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“Cronaca della guerra del Vietnam 1961-1975” Introduzione dell’Autore

Prima di copertina Cronaca VietnamLe motivazioni alla base di quest’opera [Cronaca della guerra del Vietnam 1961-1975 ndr.] sono sostanzialmente tre:

la mia generazione (quelli nati negli anni Sessanta e appena prima) è stata segnata dalla guerra nel Vietnam in modo almeno altrettanto profondo di quanto le generazioni giovani siano state segnate dall’11 settembre 2001 e la successiva guerra al terrorismo in tutte le sue diramazioni. Anzi, penso sicuramente di più. Ogni sera c’era al telegiornale una specie di bollettino di guerra aggiornato che proveniva dagli Stati Uniti, a volte direttamente dal Presidente in persona, che spiegava, con bastoncino e cartina del sud-est asiatico in evidenza, lo sviluppo delle operazioni.

Gli Stati Uniti d’America ne sono stati segnati in maniera addirittura straziante. Anche dopo la fine del conflitto, per almeno trent’anni la filmografia americana (e non solo quella americana) e addirittura la produzione di serial televisivi è stata quasi inevitabilmente scandita da storie i cui personaggi, principali o secondari, avevano almeno un “passato” in Vietnam che ne spiegava certe ruvidezze o certe ossessioni o follie. Questo malgrado la guerra vera, quella combattuta, fosse stata vissuta, rispetto ad altre avventure militari americane, da un’esigua minoranza della popolazione, percentualmente parlando. Pensate, solo per fare qualche esempio noto al pubblico italiano, all’”Anno del Dragone” di Michael Cimino (qui era Mickey Rourke il “reduce”) o alle serie TV poliziesche “Miami Vice” (qui era il detective Crockett, interpretato da Don Johnson, che aveva all’attivo 2 turni in Vietnam con la 101a divisione e con le Special Forces), o “Magnum P.I.” (qui era tutta la combriccola dei tre amici), da film come “Un mercoledì da leoni” di John Milius o “Fandango” con Kevin Costner (l’ultima “zingarata” con gli amici prima della partenza per il Vietnam), all’ovvia serie di film di Rambo, o i film d’azione con Steven Seagal, o film d’autore, da “Non è un paese per vecchi” a “Tra cielo e terra” a “Regole d’onore”, o ancora i film comico-polizieschi della serie “Arma letale” in cui il personaggio interpretato da Mel Gibson era addirittura un ex-membro della famosa (almeno agli addetti ai lavori) “Operazione Phoenix” della CIA in Vietnam.

Senza parlare dei film di guerra veri e propri, o ad essa direttamente ispirati: Tornando a casa, Apocalypse now, Il cacciatore, Platoon, Full Metal Jacket, Nato il 4 Luglio, Hamburger Hill, Bat 21, Saigon, Fratelli nella notte, l’allegorico I guerrieri della palude silenziosa (“Weekend warriors”), Vittime di Guerra (“Casualties of War”, di Brian de Palma, con Michael J. Fox e Sean Penn), We were soldiers (con Mel Gibson) e infiniti altri.

Passata la “sbornia” (per l’America una specie di intossicazione da overdose di droga psico-sociale), questa guerra è stata passata nel dimenticatoio, forse non negli USA, ma certamente nelle giovani generazioni europee. Probabilmente, ed è triste dirlo, perché altre guerre sono venute ad imporsi nella cronaca e nell’immaginario popolare (il Golfo Persico, solo per dirne una).

In secondo luogo, mentre la “Cronaca della Seconda Guerra Mondiale”, pubblicata oltre due anni fa, è stato un lavoro dettato dalla volontà di migliorare il più possibile e ricondurre ad una visione unitaria qualcosa che già era stato tentato sotto diverse angolazioni, una “Cronaca” sul conflitto americano-vietnamita è una cosa che sicuramente nel panorama storiografico italiano mancava, malgrado viceversa sul fronte giornalistico personaggi del calibro di Egisto Corradi o Oriana Fallaci abbiano lasciato una traccia duratura nella reportistica e memorialistica sul Vietnam.

Il Vietnam, infine, porta con sé qualcosa che è rimasto quasi misterioso, nel tracollo psicologico che ha colpito l’esercito USA, trascinando con sé la Nazione (o è stato forse l’inverso?). Questo mistero ha un suo strano fascino. Di sicuro per la prima volta gli americani hanno visto al telegiornale, sbattuta sulle proprie tavole all’ora di cena, la realtà della guerra, traendone la conclusione, per la prima volta, che la guerra fosse davvero brutta, in un momento in cui, per coincidenza storica, tra Woodstock e ’68, liberazione sessuale e diffusione delle droghe leggere, in patria c’era una specie di ininterrotto festino libertario intrecciato con ondate ribellistiche giovanili, studentesche ed etniche (afroamericane).

Il ciclo di operazioni che va dal 1961 al 1975, su cui ho scelto di concentrare la mia attenzione, col suo contorno di intricate vicende politiche internazionali, è solo il culmine, se vogliamo, di una storia di guerre che hanno coinvolto in varie fasi e a vario titolo quelli che oggi sono il Vietnam, il Laos, la Cambogia, la Thailandia, la Cina. Una storia che va dalla guerra contro la dominazione francese, durata, con la parentesi giapponese del 1945, fino alla disfatta di Dien Bien Phu del 1953, via via attraverso la crescente ostilità tra la parte settentrionale e meridionale del paese fino all’intervento americano. Dopo di che, con la dipartita degli americani e l’occupazione finale del sud da parte del nord, si è assistito alla fuga in massa dei cosiddetti “boat people”, all’instaurazione della spaventosa dittatura comunista genocida in Cambogia che ha condotto all’intervento vietnamita per spodestare il “governo” di Pol Pot ed instaurarne uno, pur autoritario ma più “normale”, guidato da Heng Samrin (Ieng Sary), alla breve guerra fra la Cina e il Vietnam, alla lotta costante in Laos e Vietnam dei montagnards, cioè dei popoli Hmong da sempre in difesa della propria autonomia contro il regime di Hanoi e dei suoi satelliti. Ma questa è storia più recente, che esula da quella che viene comunemente definita come la “Guerra del Vietnam”, almeno quella che i vietnamiti stessi definiscono come la “fase americana”.

Perché l’intervallo di tempo dal 1961 al 1975? Si potrebbe sostenere, da un lato, che la presenza americana, sia pure non ufficiale e nella sola veste di “consiglieri militari” presso le forze armate sudvietnamite datasse da ben prima, cioè dalla prima metà degli anni Cinquanta. Il primo attacco a livello di battaglione dei nordvietnamiti contro l’esercito sudvietnamita si verificò il 26 gennaio 1960, a Trang Sup, nella provincia meridionale di Tay Ninh presso il confine con la Cambogia. D’altro canto, l’anno in cui gli Stati Uniti annunciarono ufficialmente l’”escalation” e il loro intervento ufficiale con truppe di terra sul campo di battaglia è stato il 1964. Uno sguardo anche superficiale alla bibliografia citata nell’apposita appendice evidenzia come gli stessi storici e memorialisti americani trattino come “Guerra del Vietnam” i periodi più disparati.

Sorvolando sul fatto che trovare una data precisa, fosse anche solo un anno dai riferimento, all’inizio della fase “americana” del conflitto vietnamita, sarebbe comunque opinabile e discutibile, ho scelto il 1961 essenzialmente per due ragioni. Anzitutto perché è l’anno in cui il cosiddetto “Fronte di Liberazione Nazionale” (cioè i vietcong) dichiarò ufficialmente l’avvio della campagna militare guerrigliera contro il governo di Saigon; poi perché, con l’insediamento dell’amministrazione Kennedy, in quell’anno gli USA dichiararono pubblicamente e solennemente l’appoggio militare ed economico al Vietnam del Sud.

Qualche piccola immodesta ambizione per questo libro? Portare l’attenzione non solo dei profani, ma anche degli appassionati e degli esperti, su qualche aspetto meno tradizionalmente noto: ad esempio, l’intervento e il ruolo militare svolto dagli alleati non americani; su tutti australiani, neozelandesi, sudcoreani e thailandesi. Inoltre, e questo è un aspetto sovente negletto dagli stessi americani, riportare in giusta evidenza come gran parte delle operazioni, soprattutto prima del 1970, si siano svolte in realtà in Laos, e dopo il 1970 in gran parte in Cambogia.

Infine, per quanto limitato dalla mancanza di uno studio davvero esaustivo a questo proposito, ridare un minimo di spazio al grande protagonista ingiustamente dimenticato di questo conflitto: l’esercito sudvietnamita.

Come nella precedente “Cronaca della Seconda Guerra Mondiale”, ho inserito episodi chiaramente minori per il loro significato simbolico, politico, psicologico o tecnologico. Anche in questo caso ho dovuto fare delle scelte, per loro natura opinabili, su che cosa fosse meritevole di essere citato, e più ancora che cosa fosse meritevole di essere dettagliato, e che cosa no.

Poche parole per dare un’idea dei problemi di ordine pratico che ho necessariamente dovuto affrontare: a parte la quasi assoluta copertura censoria e disinformativa su tutto quanto concerne il “Nord” comunista, avendo di fronte due avversari della stessa nazionalità sono stato obbligato a ripetizioni didascaliche un po’ pesanti ma inevitabili. Non c’erano “tedeschi contro russi”, dove il semplice nome di un comandante e la definizione dell’unità chiariscono dall’inizio il senso e il contesto di una frase: bisogna specificare sempre nord- o sudvietnamita, aiutandosi magari con le ineleganti sigle NVA (o PAVN) e ARVN. Di più: avendo due alleati (sudvietnamiti e americani) che avevano impostato i rispettivi eserciti sulla stessa falsariga (almeno sulla carta) e che svolgevano quasi sempre operazioni congiunte, è stato spesso indispensabile continuare a specificare all’infinito “marines sudvietnamiti” rispetto a “US marines”, “aviotrasportati sudvietnamiti” rispetto a “US airborne” per chiarire le cose. Normalmente, in altri contesti, quando si dice “alpini”, “bersaglieri”, “marines”, “panzergrenadier” o “fucilieri della Guardia” non c’è bisogno di dire altro. L’ordine di battaglia nordvietnamita, sia per la numerazione delle unità che in riferimento ai comandanti militari (rispetto ai pari-grado comandanti “politici”) è ancora ben lungi dall’essere chiarito definitivamente nel dettaglio. La toponomastica e l’onomastica hanno comportato altri problemi: i toponimi e le province sono cambiati nel tempo, la stessa località o lo stesso personaggio, se descritti da uno storico americano, laotiano, vietnamita o cambogiano hanno spesso nome e spelling assai diversi: quale scegliere? Per evitare di cadere in trappola su battaglie che si credono in luoghi diversi e invece sono gli stessi (o viceversa!) i controlli incrociati non sono mai abbastanza. L’alfabeto vietnamita, introdotto da un religioso francese che ha transliterrato all’occidentale la lingua vietnamita, per poter rendere l’infinita gamma di varianti tonali, di troncamenti e quant’altro, ha reso necessaria l’aggiunta, sulle lettere dell’alfabeto latino, di una serie nutrita di segni fonetici, diacritici, accenti e spiriti. Normalmente nello scrivere questi nomi in Occidente si omette questa serie di segni, rendendo più facili per noi lettura e scrittura, ma facendo un’operazione filologicamente e sostanzialmente scorretta: lo stesso nome se con accenti e simboli fonetici diversi sulle lettere, si pronuncia in modo totalmente diverso.

Un grazie a Merle Pribbenow per l’aiuto letteralmente impagabile, al Professor Spencer Tucker e alla casa editrice ABC-CLIO di Santa Barbara, California, per l’accesso a suo tempo concessomi in anteprima all’edizione del 2011 dell’Encyclopedia of the Vietnam War, al Prof. (Generale in congedo) David Zabecki per la sua grande disponibilità, nonché al mio collega Van Huyen Truong, a, e in memoria di, Sedgwick Tourison, a Cecilie Grina Iversen dell’Ambasciata di Norvegia a Roma, alla NRK, a Ngo xuan Nunh (figlio del colonnello Ngo The Linh, leggenda delle forze speciali sudvietnamite), al Professore Emerito William Turley, al Professor David Coffey, a Amy K. Mondt del Vietnam Archive della Texas Tech University, al Prof. Edwin Moïse della Clemson University, per la sua disponibilità e per avermi concesso di visionare in anteprima parti della prossima edizione del suo “Tonkin Gulf and the Escalation of the Vietnam War”, e un grazie speciale al Professore Emerito Brian R. Sullivan, Catturastorico ed ex-ufficiale d’artiglieria dei Marines decorato di Silver Star e Purple Heart, per avermi fornito gran parte della bibliografia di riferimento.


Alessandro Giorgi

Alessandro Giorgi è nato a Milano il 25 giugno del 1960. Dopo il liceo classico e alcuni esami di carattere storico e umanistico sostenuti al Nazareth College di Rochester (N.Y.), si è laureato in economia aziendale alla Bocconi di Milano con una tesi sull’industria degli armamenti. Ha seguito una carriera manageriale in vari settori e attualmente è dirigente per una multinazionale americana. Si è sempre occupato di storia, in particolare storia militare, e di problemi di equilibrio strategico, politica estera e sicurezza.

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