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Consigliamo in SF – I tre generi dell’etica e Percorso di etica e metaetica di Giangiuseppe Pili
Le posizioni naturaliste in etica (naturalismo etico) rivendicano l’idea che i termini morali fondamentali, in particolare buono o cattivo, possano essere riscritti all’interno del vocabolario fisicalista. Buono e cattivo sono assunti come identici a piacere e dolore. L’uguaglianza è rivendicata ora come evidente, ora come assunzione teorica. L’idea è che ogni essere umano agisca secondo la ricerca del proprio piacere o della propria utilità e chiama buono tutto ciò che lo conduce ad un guadagno, ad un aumento del proprio piacere o della propria utilità, mentre chiama cattivo tutto ciò che lo conduce ad un maggiore dolore, ad uno svantaggio. L’assunzione (sia in senso affermativo: le persone agiscono in vista del piacere; sia in senso negativo: le persone fuggono dal dolore) è molto forte ma è stata il fondamento di quasi tutte le formulazioni dell’edonismo o dell’utilitarismo. In realtà, tale idea è assunta anche da filosofi volontaristi, come Hobbes.
Moore muove una critica canonica a questa concezione facendo notare come i termini “buono” e “cattivo” non siano riscrivibili nei termini di “piacere” e “dolore” se non in determinante condizioni. Questo ci fa capire come le proposizioni in cui compare la parola “buono” non hanno il medesimo significato di quelle a cui la parola “buono” è sostituita la parola “piacere”. Stesso discorso si può fare con i termini “dolore” e “cattivo”. Se diciamo che “Giovanni è una persona buona” non vogliamo dire che “Giovanni è una persona piacevole”, anzi, vogliamo dire qualcosa di molto più impegnativo e, talvolta, “buono” e “piacere” non si implicano reciprocamente: Giovanni potrebbe essere un burbero dai modi irritanti, ma essere molto impegnato nel sociale, di indole sincera e incapace di far del male ad una mosca. Esistono moltissimi casi in cui “piacere” e “buono” non combaciano e ciò mostra come i due termini non siano semanticamente equivalenti. Moore mostra che a priori i due termini indicano cose distinte giacché non c’è identità nella reciproca sostituzione delle due parole in frasi diverse. “Piacere” e “buono”, “dolore” e “cattivo” non sono sinonimi.
Il bene è un termine non definibile, intuitivo. Se “bene” e “male” sono termini intuitivi, essi denotano delle proprietà che sopravvengono rispetto a quelle naturali: le proprietà morali. Noi distinguiamo i comportamenti e i fatti in buoni e cattivi secondo dei parametri di valutazione distinti da quelli che ci conducono alla valutazione di cose piacevoli e spiacevoli.
Se “bene” e “male” sono termini indefinibili, secondo il naturalismo etico, così non è per “giusto” che è “ciò che c’è di meglio”. E’ doveroso fare ciò che è giusto. Tuttavia, il concetto di “migliore di…” è dato dalla comparazione e non è definito in sé: ciò ci conduce al riconoscimento di un consequenzialismo di fondo. Si può conoscere ciò che è migliore, ciò che è giusto, solo attraverso l’immaginazione delle conseguenze di un certo atto e la loro comparazione con le conseguenze di un altro atto.
Secondo il naturalismo etico, le persone sono intrinsecamente motivate a fare ciò che è più giusto proprio perché rappresentano in sé ciò che è meglio per loro. La conoscenza morale, tuttavia, si configura come qualcosa di parziale e probabilistico giacché c’è un chiaro limite sia nella previsione delle conseguenze di una certa scelta, sia nella sua comparazione con le altre possibili decisioni. Non solo. A volte non ci rendiamo neanche conto che ci sono delle possibilità reali che noi scartiamo perché (1) non le contempliamo come esistenti oppure (2) non crediamo che siano attuabili. In questo senso, la nostra conoscenza morale non ci conduce mai alla certezza di “aver fatto la cosa migliore” ma solo al fatto che siamo parzialmente nel giusto, non necessariamente in ciò che c’era di “più doveroso”.
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