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Chiudiamo questo saggio con qualcosa che, in sé, non aggiunge nulla rispetto a quanto detto fino ad ora. Infatti, i social network non hanno creato la moda, non hanno creato il problema dell’esibizione e non hanno fatto altro che sovrapporsi ad una dimensione già esistente. Ovvero la dimensione dell’esibizione pubblica condivisa e oggetto di riflessione da parte dell’ampio spazio sociale. Tuttavia, è interessante sottolineare alcune novità o, perlomeno, alcuni fenomeni emersi nei social network (per una analisi generale, Rossolini (2014)).
Prima di iniziare l’analisi, vale la pena di riportare un fatto che mi venne fatto notare qualche tempo fa e di cui ero all’oscuro, giacché non sono iscritto a facebook o ad altri social di questo tipo (per chi voglia scoprire il motivo Pili (2013b)). Un giorno un mio coinquilino mi fa vedere una fotografia di un ragazzo che mostrava il suo deretano con la scritta dell’università di appartenenza. Non mi fece sorridere ma mi venne spiegato il motivo di tale risposta. Perché di questo si trattava. Di una risposta. Di una risposta ad un’altra serie di foto che era di studentesse universitarie che avevano scritto la loro università o direttamente sul seno esposto da una scollatura ovvero nella maglietta che celava (ma solo per rendere più evidente per contrasto) il seno prosperoso. Allibito da questo fatto, si scoprì che era diventato un fenomeno relativamente virale, parola abusata all’infinito ma tant’è… Le persone in questione non mettevano in mostra la loro faccia, tuttavia va fatto osservare che risalire alla fonte, cioè alla causa, non è una cosa difficile per nessuno che sappia utilizzare i social network.
Esempi come questo possono essere replicati ad libitum. Se vogliamo simili fenomeni di esibizionismo non sono certo stati inventati dai social. Ma i social rendono queste attività sociali molto più facili da trasmettere e condividere. Rileviamo il fatto che le facce non venivano messe in mostra, per un residuo senso di pudore, forse. Ma su instangram, social dedicato alle immagini, simili sotterfugi vengono a cadere perché privi di senso: l’obiettivo stesso è mostrare se stessi. I selfie sono un sintomo di questo fatto, selfie altra parola coniata dall’era delle foto a costo zero (oggi che le foto non hanno più un costo per essere riprodotte, è possibile fare autoscatti come se non ci fosse un domani o proprio per il terrore di scoprire che esiste anche un domani).
L’esibizione (cfr. 5) è un fatto connaturato all’essere sociale dell’uomo e alla sua vita intersoggettivamente concepita (cfr. 4). Nell’era dei social essa, però, ha acquisito una nuova valenza sia sociale che politica, giacché la politica è sempre più invasa dall’esigenza di acquisire consensi proprio tramite lo sfruttamento sistematico dell’esibizione. Fatto antico quanto il mondo (basti pensare a Mussolini o al culto della personalità di Stalin). Il punto, però, è un altro. E cioè che i social hanno espanso la dimensione dell’esibizione, rendendola paradossalmente ancora più importante. Soprattutto, oggi tutti possono credere che la loro vita sia pubblica. Infatti, la vita sul web diventa, così, l’espansione dell’attività quotidiana delle persone, con il risultato che queste si identificano con la narrazione che esse costruiscono insieme alle altre proprio sui social network.
La narrativa delle persone su di sé è anch’essa un fatto storico antico, se Natalia Ginzburg ci scrisse su un libro per parlare del ‘lessico familiare’, che è tutt’altro che una cosa esclusiva del ‘familiare’ ma di tutte le compagini sociali in cui i membri si identificano come si vede bene dal caso delle case di studenti (Pili (2015c)). In ogni caso, dato il fatto che la persona è diventata pubblica anche nell’etere (cosa propria dell’era di internet perché la televisione non aveva la possibilità di imporre questo spazio a ciascuno. E infatti oggi sempre più la televisione tenta di avvicinare l’uomo comune); dato l’etere, dunque, la narrazione individuale passa anche attraverso lo scambio di informazioni attraverso i social e internet in generale.
Anche volendo, internet non consente di sostituire la persona reale perché su internet si possono scaricare informazioni. Internet, cioè, è una grande testimonianza, un sistema che collega le persone indirettamente e rende accessibili i fatti soltanto per rimbalzo, come ogni sistema di comunicazione: collega, appunto, due persone che sono al di là e al di qua del computer. Tuttavia, non può andare oltre questo. Sicché le persone che vogliano utilizzare internet sono vincolate ipso facto alla struttura di questo media, che funziona esclusivamente per immissione di dati che sono esterni alla rete.
Se le persone vogliono socializzare su internet devono, gioco forza, costruire una identità parziale. Parziale perché la loro corporeità può soltanto essere testimoniata, ma non conosciuta per via diretta. Questo consente l’instaurazione della condivisione della propria esibizione, che può diventare così totalmente autonoma dall’esibizione quotidiana. Diventa autonoma parzialmente, ma può essere strumentalizzata in modo che la persona e il suo avatar siano solo congiunte ma non del tutto sovrapponibili. Internet ha sue regole di utilizzo, sicché per ricostruire se stessi in internet, bisogna saperlo usare. E siccome la testimonianza è per sé stessa una selezione di materiali, anche i social non possono ricreare mai del tutto la persona che decide di condividere in essi informazioni.
Il risultato è che le persone non tanto si identificano sulla piattaforma social, ma sono consapevoli del fatto che sono rappresentate in essa. Rappresentazione che costituisce un limite e opportunità. Quindi, ciò che si può mostrare in internet è prima di tutto la propria esibizione complessiva, ma filtrata proprio perché per tutto quanto detto non può né potrà mai essere totale. E allora le persone che diventano utenti, cioè utilizzatori, si interfacciano in modo che la loro immagine assuma una certa forma.
La solitudine è un fenomeno connaturato alla natura umana e trova soddisfazione in vari modi ma tutti questi richiedono le altre persone. Ritornando all’esempio del seno universitario, cosa ci può dire? In primo luogo, che le persone volevano condividere qualcosa. Prima di tutto e ovviamente la loro sessualità, marcata e caratterizzata. E’ così? Be’, basti dire che una persona come me, priva di seno, non avrebbe potuto scrivere assolutamente niente laddove non c’è proprio niente. In secondo luogo, che quella sessualità è veicolo di cultura, giacché quella persona mostrava il seno correlando una informazione sulla sua appartenenza ad una università, da sempre sintomo di distinzione economica, sociale e culturale. In terzo luogo, che esse si sentivano sole. Almeno relativamente al fatto che volevano far sapere agli altri che loro hanno certe caratteristiche. Infatti, come già osservato ad usura (cfr. 1, 4, 5, 6, 7 e 8) l’esibizione non esiste senza spettatore, anche solo ipotetico. Se non si fossero sentite almeno parzialmente sole, si sarebbero semplicemente fatte il make up di fronte ad uno specchio. Ma l’esigenza di mostrare ovvero mostrarsi era troppo forte. Cioè non si voleva rinunciare alla pubblicità, cioè allo spazio sociale.
Se questo è, chiaramente, un fenomeno estremo (anche se, ovviamente, ne esistono di molto più estremi), va detto che questa legge vale in ogni contesto in cui una persona metta a disposizione una parte della propria esibizione su internet. Le mie poche foto sulla pagina facebook di SF2.1 (che non è gestita da me) sono state scelte per lanciare un messaggio e l’ho fatto consapevolmente.
Cosa mostrano, dunque, i social? In generale, mostrano molto bene la terribile condizione di solitudine in cui ci si ritrova quotidianamente immersi e la necessità diffusa di venire osservati, come palliativo imperfetto di una più perfetta condivisione di sé stessi, quale che sia la sua forma. Infatti, il social viene così impiegato come mezzo per lanciare segnali, messaggi, marcare espressioni etc., tutte cose già presenti nell’esibizione pubblica. Si espande la narrativa di sé cercando di imporre agli altri l’attenzione. Lo spazio intersoggettivo si ipertrofizza e chi è fortemente motivato a mostrare se stesso, la sua esibizione, trova uno spazio pressoché infinito per far presenta agli altri la propria esistenza. Con il risultato, appunto, che invece di investire il proprio tempo a perfezionare se stesso, finisce invischiato in una logica che tende a impoverire il soggetto, giacché questo deve spendere tempo a costruire segnali e marcatori adeguati, cioè cose che non sono significati né hanno una valenza duratura. Dato il fatto che il contesto sociale segue una logica selettiva ed evolutiva, i sistemi per continuare a mantenere alta l’attenzione delle altre presunte persone diventa stressante. Questo è mostrato molto bene dalla vita delle celebrità, spesa interamente a questo scopo (si pensi a Kim Kardashian). Esse hanno quasi interamente perduto il senso di privatezza perché tutto diventa strumento per dimostrare agli altri che la propria esibizione ha un valore intrinseco. Che non c’è, perché se essa ha un senso è che rimanda all’interiorità della persona (cfr. 5) che però non può essere comunque attinta.
Il risultato, dunque, è che i social, lungi dall’aver risolto il problema della solitudine, hanno ancora una volta scambiato la soluzione con un falso mito. Ma noi ormai ci siamo abituati ai falsi miti. Non ci spaventano più. Ognuno di noi deve essere responsabile di se stesso. Oggi più che mai, oggi che il sesso e i sentimenti sono l’oggetto di venerazione. Perché? Perché sono le uniche cose che le persone trovano dentro di loro in modo sufficientemente chiaro per poter trovare qualcosa da fare oltre allo spazio lasciato libero dalla loro necessità di sopravvivere. Perché pochi hanno entrambi e i pochi che hanno anche solo uno dei due si scoprono così miseramente vuoti che non sanno fare altro che mettere imbarazzanti autoscatti.
[Per scaricare il pdf. dell’articolo integrale: The system of fashion]
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