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Quarto potere – Orson Welles
Orson Welles (1915-1985) è stato uno dei più grandi registi della storia del cinema. Relegare il ruolo di Welles alla sola regia sarebbe assai riduttivo. Infatti, quasi nessuno nel cinema ha avuto un ruolo così centrale ed influente su ogni aspetto della produzione cinematografica. Egli fu anche un grande attore, chiamato da registi maggiori e minori per interpretare parti di ogni genere in film di ogni tipo. La sua carriera di attore non può essere riassunta in poche righe, come non è possibile farlo per altri aspetti della sua vita. Oltre alla regia e alla recitazione, Welles era anche sceneggiatore e produttore.
La vita di Orson Welles meriterebbe uno studio a parte, come ogni aspetto della sua incredibile carriera. Tuttavia, qui ci accontenteremo di trattare di alcuni aspetti del suo cinema, vale a dire principalmente dei contenuti di esso. Orson Welles ha speso l’intera vita nel cinema e la sua opinione su di esso era che “è l’arte del XX secolo. E’ ciò che dobbiamo fare”. La sua carriera inizia nel teatro e dal teatro shakespeariano in particolare trarrà innumerevoli ispirazioni formali e di contenuto, come vedremo dopo. La centralità della figura di Shakespeare è inoltre sottolineata dal fatto che Welles girò e recitò tre capolavori del bardo di Avon: Macbeth (1948), Otello (1952), Falstaff (1965). I tre film tratti dalle opere di Shakespeare rimangono tra le massime espressioni del suo cinema e, in particolare, il Falstaff (tratto dall’Enrico IV parte I e parte II), raggiunge apici straordinari, con una recitazione intensa, densa ed amara. Inoltre, proprio nella “trilogia di Shakespeare” Orson Welles si ritaglia il ruolo del protagonista: Macbeth, Otello e Falstaff. Infatti, come abbiamo anche osservato nell’analisi dell’Enrico IV, è Falstaff il personaggio centrale dell’opera.
Il primo periodo del cinema di Welles può essere quello che va da Quarto Potere (in realtà, Citizen Kane (1941)) a La signora di Shangai (1948). In questo lasso di tempo Welles è ancora legato alle potenti case produttrici di Hollywood e riesce a produrre almeno tre lavori che sarebbero stati impensabili con i mezzi al limite dell’autoproduzione (come poi, per esempio, i capolavori de L’infernale Quinlan (1965) e Rapporto Confidenziale (1955)). Dopo questo periodo, Welles sarà sempre costretto a battere cassa e trovare i modi più disparati per finanziarsi i suoi film, sintomo del fatto che egli riconosceva nel cinema una valore inalienabile, intrinseco e capace di giustificare i sacrifici di una vita. Egli, così, da “regista americano” diventa pienamente “autore”, nel senso europeo. Le difficoltà del lavoro ai limiti della sussistenza (evidente nel capolavoro Rapporto Confidenziale) lo conducono a riabbracciare di quando in quando anche mezzi superiori, come nel caso de Il processo (1962), pur con risultati relativamente inferiori. La carriera di Welles si chiude con una serie di film solo tentati e non compiuti (Don Chisciotte (1992)) o parzialmente riusciti (F for Fake (1973), film in cui parla della sua poetica).
In generale, dunque, possiamo già notare le fonti di ispirazione di Welles: prima di tutto, Shakespeare, poi Kafka e una certa cultura popolare (riscontrabile nel genere noir in grande voga negli anni ’50 del XX secolo e in generale del poliziesco). E’ con Shakespeare che Welles si confronterà per tutto la durata della sua carriera. La vaghezza e l’ambiguità, nonché il conflitto dei valori, sono il centro dei contenuti del teatro del grande Bardo e così pure di Welles. In Shakespeare le tragedie nascono dal fatto che le virtù possono trasformarsi in vizi, nelle giuste circostanze. Un uomo buono e giustamente ambizioso può diventare regicida (Machbet), un grande amante della libertà può diventare l’assassino della figura della storia (Giulio Cesare), un grande amore può diventare fatale (Rome e Giulietta, Antonio e Cleopatra), una madre devota può essere la causa della dissoluzione dell’amato figlio (Coriolano) etc.. In Welles la logica è spesso la stessa, in particolare nei suoi capolavori maggiori: Quarto potere, Falstaff, Rapporto Confidenziale e L’Infernale Quinlan. In tutti questi film, la grandezza del personaggio nasce principalmente dalla sua difficoltà a farsi accettare dal mondo per quello che è. Si tratta di personaggi talmente influenti e potenti che il mondo stesso fatica a contenerli (clamorosi i casi di Charles Foster Kane di Quarto potere e Mr. Arkadin di Rapporto Confidenziale).
L’ambiguità, dunque, è la proprietà antropologica del genio, per Orson Welles. Non c’è grandezza senza una qualche fonte di profonda miseria, causata dalla stessa ragione per cui ci si può dire degni di vivere, almeno in modo superiore alla semplice esistenza della gente che non vale niente. Infatti, Kane è un personaggio ammirevole e quasi onnipotente, eppure solo e triste, incapace di amare ed essere amato, nonostante lui “facesse tutto per amore”. Così anche Quinlan, il quale non sbagliava mai grazie al suo intuito infallibile eppure arrivava a costruire le prove, perché la giustizia e la legge non sempre vanno d’accordo. Ma anche Falstaff è un buon uomo e amorevole, a suo modo, e proprio per questo egli sarà abbandonato dal principe Harry, al momento di diventare re. Nessun personaggio veramente importante è mai definito univocamente, come vien detto pure alla conclusione di Quarto Potere: non si può riassumere la vita di un uomo in una parola. Tutto è un puzzle, in cui anche avendo tutti i pezzi, non si può ricostruire l’intero.
Di Shakespeare, dunque, Orson Welles eredita la complessità e la costituzione propriamente morale dei suoi personaggi. Morale qui intesa nel senso di complesso di condizioni etico-psicologiche che fondano l’agire umano. Tuttavia, se Shakespeare è solo un apparente nichilista, nel senso che non sembra lasciare intendere valori definitivi e superiori, in Welles il nichilismo è quasi esplicito, un nichilismo nobile ma pur sempre tale. Shakespeare, infatti, è un razionalista, un pre-illuminista, esponente di una ragione potente e vincitrice, analoga a quella che poi sarà canonizzata da Cartesio e da Spinoza. In Shakespeare la tragedia non nasce dalla banalità, ma dall’eccesso di grandezza. I suoi personaggi si salvano, quando accettano in qualche modo la loro condizione eroica, come Amleto. Una salvezza parziale, dei posteri, ma pur sempre tale. Si tratta, dunque, di una ragione che sta dentro i personaggi ma anche al di fuori: Shakespeare guarda il mondo con troppa lucidità per non lasciare intendere quanto egli sia dentro le cose e gli attribuisca un senso. Shakespeare, ad esempio, è sempre misurato, preciso e non si abbandona mai ad un vuoto e falso lirismo.
In Welles il nichilismo è una condizione quasi essenziale. Vagamente progressista (come sembra trasparire ne La signora di Shangai) di fatto diventa un disilluso (come si capisce da F for Fake), non a caso due pellicole poste agli antipodi della sua produzione. Il nichilismo di Welles non è, in realtà, totale perché anche se parla dell’insensatezza dello sforzo umano di costruire grandi opere (come ci vien detto esplicitamente in F for Fake) rimane però chiaro il fatto che l’opera d’arte riscatta almeno chi la fa e chi la guarda. Cioè ha un valore di fatto indipendente dalla dissoluzione inevitabile del tempo che tutto cancella. Quindi, come quasi tutti i nichilisti, Welles è in realtà resistente allo stesso svuotamento di valori che egli crede di vedere nel mondo.
Altro tratto del nichilismo moderato o relativo di Welles si ritrova nei personaggi più rappresentativi della sua produzione, vale a dire da Kane, Arkadin e Quinlan. Tutte e tre queste figure sono caratterizzate da alcune proprietà comuni. In primo luogo, essi sono a loro modo geniali, comprendono il mondo e vogliono modificarlo. Allo stesso tempo, loro sono anche vittime della loro stessa narrativa. Kane, ad esempio, divorzia e si sposa con una “cantante”: tra virgole non per nulla perché lo scandalo si giocava sul fatto che tale presunta cantante non fosse che una ragazza di malaffare (le virgole erano nel titolo infamante del giornale concorrente a quello di Kane). Ma Kane si sposa e la costringe a cantare proprio per far diventare vero il fatto che lui stava con una vera cantante.
La storia precede sempre le azioni di questi grandi “narratori”, una storia che nasce in parole e soltanto dopo diventa fatto. In questo senso, il nichilismo di sapore nietzschiano si riscontra proprio nell’assenza di valori morali chiari e indubbi. Piuttosto il comportamento morale si assume soltanto una volta fissata la descrizione di riferimento. Così in Mr. Arkadin. Il potentissimo Mr. Arkadin vuole il rapporto confidenziale per scoprire la storia della sua vita e, in realtà, eliminare tutti coloro che conoscono il suo passato, un passato oscuro da malavitoso di bassa lega. Ancora una volta, un personaggio, vittima della sua stessa narrativa, alla quale decide di essere coerente solamente per non essere preso per un falsario. Come poi anche Quinlan, il quale agisce per conto suo e costruisce prove false, pur per giustiziare i veri colpevoli. Quindi la verità è menzogna e la menzogna è verità. Talvolta il falso è più autentico del vero, talvolta la narrativa sopravanza la realtà. E, in definitiva, nessun grande genio ama i fatti più di quanto non ami se stesso e la sua storia.
L’amore dei personaggi di Welles per le storie, per il gusto dell’affabulazione, è dimostrato da quasi tutti i suoi film. Kane possiede giornali ed è ossessionato dall’opinione pubblica. Inoltre: “aveva un sacco di opinioni, nessuna che credesse veramente” (cito a memoria). Nell’Orgoglio degli Amberson il personaggio principale è vincolato alla sua storia di famiglia alla quale finisce per credere ciecamente e che sarà la causa della sua rovina. Ne La signora di Shangai il personaggio principale racconta la storia degli squali che, attirati dal loro stesso sangue, si sbranano tra loro (storia diventata poi celeberrima). Mr. Arkadin racconta storielle diventate celebri, come il caso del paese con i cimiteri che riportavano nelle lapidi gli anni realmente vissuti dai defunti, o della rana e dello scorpione. In Falstaff il personaggio di Sir John Falstaff è semplicemente un mitomane, il cui amore per le burle sfora quasi in una sorta di pazzia selettiva, come alcune persone: raccontano storie alle quali finiscono essi stessi per credere e si comportano come se tali storie fossero veritiere. Esempi simili si possono sostanzialmente trovare in tutte le pellicole di Welles.
Oltre a Shakespeare e a Nietzsche, Welles riprende anche certi contenuti di Franz Kafka. Il processo non è forse tra i suoi film più riusciti, nonostante una regia davvero straordinaria, con una fotografia significativa e carica di ombre e sfumature. Ad ogni modo, in esso si confronta direttamente con uno dei fondamentali autori del novecento. Come Kafka, dunque, Welles sa riconoscere l’assurdo della vita delle società di massa, della loro inutilità, ripetitività e sostanzialmente intrinseca pochezza e vuotezza. Le situazioni più incredibili nascono dalla constatazione che le persone si ignorano, vivono situazioni surreali che credono reali e ne accettano le conseguenze. Kafka è il narratore della logica del sogno, in cui non si assiste realmente al capovolgimento della realtà, ma al suo stravolgimento, al sovvertimento del senso ordinario di realtà che, di fatto, è semplicemente un sogno specifico: il sogno da cui nessuno si può svegliare, un sogno particolare, un sogno tra i tanti possibili. Sicché i personaggi di Kafka, come poi anche alcuni di Welles, sono legati ad una condizione che non è più assurda della realtà ordinaria, a meno di tracciare il paragone tra quello che ci si aspetta e quello che poi si realizza. Si entra in una stanza e si finisce in un giardino oppure si vede un castello ma non è possibile raggiungerlo etc.. Quindi, sebbene Welles consideri Kafka sostanzialmente in un solo film, la sua poetica è intessuta ed imbevuta dal medesimo sentire. Prova ne è il fatto che le situazioni di film come Rapporto Confidenziale, Quarto potere o La signora di Shangai, cioè film che non sono tratti da opere letterarie, riprendono la logica in cui il protagonista vive sostanzialmente un incubo da cui non si può svegliare.
Ambiguità, narrativa, narrazione, morale ed egoismo sono i contenuti del cinema di Welles e la sua poetica semi-decadente si esprime al massimo grado quando i personaggi sono degli interpreti loro malgrado di queste pietre angolari del suo cinema. Dal punto di vista formale, Welles è stato definito un barocco, nel senso che egli predilige le immagini complesse, iperdense e sovraffollate di dettagli, possibilmente secondari ed inutili da un punto di vista narrativo. Eppure, proprio il sovraffollamento e l’iperdensità mostrano anche a livello visuale i contenuti e la sostanza della sua visione del mondo. Il film classico del suo cinema ideale è senza dubbio Quarto potere, perché è forse l’unico film in cui davvero Orson Welles ha avuto la possibilità di imporre ogni sua volontà. Quarto potere è una ricerca meticolosa di ogni possibile dettaglio: ogni inquadratura inizia con una immagine la cui scelta non è mai casuale ed arricchisce tutta la sequenza, imponendone quasi un corso inevitabile. Negli altri film si può trovare più o meno sperimentalismo o ritrovare i tratti già espliciti in Quarto potere. Ma solo in quest’ultimo Welles ha avuto veramente la possibilità di essere “se stesso” fino in fondo.
Questo articolo, dunque, riassume solamente alcuni tratti essenziali di qualcosa che può essere solamente fruito dalla visione dei suoi tredici film. Esso è fondamentalmente un tributo ad uno dei più grandi cineasti di ogni tempo ed uno di quelli che ha maggiormente dato forma e sostanza ad una parte di me stesso. Per questo invito a guardare direttamente i suoi film tutti straordinari anche quando non pienamente riusciti. Come è sempre il caso dei grandi autori, capaci di trovare la chiave di volta e un senso universale, anche e soprattutto loro malgrado.
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