ben altra cosa di quei due o tre attentati dell’ISIS.
Tutto questo viene restituito dal libro monumentale di Alistair Horne, storico inglese che ha dedicato la sua intera ricerca alle sorti della Francia e che ha passato l’esistenza a scrivere volumi importanti e voluminosi, tra cui A Savage War of Peace, il cui titolo è ripreso da un celebre verso di una poesia di Rudyard Kipling, cantore dell’imperialismo eurocentrico e (soprattutto) britannico ma assurto a simbolo di bardo dell’imperialismo tout court e quindi di tutto ciò che l’Europa si sforza di dimenticare. Ma Alistair Horne non è il genere di storico che è cerca di trarre qualche considerazione in più rispetto a riportare i fatti del passato, in una loro più o meno presunta obiettività.
Innanzi tutto, si tratta di una ricostruzione fattuale più che casuale della guerra in Algeria. Si discute anche sulla natura causale degli avvenimenti, ma l’obiettivo generale dell’opera è riportare fatti cronologicamente ordinati più che ricomporli in un ordine di causa ed effetto, come è per altro tipico di una certa tradizione anglosassone, amante di cesellare il passato come un puzzle più che fornire un chiaro quadro di insieme in cui ricollocare poi i fatti. Il lettore, allora, potrebbe chiedersi sino a che punto si trovi di fronte ad un libro di storia e non ad una sorta di “cronaca dei fatti del passato”, giacché tra i due generi di narrativa esiste una differenza e un peso diverso. A Savage War of Peace risulta allora un libro molto completo e vagamente insoddisfacente allo stesso tempo, almeno rispetto al problema di una analisi causale di un fenomeno così complesso come è stata la guerra d’Algeria, una guerra post-coloniale con tratti di guerra civile e guerra rivoluzionaria allo stesso tempo (e per le medesime ragioni).
Inoltre, per quanto si sia trattata di una “guerra”, appunto, A Savage War of Peace dedica troppo poco spazio alla discussione dei fatti d’arme, lasciati quasi sempre sullo sfondo della ricostruzione politica degli eventi. Ed è un fatto rimarchevole, che questa storia sia così poco “militare” pur essendo stata così significativamente dominata dagli aspetti tattici della guerra, assurta ad esempio di tutte le guerre di questo genere: oggi un film come La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (citato due o tre volte da Horne) è usualmente riproposto nelle accademie militari americane per mostrare come funziona una guerra rivoluzionaria e il libro di Horne stesso è considerato in questi ambienti per questo scopo. Si parla addirittura più della tortura, che fu un caso politico e sociale in Francia, che dei fatti d’arme veri e propri: non perché non si dovesse parlare estensivamente della tortura, perché il punto è che si doveva parlare anche di altro. Neppure il 10% del libro è dedicato ad una trattazione sommaria di come si svolgevano i combattimenti, per non parlare del fatto che, ancora una volta, si tratta di una trattazione anche minuziosa ma del versante francese. E seppure si vuole ancora una volta accondiscendere sul fatto che la Francia, ben più che l’Algeria, fosse stata disposta a dischiudere i contenuti degli archivi e dei documenti della guerra, rimane oggetto di profonda insoddisfazione il trattamento delle tattiche del FLN e dei suoi combattenti (una decina di pagine in un volume che si fatica a collocare su uno scaffale della libreria). Ma il motivo è che il destinatario di questo libro è collocato stabilmente nella tradizione che fissa il lettore dei saggi storici nelle élite dell’alta politica e che, di fatto, sono interessati agli altri esseri umani sin tanto che li devono governare, fatto che li esime dall’interessarsi del warfare, della pratica militare, quanto delle condizioni socio-economiche e culturali del nemico. Horne stesso si lamenta con un intellettuale come Albert Camus per non aver sufficientemente considerato “l’altra parte”, e così prontamente lo storico inglese non riesce però a far di meglio in questo versante e sicuramente non eguaglia Camus in altri ambiti.
Il lettore potrebbe aver inteso che questa analisi non sia molto lusinghiera con A Savage War of Peace di Horne e avrebbe ragione, almeno limitatamente. Il libro dello storico inglese non è un completo fallimento, ma è l’esempio di un certo modo di “scrivere la storia” che non riesce in almeno due obiettivi “costitutivi” della storia: (a) la storia è un patrimonio collettivo e non dovrebbe essere limitato alle sole élite di potere, (b) narrare la storia non è mai inserire dati in una complessa equazione, che poi si sbroglia da sola una volta sostituite le variabili. La ricostruzione causale di una guerra e, quindi, anche dei fatti militari non è un fatto insignificante, non è un accessorio della storia. Se la storia ha un senso, essa ce l’ha perché ricostruisce i fatti del passato inserendoli in una cornice causale. Non si pretende che lo storico sia onnisciente e, stando alle sole teorie della storia della filosofia sulla causalità, non si pretende che l’analisi causale sia altro di più di una ricostruzione logica fondata su fatti e sulle categorie a priori dello storico. Ovvero, se anche le “cause” e “gli effetti” stessero fuori dalla mente dello storico (e degli esseri umani) questo sarebbe del tutto privo di importanza rispetto al fatto che noi ricostruiamo la realtà sulla base di quelle categorie e, per ciò, ciò che conta non è la loro oggettività ma la loro difendibilità su un piano “intersoggettivo”. Si può discutere, si può divergere sulla ricostruzione causale, ma non si può pretendere di fare storia senza una adeguata analisi causale che riguardi, possibilmente, tutti gli ambiti rilevanti della vicenda tra cui, in una guerra, i fatti militari di tutte le parti in causa. Ma evidentemente Horne aveva ben chiaro che il suo A Savage War of Peace deve essere interessante per le élite del “mondo libero” (quello degli anni 70’ del XX secolo), più che di tutti gli altri.
Sicuramente la lettura di A Savage War of Peace consente di comprendere nel dettaglio i fatti di cronaca e i momenti di snodo della guerra di Algeria. Inoltre, consente ai futuri scholars di avere molto materiale da cui attingere per le loro citazioni. Nel suo genere è un libro importante che è pur sempre utile affrontare, pur nei limiti di una lettura che non può non essere critica. Avere qualcosa che spinge il pensiero verso una raffinazione di esso è già un punto di partenza. E, dunque, così è A Savage War of Peace, un buon esempio di un possibile punto di inizio verso qualcosa che, si spera, possa essere meglio. Sia detto che questo libro, comunque importante, non è tradotto in italiano. Noi, italiani brava gente che abbiamo avuto il lusso di essere stati costretti a rinunciare alle nostre colonie, pur con i fieri tentativi dell’assennato Degasperi, dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, non abbiamo bisogno di leggere un libro simile, scritto in un inglese ricco e non esattamente agevole al lettore italiano detto “proficient”. Non ne abbiamo bisogno perché noi siamo stati al di là del bene e (non sempre) del male dallo sfuggire alle guerre post-coloniali. E allora lasciamo simili libri nel dimenticatoio della grande storia dell’Europa post-45 a cui noi vogliamo appartenere solo quando ne vale la pena.
Alistair Horne
A Savage War of Peace
New York Review Books
Pagine: 608.
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