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Boxe e Filosofia – Riflessioni in libertà sullo spirito di uno sport


  1. Un piccolo preambolo

Per quanto possa apparire incredibile, dal basso della mia notoria indisciplina psicofisica, ho praticato diversi sport. In ordine: calcio (1 anno), calcetto (3 anni), canoa (15 anni), canottaggio (4 mesi) e ho girato 4 palestre per almeno 4 anni di esercizi, riuscendo una volta svenire e con risultati più o meno inutili. Sono tutti sport sicuramente interessanti e la mia affidabile canoa mi ha portato in tanti posti meravigliosi della Sardegna (da Pula a Carloforte, dall’Isola di san Macario al faro di Capo Ferrato). Ho tracciato tragitti, esplorato da solo e in tandem posti meravigliosi come il pan di Zucchero e porto Flavia. Ho ormai un equipaggiamento degno di un vero esploratore e una competenza in materia di canoe piuttosto avanzata.

Ma ho sempre avuto un piccolo desiderio. Ho sempre voluto provare uno sport di combattimento. Per questo ho fatto una lezione di prova di Aikido con il bravissimo Stefano Sabatini. Ma non era qualcosa fatto per me. Sono probabilmente troppo occidentale, per quanto nell’arte della guerra il mio amore per Sun Tzu non è sovrastato neppure da quello pur generoso per un Clausewitz o Liddell Hart, gli altri due autori su cui mi sono formato. Da tempo volevo fare Boxe. Quasi cinque mesi fa ho iniziato e spero che la mia vita mi conceda di continuare a lungo.

Questo articolo è scritto con l’ignoranza di un neofita che si sta affacciando ora alla conoscenza di uno degli sport più antichi dell’umanità. Da curioso, mi sto leggendo la storia della Boxe e guardando incontri di vari grandi campioni su youtube. E tutto mi conduce ad accumulare un’unica grande evidenza: la Boxe è uno degli sport più umani che esistano.

Mi approccio alla scrittura di un articolo che scrivo per pura passione, privo di altro interesse, in un giorno in cui il mio istruttore (S.) mi ha redarguito con la sua consueta semplicità: “Giuseppe, i tuoi ganci sono proprio brutti. Che stai facendo?” E giù la sua competenza per dirmi come dovrei fare, in una giornata milanese in cui il proprio respiro è tutto ciò che può contribuire a creare moti d’aria ambientali. Ma ammiro i miei istruttori. Anche quando ti danno legnate (tendenzialmente psicologiche) o quando riesci a intuire quanto sono esperti (a differenza tua). Quindi, il lettore è avvisato: il mio scopo è chiarirmi le idee e riflettere su uno sport difficile da razionalizzare. E se ci sono paralleli con il pensiero militare è solo perché ho trovato stimolante e arricchente ragionare in questi termini. Ma spiegherò i motivi per cui addirittura lo spirito della Boxe, e la sua pratica, siano uno sport umano, assolutamente umano. A differenza di ogni guerra.

  1. Considerazioni generali sulla Boxe e sullo spirito del pugilato

Lo scopo della Boxe non è quello di abbattere un uomo con un sol colpo. Sebbene possa essere il sogno recondito di un combattente, non è quello che domina come “spirito”. Lo scopo puro della Boxe è sfinire l’avversario. Il colpo del k.o. non è impossibile, ma in genere arriva dopo un po’. Infatti, l’esperienza della Boxe come sport e, in generale, come complessa attività motoria finalizzata a quel tipo di combattimento, è la sensazione di perpetua fatica e, più ancora, di sfinimento.

Innanzi tutto, combattere stanca. Stare fermi in guardia è faticoso. La Boxe è lo sport di Clausewitz, il teorico dell’attrito della guerra: la Boxe è una sfida contro l’attrito perpetuo generato dalla fatica che fai per stare vivo e per combattere l’altro che, a sua volta, vuole vivere e vuole combattere. In questo senso, la Boxe è l’esempio più cristallino della nozione di battaglia di Clausewitz: è un momento in cui due parti contrapposte si scontrano e cercano di vincere l’un l’altro con i mezzi a loro disposizione. Il duello, dunque, clausewitziano par excellence. Ma tutto il mondo rema contro. L’ambiente è ostile e la Boxe è uno sport continuamente “innaturale”, per usare una parola di S., sempre il mio istruttore.

Nessun movimento della Boxe è spontaneo, non nasce da una condizione ordinaria della postura del corpo e ogni azione implica una immediata reazione la cui praticabilità è possibile solo dopo “un’incessante e infinita ripetizione. Non una, non cento ma decine di migliaia di volte”, per riprendere una locuzione efficace dell’altro istruttore, F.. E infatti è vero.

La posizione di guardia (se sei destro) ti vede con il piede sinistro in avanti e il piede destro indietro, posizionati leggermente a destra (il lettore è invitato a sperimentare la postura per rendersi conto di quanta elasticità questa semplice disposizione dei piedi e delle gambe conferisca al busto, che è “invitato” a ruotare). Non stai mai perfettamente dritto (anche se tendi a dimenticartene) e hai le gambe arcuate. Le gambe lavorano incessantemente e infatti anche negli antichissimi vasi che attestano l’esistenza della Boxe ben prima della civiltà classica greco-romana, si vedono chiaramente le posture che ancora oggi usiamo. La somiglianza è talmente impressionante che una persona del XXI secolo, vagamente addestrata, immediatamente capisce la situazione (e il fatto che il vasaio era una persona informata…). Inoltre, questo continuo lavorio implicito delle gambe è tale che i migliori boxeur hanno le gambe esilissime ma scattanti ed elastiche. Non stanno mai ferme, sembra quasi che saltellino ma non è così.

Sempre per riprendere una giusta definizione di Simone, la Boxe non è uno “sport simmetrico”, intendendo che la parte destra e la parte sinistra del corpo non compiono gli stessi movimenti. Anche solo nella posizione di guardia, il pugile ha il braccio sinistro più avanti di quello destro e il destro è attaccato alla faccia ma in una posizione arretrata. Il braccio sinistro è più avanti. Inoltre, entrambi dovrebbero stare più in alto della linea del mento. Perché la posizione di guardia è la posizione di base per essere capaci di offendere e difendere.

Questa la statica di una posizione di guardia. Sfido il lettore a stare fermo in questa posizione e cronometrare quanto impiega a sentire il corpo che lo abbandona. Le braccia incominciano a pesare, a soffrire dopo poco e più vuoi resistere e più lo sforzo nervoso aumenta. Vuoi reggere, ma le braccia si abbassano. Questa innaturalità della postura è quasi una tortura, se si considera che le torture attuali applicate dai paesi più avanzati (quando l’hanno fatto) consisteva quasi solo nel costringere le persone a stare in posizioni innaturali. Ma nella Boxe tutto ha un senso. La posizione di guardia ha un senso preciso nell’economia del combattimento.

Anche solo questo mostra un fatto didatticamente sorprendente della Boxe, che rievoca ancora le pagine di Clausewitz: combattere è faticoso e, per essere efficienti, non devi essere naturale. Come dice giustamente Luttwak, l’arte della strategia militare nasce come analisi razionale che si fonda su paradossi e sulla controintuitività. Non vinci un nemico attaccandolo dove vorresti tu, ma dove non vorrebbe lui. E per far questo non devi prendere la via più naturale ma devi trovare sentieri difficili ma da lui non considerati. Nella Boxe è così alle estreme conseguenze. Il tuo corpo è costretto sin dalla posizione di base a stare come non ti verrebbe mai da stare. L’attrito generato dalla tua sola esistenza in una certa posizione nel ring è di per sé qualcosa che si sconfigge solo con la dura disciplina fisica e mentale. Per questo la Boxe non è solo uno sport ma può diventare una condizione di vita o una metafora dell’esistenza.

  1. L’ontologia della Boxe

3.1 Il combattente: il corpo, l’energia, la stamina e la volontà di combattere

Spero che un semplice atleta di Boxe non si spaventi dall’uso della parola “ontologia”. Con essa si intende il catalogo delle cose che “esistono” nella Boxe. Nel caso della Boxe, esistono i due pugili, il ring e il tempo (del timer dell’incontro e dello scontro, vedremo dopo cosa significhi questa distinzione). Sostanzialmente, non esiste altro. Come direbbe Sun Tzu, per vincere in guerra bisogna conoscere il comandante nemico, le sue armate, il cielo e la terra (lo spazio e il tempo). Questo vale anche nella Boxe. Bisogna conoscere la mente del pugile, la sua massa fisica, il ring e il tempo.

Il primo elemento della Boxe è, appunto, il combattente. Vale la pena di dire che nell’Etica Nicomachea (mi pare fosse lì) Aristotele usa l’immagine del boxeur esperto che sa come e quando usare i suoi colpi, allo stesso modo di come un filosofo esperto sa usare il linguaggio contro un principiante. Ad ogni modo, il combattente non è un elemento monolitico o, comunque, non dovrebbe essere inteso in questo modo.

Un combattente può essere diviso a sua volta in varie parti: il corpo, l’energia, la stamina, la salute e la volontà di combattere. Anche il corpo del pugile, come visto, non andrebbe inteso come qualcosa di “semplice”, ovvero di elementare perché esso andrebbe diviso in tutte le varie parti del corpo perché la Boxe è uno sport terribilmente completo. Tutto il corpo lotta e vuole lottare e ogni debolezza in esso sarà una debolezza nel combattimento. Per esempio, ci si rende conto della fatica progressiva, che mangia l’energia vitale, non tanto dalle braccia ma soprattutto dal cedimento delle gambe e la perdita di agilità nel movimento dei piedi. Poco dopo arriva anche la perdita della capacità di mantenere una pulita posizione di guardia, cioè la parte superiore.

Il corpo, dunque, può essere semplificato in alcune zone fondamentali: la testa, il busto e le gambe. La testa e il busto sono quelle che si possono colpire e alcuni punti sono particolarmente importanti (la mascella, la bocca dello stomaco e la zona del fegato). Ma in realtà ogni colpo sufficientemente violento al corpo è fatica che si accumula sul pugile. Il corpo è l’equivalente dell’equipaggiamento di un esercito, ovvero è la “massa” della “massa combattente”. E’ l’elemento fisico dislocato chiaramente nel mondo e senza di esso semplicemente non si combatte.

L’energia è la capacità di un corpo di compiere un lavoro (così la definizione classica in fisica newtoniana). Anch’essa va inclusa negli elementi essenziali del nostro catalogo delle cose esistenti (ontologia) della Boxe perché senza di essa la “massa combattente” rimarrebbe statica. L’energia di un pugile è, in generale, la sua capacità di protrarre il combattimento anche in condizioni ideali. Essa può essere misurata come la sua capacità di stare dentro il ring anche da solo. L’allenamento “a vuoto”, cioè senza avversario e senza sacco, rappresenta questa condizione ideale e “ogni pugile spende almeno un’ora al giorno facendo vuoto”, come direbbe uno dei miei istruttori. Mentre l’energia di combattimento è data dalla relazione tra l’energia del primo pugile e del secondo pugile, ovvero è un differenziale tra le due. Clausewitz parlava della logica della guerra che tende all’assoluto, intendendo le condizioni ideali che stabilirebbero una condizione di guerra perfetta (cioè senza attrito). Anche nella Boxe potremmo pensare a qualcosa di simile e l’energia di un pugile è intesa nella sua generalità in questo modo.

L’energia di un pugile è la sua capacità di stare in vita anche se l’altro non fa nulla. Poca energia implica poca capacità di combattere, scarsa capacità di adattamento per riflessione e incapacità di reazione. Quindi, un pugile deve prima di tutto essere un atleta non per nulla: perché deve garantire al suo corpo e a se stesso una durata continuativa. Lo sport della Boxe è spietato anche per questo: perché ti mostra i tuoi limiti immediatamente. Sei tu che non reggi abbastanza, è il tuo corpo che ti sta mollando ancora prima che la mente se ne accorga e possa fare qualcosa per correggere il tiro. L’energia è importante, è quasi tutto. Ma non è tutto.

Infatti, come dicevamo, il combattimento della Boxe non nasce per essere una blitzkrieg ma per essere una guerra di logoramento. Ancora una volta, una forma di lotta molto più vicina al pensiero di un Clausewitz che di un Liddell Hart! Se stai combattendo contro qualcuno (su un ring) non puoi credere che l’altro ti conceda un colpo facile immediato. Certo, se l’altro te lo concede, devi abbatterlo, ma questo è il migliore dei mondi possibili. In alternativa, nella Boxe si vince sfinendo, logorando, prostrando l’energia dell’altro che ha due conseguenze. La prima è che la sua volontà di combattere si infiacchisce, ovvero colpisci il corpo per colpire la mente ovvero la volontà. E in questo, se vogliamo, si può rintracciare la base del combattimento per l’esistenza, dove lo scopo non è eliminare l’altro, ma renderlo privo di reazione. Ancora Clausewitz! La guerra non ha come scopo la distruzione ma l’annichilimento della volontà di combattere. La Boxe è qualcosa di meglio, naturalmente, della guerra ma il punto è lo stesso.

Non avevo mai ricevuto un solo pugno in tutta la vita, non un solo colpo violento. E non ne ho mai dato. Sono sempre stato fiero di questo, anche quando, da ragazzino, tutti si vantavano delle proprie piccole scaramucce. Mentre mi sono sempre interiormente confortato del fatto che essere riuscito ad evitare di imporre la mia dignità sugli altri per mezzo della forza è stato un indubbio risultato di una persona saggia. Mi rendo conto che è difficile spiegare a parole le sensazioni che si provano in questi momenti. Ma la cosa più stupefacente è che non ho provato dolore (cosa che tutti si aspettano) ma una sensazione di leggero stordimento e chiara stanchezza. Prendere pugni con un guantone da Boxe stanca ad una velocità sorprendente. Ogni colpo ricevuto, neppure particolarmente violento, toglie una tacca di energia. Il tuo corpo diventa progressivamente incapace di compiere lavoro. Alla fine si può arrivare a sentire le gambe che tremano leggermente e le braccia che letteralmente cadono a terra e non riesci proprio a rialzarle. Per amore di completezza, aggiungo che insieme alla fatica e allo stordimento, c’è una potenza primordiale che si sprigiona quando le stai prendendo. E’ qualcosa che va al di là della comprensione razionale e questo mi duole dirlo. C’è davvero qualcosa di essenziale, di primordiale, ancora più remoto dell’animalità. E’ qualcosa più primitivo del sesso, che già mi pareva qualcosa di assolutamente semplice. La violenza del tuo corpo che si vuole opporre a qualsiasi costo è qualcosa di connaturato dentro qualsiasi uomo, anche il più restio. Non dipende da te o dal tuo avversario. Lo senti e pur con tutto quello che sta succedendo, non ti senti “vinto” fin tanto che sei in piedi ancora lì e “ci sei”. E’ la pura intuizione dello stare al mondo, stare lottando, la violenta sicurezza di essere vivi.

Per sfinire un uomo, un combattente, non basta un colpo. La Boxe è uno sport di continuità. Devi portare i colpi perché la tua iniziativa elimina o limita quella dell’avversario. Più colpi porti e più aumenti un ideale differenziale di energia. Sei meno stanco di lui, a conti fatti. Ma, altro fatto che nessuno può capire se non ha provato, fare anche solo a pugni stanca. Anche questo! Anche quello che ti fa vincere comunque ti prostra. Intanto, la prima legge fondamentale è che per dare un buon dritto, gancio o montante, usi tutto il corpo de facto. Ad esempio, in un dritto di destro usi la spinta delle gambe e ruoti il busto e le spalle e “lanci” le braccia in un movimento elastico. Tutto questo per un solo singolo pugno.

Inoltre, muovere anche solo le braccia implica lavoro del corpo e dissipazione di energia. Ma ciò che colpisci oppone una sua resistenza per due ragioni diverse. Intanto, il braccio che colpisce allontana una massa, ovvero compie una forza su un oggetto e l’oggetto viene spostato. Come sappiamo, una forza è una massa per un’accelerazione. Quindi, prima di tutto, la forza per smuovere un sacco o un uomo genera immediatamente fatica ovvero lavoro e consumo di energia. In secondo luogo, colpire una massa implica anche il terzo principio della dinamica, ovvero che ogni azione implica una reazione: quando dai un pugno a un oggetto, senti il corpo colpito che ti restituisce parte della forza. E un uomo, quando si para, tendenzialmente non ti sta aiutando a scaricare tutta la forza. Infatti, le conseguenze sono diverse: ti stanchi molto velocemente tanto più aumenti la velocità dei colpi, senti caldo (perché c’è dissipazione di energia) e sudi molto.

La capacità di mantenere il lavoro continuativamente è “la stamina”. Essa non è equivalente all’energia. Infatti, anche con molta energia puoi avere comunque poca stamina e molta stamina non implica necessariamente molta energia (puoi durare a lungo nel portare i colpi ma per poco tempo). Naturalmente, la stamina è soggetta a variazioni al variare dell’energia del combattente, ma richiede di per sé un addestramento specifico che non è riassumibile con la più generale tenuta fisica di un uomo. La capacità di portare colpi, quindi di sostenersi sulla stamina, è fondamentale sia per via diretta che per via indiretta: portare molti colpi è più importante che darne uno molto violento perché l’altro accumula molta più fatica più velocemente di te e, allo stesso tempo, evita che lui faccia lo stesso con te. Quindi la gestione dell’iniziativa dipende molto dalla stamina che è, dunque, fondamentale. E’ difficile interrompere una sequenza di colpi ravvicinati dell’altro, se quest’ultimo riesce a mantenere alta la frequenza e l’intensità.

Infine, senza la volontà di combattere non combatti. Ma qua con “volontà di combattere” non si intende la determinazione razionale che spinge un uomo a prendere una scelta e portarla avanti nel tempo e contro le resistenze ambientali. Non è la volontà di combattere del generale ma è la volontà di combattere dell’uomo che ha una baionetta e deve andare di fronte ad un’altra con quello che ha. Questa “volontà” non è razionale, almeno non nel senso che si acquisisce pensandoci. Si tratta della capacità di mantenere la lotta interiormente, ovvero la capacità di fissare l’idea chiara che, qualsiasi cosa succeda, tu “non molli”. Qualsiasi cosa succeda sei là. Questo genere di volontà è, anch’essa, connaturata alla natura umana. Infatti, per sopravvivere in un pianeta altamente ostile alla razza umana, la selezione naturale ha progettato gli esseri viventi con una capacità di tenuta automatica alle resistenze del mondo. Lo esprimeva molto bene Spinoza, ben prima di Darwin: il conato, lo sforzo all’esistenza è connaturato addirittura ad ogni essere la cui presenza è garantita dall’infinita causalità dei modi parte dell’assoluta sostanza. Se sei di questo mondo, qualsiasi cosa tu sia, ti sforzerai di esistere. Quindi, la volontà di combattere nasce da sola e si sviluppa naturalmente nel confronto con un’altra volontà che si oppone. E’ istintivo: non vuoi dargliela vinta, anche se poi lui vince. Ma intanto la volontà è quella di rendergli il lavoro terribilmente difficile perché tu stai là e niente potrà toglierti dal tuo posto.

Proprio perché intrinsecamente istintiva, la volontà di combattere è legata soprattutto all’energia, più che al corpo e alla stamina. Il crollo dell’energia può comportare un crollo nella volontà di combattere. Lo sfinimento, si diceva, ha proprio questo duplice scopo: fiaccare il corpo per arrivare a fiaccare la “mente” dell’avversario, ovvero la sua capacità di lottare. Deve proprio arrivare ad un livello tale di sfinimento che non ne può più. Non ne deve volere più. Questo è il motivo per cui l’energia è tanto più importante. La tenuta mentale è qualcosa che non si dà senza energia e richiede continuamente energia per essere alimentata. Certo, questa energia tradotta in sforzo mentale si ritraduce in tenuta fisica, perché la mente è capace di correggere gli errori del corpo (quando se ne accorge in tempo) ed è abile nel ridistribuire le forze. La mente, la purezza della volontà di combattere è la cifra della Boxe come combattimento che trascende la pura dimensione corporale.

3.2 Lo spazio

Lo spazio è il ring, ovvero un quadrato (a dispetto dell’etimologia del nome). Può avere varie dimensioni, a quanto pare, ma diciamo che è circa sei metri di lato. Quindi, si tratta di 36 metri quadrati in cui ti trovi a combattere. La caratteristica classica del ring è che è composto da quattro pali e da quattro corde, legate a varie altezze. Lo spazio è importante perché non è tutto uguale. Il centro e la periferia sono diverse e implicano un tipo di situazione di combattimento non identica. La periferia del ring a sua volta è distinguibile: c’è la zona prossima alle corde e la zona prossima all’angolo. Anche nella zona periferica la gestione semplicemente spaziale del combattimento si può discriminare in vari tipi perché i movimenti che si possono effettuare sono di meno, ovvero tanto più ti avvicini all’angolo e tanto più il tuo spazio a disposizione diminuisce. Quindi, il “terreno” dello scontro non è identico, pur essendo composto da trentasei quadrati identici! Esattamente come il quadrato della scacchiera, dove gli scacchisti sanno bene che non sono tutte uguali, anche nel ring lo spazio non è identico. A livello geometrico non c’è nessuna differenza, ma per i due pugili la differenza può essere sostanziale.

Altra caratteristica dell’elemento spaziale è, in generale, la più vasta condizione ambientale. Anche in palestra, lo spazio non è “solo” il ring ma è tutto quello che ti circonda, quello che esiste vicino a te e il clima. Non ci si allena mai in condizioni identiche né spaziali né climatiche e questo è sostanziale perché anche piccole variazioni possono comportare comunque dei cambiamenti rilevanti, che puoi osservare con stupore. Questo per dire che, ancora una volta, Sun Tzu aveva ragione: conoscere il territorio non è mai banale e anche la Boxe ha il suo territorio, che va conosciuto.

3.3 Il tempo

Per quanto poco ne posso capire, la Boxe mi sembra soprattutto uno sport dominato dalla variabile temporale anche di più che da quella spaziale. Innanzi tutto, perché ogni round ha un tempo e il combattimento ha un termine di tempo stabilito. In secondo luogo, perché il tempo non è tutto uguale. Il tempo “esterno”, quello del timer, è già suddiviso e parcellizzato tra momenti di combattimento e di risposo. Inoltre, il tempo investe il combattimento in molti modi: (a) la durata dell’energia, (b) la durata della stamina, (c) la capacità di tenuta mentale e (d) la relazione complessa di (a-c) rispetto al loro differenziale tra i due pugili, ovvero il fatto che si creano situazioni specifiche tra i due combattenti. Per fare un esempio:

Energia Pugile 1 Pugile 2
1 1
1 0
0 1
0 0

Si possono costruire matrici tanto più complesse quanto più si aggiungono le condizioni (a-c) per un totale di otto condizioni complesse. Inoltre, anche nell’esempio potremmo complicare la matrice inserendo gradazioni di stanchezza invece che fissare la matrice su valori categorici. Ad ogni modo, la configurazione possibile è, proprio perché continua nei valori, infinita pur essendo formata da pochi elementi.

La dimensione temporale del combattimento è estremamente complessa, come si vede, indipendentemente dal livello di qualità del pugile. Infatti, la Boxe è una sorta di scommessa su chi cede per primo e questo vale in ogni singola sezione di combattimento, che rappresenta una parte rispetto al tutto. Quindi, al principio un combattente ha più energia e più stamina ma anche l’avversario e, dunque, il problema è mantenere il massimo dell’energia possibile con il massimo della stamina possibile il più a lungo possibile. Naturalmente, come visto, anche solo stare in guardia stanca e sapere e vedere di fronte a sé un uomo che ti guarda negli occhi e vuole combattere e non vuole avere altra scelta è, già solo questo, materia di stanchezza psicofisica. Possiamo, dunque, fare un elenco della partizione degli elementi temporali salienti nella Boxe:

  1. Durata dell’energia.
  2. Durata della stamina.
  3. Durata della tenuta mentale.
  4. Differenziali di valori di (1-3) tra i due pugili nelle varie sessioni di combattimento.
  5. Tempo dello scontro.
  6. Tempo del riposo.
  7. Tempo totale.

La definizione del “tempo totale” ha un valore filosofico interessante, perché non sarebbe lecito considerare che il timer globale parte quando sali sul ring. Infatti, tra le emozioni più violente che si possano provare non è tanto quando incominci davvero a combattere, perché sei concentrato e visceralmente legato alla sensazione di sopravvivenza fisica e mentale del momento. E’ agghiacciante quando vedi il ring vuoto e vedi il tuo avversario fuori dal ring perché in quel momento i dubbi e la paura sono di per sé causa di attrito generale. Anche al più infimo livello, quale mi compete, anche in circostanze amichevoli, varcare il ring passando sopra la seconda corda con una gamba e poi con l’altra è una delle emozioni più violente possibili. Questo mi induce a pensare che il “tempo totale” dovrebbe essere misurato da quando il pugile esce dagli spogliatoi ed entra in una “dimensione di combattimento”.

Questa “dimensione di combattimento” è dunque il vero momento in cui il pugile è consapevole del fatto che ha oltrepassato un punto di non ritorno e, da quel momento in poi, non potrà tirarsi in dietro e nessuno potrà soccorrerlo (in un certo senso). Si noti che questa definizione di “tempo totale” è legittima perché le parole impiegate in questo paragrafo per descrivere la “dimensione di combattimento” sono tutte temporalmente cariche: “momento”, “uscire dagli spogliatoi”, “oltrepassare”, “non si torna in dietro” sono tutte locuzioni temporali che suggeriscono l’ampiezza della dimensione globale del tempo nella Boxe, che è molto più ampia di quanto si possa sospettare.

Infine, vale la pena di segnalare un ultimo sorprendente significato della parola “tempo” nella Boxe, ovvero il valore dell’entropia. Infatti, il combattimento della Boxe (come molte altre forme di lotta) implica un aumento del disordine complessivo del sistema fisico fissato dai due pugili nel ring. Questa proposizione è suffragata da molte prove. Prima di tutto, la Boxe, abbiamo visto, prevede una dissipazione di energia costante e questa dissipazione è irreversibile. Questo vale sia rispetto alla durata dell’energia complessiva dei due pugili, sia rispetto alla loro singola energia. Infatti, i due pugili finiscono sfiniti alla fine del combattimento. Inoltre, la dissipazione di energia è mostrata dal surriscaldamento corporeo dovuto sia al consumo energetico-calorico del corpo e della mente, sia all’impressione della forza sulla massa dell’altro pugile (come abbiamo avuto modo di vedere). Infine, la violenza del combattimento implica inevitabilmente dei danni al corpo che sono anch’essi irreversibili all’interno del tempo della Boxe e, dunque, rendono il combattimento irreversibile. Se vogliamo, proprio perché la “dimensione della Boxe” determina una stato di lotta ben chiaro ben prima dell’inizio dello scontro, la mente del pugile non ritorna mai uguale a com’era prima. Infatti, il pugile vive emozioni violente e cerca di capire cosa deve fare e qualsiasi cosa succeda, il risultato influisce sul suo futuro e di questo è pienamente consapevole. Quindi, possiamo rivedere il nostro catalogo così:

  1. Durata dell’energia.
  2. Durata della stamina.
  3. Durata della tenuta mentale.
  4. Differenziali di valori di (1-3) tra i due pugili nelle varie sessioni di combattimento.
  5. Tempo dello scontro.
  6. Tempo del riposo.
  7. Tempo totale.
  8. Misura complessiva dell’entropia di (7).
  1. La Boxe e Clausewitz: riflessioni generali sulla Boxe da un punto di vista filosofico

Vorrei che il lettore si concentrasse un secondo sul significato implicito di quanto appena scritto. Per me è un punto cruciale. Infatti, si pensi a quanta differenza c’è tra l’idea di abbattere un combattente con un colpo, rispetto al sfinirlo. E’ molto peggio il secondo. Questa, forse, è il significato più potente e sconcertante della Boxe ma, allo stesso tempo, è anche estremamente umano.

Infatti, lo scopo non è neppure lontanamente quello di annullare la vita dell’altro. Al contrario, può sembrare paradossale, ma una delle sensazioni più impressionanti può essere il momento successivo al combattimento, ovvero quando realizzi che, forse, hai fatto fin troppo male al tuo avversario. Non c’è un senso di colpa morale ma una piena identificazione nell’io dell’altra persona. Tu potevi essere al suo posto, tu potevi essere sfinito, potevi essere vinto. C’è una estrema umanità nella sconfitta perché hai dato tutto te stesso e non ci sei riuscito. E ogni piccolo dettaglio poteva essere diverso, anche una virgola poteva determinare un altro corso degli eventi. E il tuo corpo lo sa benissimo e per questo è liberante abbracciare il tuo avversario, saperlo vivo e sereno. A prescindere da tutto quello che è stato, gli vuoi un bene primordiale perché hai avuto una paura elementare della sua forza e lui ha riconosciuto la tua. Non so dire se si tratti di un legame “maschile”, ma è sicuramente alla base di ogni genere di forma di amicizia umana: il riconoscimento dell’umiltà nella vittoria, ovvero il fatto che perdere e vincere sono forme della lotta e il valore ultimo sta proprio nell’aver partecipato alla lotta per l’esistenza, quale che sia stata la sua finale forma.

In queste maldestre pagine di una persona che ha scoperto una totale ammirazione per qualcosa di impressionante, il lettore deve scusare la mia impreparazione tecnica. Ma vorrei chiudere questa riflessione sul fatto che adesso vedo il collegamento tra gli scacchi e la Boxe. Gli scacchi sono il gioco dell’occidente perché lì rivediamo la western way of warfare, così ben stigmatizzata da Victor Davis Hanson.

La Boxe è uno sport clausewitziano sino al punto da rendere la lettura de Della Guerra una sorta di trattato di pugilato. Come abbiamo visto, la Boxe vive di attrito, che è totalizzante e permanente. Inoltre, essa è fondata sulla volontà primordiale di combattere, la quale è il vero obiettivo dei colpi del pugile: egli colpisce il corpo per abbattere la mente e viceversa. Come in Clausewitz, la nebbia di guerra (di combattimento) gioca un ruolo decisivo in ogni incontro ed è per questo che la Boxe è sempre uno sport con delle emozioni straordinariamente intense. Non sai mai cosa può succedere e non basterà usare i “metodi ortodossi” per vincere ma devi pensare anche a “metodi straordinari”, per dirla con Sun Tzu: ovvero la ripetizione tecnica dei colpi è condizione necessaria ma non sufficiente per vincere. Per vincere devi colpire il tuo avversario, devi sfinirlo e sempre cercare di colpirlo nel punto di minima pressione (cioè dove non se lo aspetta e dove è scoperto).

Ogni volta che finisce un allenamento, rifletto su quanto la Boxe sia davvero lo sport di combattimento dell’Occidente e perché anche l’Aikido non mi ha dato quell’immediato e subitaneo trasporto. Perché dietro la Boxe c’è semplicemente il nostro modo di vivere, il nostro modo di pensare classico ed europeo. Noi pensiamo che siamo in un ring, dove dovremmo combattere ad armi pari ma tutto ci verrà fatto pagare, non uno sconto, niente ci verrà risparmiato. Ma questo è giusto così. Questo è lo stare al mondo e, allora, per stare al mondo bisogna combattere. Per questo c’è umanità nella Boxe, cioè il riconoscimento totale e immediato del valore della vita e dell’altro uomo, prima di tutto del tuo avversario. Impari ad amare tutti perché tutti sono immersi nella stessa logica di fondo. E’ una logica semplice e, a suo modo, brutale eppure chiara, onesta. E proprio per questo noi Occidentali ne siamo dominati.

Gli scacchi rappresentano il mondo della guerra all’occidentale, dove due schieramenti uguali si danno battaglia per uno scopo identico e opposto. Uno scontro di attrito, dove ciascuno cerca di prevalere sull’altro per le stesse ragioni. Così è la Boxe. Uno sport in cui lo scopo è sfinire l’avversario. Eppure molto più nella Boxe che negli scacchi, l’unione e comprensione delle parti opposte è totale. Nella Boxe sei solo, come sei solo sulla scacchiera. Nella scacchiera è una questione di calcoli e pianificazioni ma, alla fine, è una lotta. Nel ring è una questione di movimenti, energia, stamina ed entropia, ma alla fine è una forma della vita. E non c’è essere umano occidentale che non riesca, in ciò, a vedere qualcosa di straordinariamente semplice e incredibilmente fondamentale da non poterne fare a meno.

Ieri ho fatto un aperitivo con dei miei colleghi di dottorato e ho parlato di questa mia nuova passione con vari personaggi autorevoli. A parte qualche sguardo perplesso, le domande sono sempre le stesse. Alcune di queste le voglio riportare:

“Sai che è lo sport con il più alto tasso di traumi cranici?”

“Tu che ti sei dichiarato un pacifista giochi a Boxe?”

“Ma i tuoi compagni chi sono e cosa fanno?”

“Come è possibile che un giovane studioso e ormai dottore di ricerca in filosofia decida di fare un simile sport?”

A questo punto queste domande hanno una facile risposta. Perché la Boxe è il nostro sport. Di tutti noi. E’ lo sport di chi sta al mondo perché c’è posto ma quel posto se lo vuole guadagnare. Vivi intensamente ogni respiro per riconoscere all’avversario e a te stesso una dignità fondata sulla volontà di esistere e, quindi, di lottare. Non c’è odio e non c’è rancore. C’è solo la volontà infinita di essere al mondo e voler fare la propria parte, indipendentemente dal risultato. Credere in questo è semplice da capire ma è raro da provare sulla propria pelle. E allora quando abbassi la guardia, quando sei troppo stanco e vedi i pugni che ti arrivano in faccia, quando senti che ogni singola parte del corpo vibra con la mente per continuare a resistere ancora un minuto, ancora un secondo, ancora un po’… è allora che capisci che non conta niente, vincere o perdere. Come disse il soldato Joker in Full Metal Jacket: “I morti sanno solo una cosa. Che è meglio essere vivi”. Un film di Stanley Kubrick, un uomo che aveva amato gli scacchi e la Boxe. Non a caso. Un uomo che sapeva che è meglio essere vivi. Ed è quello che vuoi anche tu perché tutti noi lo vogliamo. Vogliamo solo essere vivi. E allora, a prescindere da tutto, finita la lotta vuoi solo abbracciare quell’altro uomo che ha condiviso con te una parte della sua vita, solo perché, anche lui, ci ha creduto fino in fondo e ha avuto il coraggio di guardarti negli occhi fino alla fine. Così come hai fatto tu.


Bibliografia

Boddy K., (2011), Storia della Boxe, Odoya, Bologna.

Clausewitz C. (1832), Della guerra, Einaudi, Torino.

Lasker E., (1907), La lotta, Scacchi e Scienze applicate, Venezia.

Liddell Hart B., (1925), Paride o il futuro della guerra, LEG, Gorizia.

Liddell Hart B., (1954), The strategy of indirect approach, Faber And Faber, London.

Liddell Hart B., (1965), L’arte della guerra nel XX secolo, Mondadori, Milano.

Luttwak E., (2001), The Logic of War and Peace, Belknap Press.

Moseley A., (2003), A Philosophy of War, Algora Publishing, New York.

Hanson V.D., (1987), L’arte occidentale della guerra, Garzanti, Milano.

Pili G., (2014), L’eterna battaglia della mente Scacchi e filosofia della guerra, Le Due Torri, Bologna.

Pili G., (2015), Filosofia pura della guerra, Aracne, Roma.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

3 Comments

  1. Gianluca Gerli Gianluca Gerli 6 Luglio, 2017

    Sono uno studente di filosofia del San Raffaele, ormai del terzo anno.
    Ho passato gli ultimi giorni a vagare disperatamente sul sito in cerca di qualche breve sunto di epistemologia che potesse aiutarmi a rendere l’esame meno amaro e difficile da digerire.
    Ed è per puro caso che nelle mie peregrinazioni sono stato folgorato dal titolo di questo articolo. Anche io mi sono affacciato da qualche mese al mondo della boxe: un paio di sessioni di allenamento mi sono bastate per rimanerne invaghito, un paio di mesi per esserne ammaliato.
    Ho subito percepito il pugilato come un’attività cruda, in cui l’elemento prettamente corporeo, fisico, ha una dimensione essenziale. Tuttavia, accanto ai muscoli, la rabbia, la prontezza dei riflessi sta qualcosa di sofisticato, artefatto, calcolato e come giustamente è stato scritto: innaturale.
    Ho trovato nella boxe uno sport più completo di quanto fossi in grado d’immaginare: e non per il semplice fatto che per tirare un pugno degno di tale nome ogni cellula del corpo abbia un ruolo, ma in quanto salendo sul ring si trascina con sé ogni singola fibra del proprio essere. Strategia, tecnica, empatia, emozioni, istinto, riflessi, debolezze, paure, altezza, forza, peso, passato… ho scoperto la boxe come un’illuminante e spesso disarmante specchio in cui osservare e fare conoscenza con sé stessi.
    Vorrei quindi ringraziare l’autore per aver inserito questo articolo in un contesto nel quale non mi sarei immaginato di trovarlo, e al tempo stesso manifestare un profondo risentimento per avermi ispirato una voglia matta di allenarmi quando più che in posizione di guardia, sono costretto in posizione di studio.

  2. Rocco Curcio Rocco Curcio 23 Gennaio, 2018

    Complimenti per la raffinatezza rappresentativa della Boxe,
    da un anno ho iniziato con il maestro Oliva e da subito è stato amore folle, tra me ed il pugilato.
    In passato ho giocato a calcio, cintura nera di Karate, full contact, judo, ma la boxe è altra cosa sotto ogni punto di vista e lo affermo dicendo che in ogni sport ho dato il massimo con riscontri più o meno importanti.
    È la sintesi tra fatica fisica e concentrazione mentale, devi essere energico per ogni secondo e insieme, usando un termine calcistico, un attentissimo difensore, un centrocampista tosto, un fantasista eccezionale ed un attaccante puntuale e preciso……..

    • Giangiuseppe Pili Giangiuseppe Pili 24 Gennaio, 2018

      Ciao Rocco,

      Sono l’autore dell’articolo. Mi fa piacere sapere che a un atleta vero (a differenza mia) sia piaciuto l’articolo. Sono pienamente d’accordo con il tuo commento: “è la sintesi fisica e concentrazione mentale”. Io aggiungerei: e la volontà di ferro. Giusto ieri il nostro coach ci ricordava che, secondo lui, la Boxe è al 60% una questione di volontà e di mente. Poi, ovviamente, quando c’è la violenza del ring, tutto diventa confuso, ma la volontà cristallina, quella deve rimanere. Come diceva Mike Tyson, puoi avere tutti i piani che vuoi che poi svaniscono non appena prendi un pugno in faccia. Era quello che diceva un grande generale della guerra franco-prussiana del 1871 (Von Moltke): puoi avere tutte le strategie che vuoi che poi tutte si sciolgono non appena entri sul campo di battaglia.

      La Boxe è tutto quello che non avrei mai pensato di trovare in uno sport. Quindi, ti ringrazio per il generoso commento e spero davvero che il tuo percorso di pugilato continui. Anche il mio, nelle mie dimensioni, continua! 🙂

      G.

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