È recentemente uscito su Frontiers in Psychology un contributo teorico che si propone di conciliare due insiemi di risultati empirici, inerenti alla descrizione dell’acquisizione della capacità di ragionamento morale, che portano a conclusioni tra loro in apparente contrasto. La pubblicazione è firmata da Francesco Margoni e Luca Surian, ricercatori al Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento, ed è sia una rassegna di lavori sperimentali sia un lavoro di organizzazione concettuale e riflessione interpretativa sulle conclusioni di alcuni studi sperimentali in psicologia dello sviluppo morale.
In una prima parte del lavoro vengono passate in rassegna la letteratura classica e quella recente sullo sviluppo del giudizio morale in età prescolare e scolare. Uno dei risultati principali è che verso i quattro-cinque anni il ragionamento morale del bambino subisce un cambiamento radicale (cfr. Piaget, 1932; si veda anche Cushman, Sheketoff, Wharton, & Carey, 2013; Karniol, 1978; Killen, Mulvey, Richardson, Jampol, & Woodward, 2011).
Mentre i bambini più piccoli sembrano dare maggiore peso alle conseguenze dell’azione piuttosto che alle intenzioni di chi agisce, i bambini più grandi acquisiscono un giudizio maturo basato quasi esclusivamente sull’esame della qualità delle intenzioni. Nell’attribuire a qualcuno la bontà o la cattiveria morale, il bambino, e poi l’adulto, prende in considerazione se l’individuo desiderava fare del bene o del male, se ‘voleva’ agire in un senso o nell’altro, e solo in misura minore considera quali conseguenze sono state causate dall’azione compiuta dall’individuo (Cushman, 2008).
Tuttavia, la recente introduzione di tecniche e misure per lo studio della valutazione nella prima infanzia ha permesso di raccogliere una serie di evidenze empiriche di una precoce acquisizione della capacità di attribuire le classiche proprietà morali (bontà e cattiveria) basandosi sulle intenzioni. Sembrerebbe che durante i primi due anni di vita il bambino sviluppi la capacità di attribuire al prossimo stati mentali come credenze, desideri e intenzioni. Inoltre, già nei primi anni di vita, il bambino distinguerebbe chiaramente tra azioni buone e cattive (Hamlin, Wynn, & Bloom, 2007), tra comportamenti distributivi equi e iniqui (es. Geraci & Surian, 2011; Meristo & Surian, 2013), e sarebbe in grado di integrare l’esame delle intenzioni altrui nell’elaborare le aspettative su come gli individui si comportano in situazioni connotate moralmente (Dunfield & Kuhlmeier, 2010; Hamlin, 2013).
Di conseguenza, nella descrizione dello sviluppo della capacità di giudicare moralmente sulla base delle intenzioni, ci si trova a dover sostenere che un’abilità presente nei primi anni di vita non è riscontrabile nei bambini di tre e quattro anni. Come spiegare questa ‘stranezza’? Gli autori introducono la spiegazione mettendo in luce che le misure utilizzate nello studio dell’infante differiscono rispetto a quelle utilizzate nello studio del bambino più grande. Se, infatti, nello studio dell’infante vengono registrate le aspettative, e dunque un ragionamento a livello non verbale, ai bambini più grandi si chiede molto spesso di formulare verbalmente un giudizio. Questa differenza è cruciale. Rispetto ai compiti usati nello studio dei bambini grandi, quelli usati per lo studio del giudizio morale dell’infante prevedono un impiego minore da parte del bambino delle cosiddette “funzioni esecutive“.
Il giudizio morale basato sulle conseguenze tipico dei bambini in età prescolare sarebbe spiegabile dal fatto che a quest’età i bambini non hanno acquisito in grado sufficiente alcune capacità inibitorie (della risposta scorretta) e di selezione (della risposta appropriata). Solamente verso i cinque-sei anni, una volta che queste capacità legate alle funzioni esecutive saranno sufficientemente sviluppate, il bambino mostrerà un giudizio morale basato sulle intenzioni anche quando viene coinvolto in studi sperimentali che prevedono l’uso di compiti verbali.
Pertanto, l’articolo di Frontiers in Psychology propone un argomento in grado di conciliare una serie di risultati che i ricercatori incominciavano a considerare come contradditori tra loro, e mira a fornire alcuni punti fermi all’interno della discussione su quale sia la relazione tra lo sviluppo del ragionamento morale, l’acquisizione di capacità cognitive più generali, e le scelte metodologiche e procedurali proprie degli attuali paradigmi di ricerca sperimentale in psicologia dello sviluppo.
Bibliografia minima
-Cushman, F. (2008). Crime and punishment: Distinguishing the role of causal and intentional analyses in moral judgment. Cognition 108, 353–380.
-Cushman, F., Sheketoff, R., Wharton, S., & Carey, S. (2013). The development of intent-based moral judgment. Cognition 127, 6–21.
-Dunfield, K.A., & Kuhlmeier, V.A. (2010). Intention-mediated selective helping in infancy. Psychological Science. 21, 523–527.
-Geraci, A., & Surian, L. (2011). The developmental roots of fairness: Infants’ reactions to equal and unequal distributions of resources. Developmental Science. 14, 1012–1020.
-Hamlin, J.K. (2013). Failed attempts to help and harm: Intention versus outcome in preverbal infants’ social evaluations. Cognition 128, 451–474.
-Hamlin, J.K., Wynn, K., & Bloom, P. (2007). Social evaluation by preverbal infants. Nature 450, 557–559.Karniol, R. (1978). Children’s use of intention cues in evaluating behavior. Psychological Bullettin. 85, 76–85.
-Karniol, R. (1978). Children’s use of intention cues in evaluating behavior. Psychological Bullettin. 85, 76–85.
-Killen, M., Mulvey, K.L., Richardson, C., Jampol, N., & Woodward, A. (2011). The accidental transgressor: Morally-relevant theory of mind. Cognition 119, 197–215.
-Margoni, F., & Surian, L. (2016). Explaining the U-shaped development of intent-based moral judgments. Frontiers in Psychology, 7, 219.
-Meristo, M., & Surian, L. (2013). Do infants detect indirect reciprocity? Cognition 129, 102–113.
-Piaget, J. (1932). The Moral Judgment of the Child. London: Kegan Paul.
Reference:
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