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Al periodo dell’interregno tra Andropov e Chernenko (cfr. § 4) seguì la fase conclusiva della guerra fredda. Mikhail Gorbaciov (1931) fu consacrato come leader dell’URSS nel 1985. Egli ripudiò la politica di Leonid Brezhnev (cfr. § 4), definendone il periodo come di stagnazione. Si impegnò a ritirare le truppe dall’Afghanistan ma, come ogni ritiro, fu più lungo del previsto. Inoltre, incentrò la sua politica interna e quella estera in nome di alcuni principi guida, le cui parole d’ordine erano perestroika (ricostruzione) e glasnost (apertura). Come spesso accade, i nomi delle imprese umane vengono dati per degli stati di cose qualificati come contrari, cosa ben nota a George Orwell, che imposta molto del suo 1984 sulla divergenza tra ciò che vien dichiarato e ciò che esiste. L’URSS andava riformata economicamente e istituzionalmente.
A complicare le cose dell’URSS fu l’ingresso nella scena politica di Ronald Reagan e il disastro di Chernobyl (1986). Ronald Reagan (1911-2004) era stato eletto presidente anche per via del suo acceso anticomunismo: egli doveva rappresentare il ritorno della linea dura nella politica estera americana. In realtà, nonostante uno stile di comunicazione che evocava il regno del male, rimane che, sul piano dei fatti, Reagan si impegnò nel disarmo nucleare e fu un sostenitore di Mikhail Gorbaciov. Reagan aveva inizialmente sostenuto l’iniziativa di difesa strategica (Strategic Defence Initiative) nel 1983, nota anche come “guerre stellari” (star wars). Si trattava di un progetto monumentale di sistema antimissile che sarebbe stato parzialmente dispiegato direttamente nello spazio. I sovietici dubitavano della possibile realizzabilità del progetto, ma sta di fatto che fu preso assai sul serio.
Nel 1986 Gorbaciov e Reagan arrivarono a firmare l’accordo per la rimozione dei missili nucleari a media gittata dispiegati contro gli alleati europei. Nel 1987 Reagan e Gorbaciov si accordarono per la rimozione di tutti gli arsenali nucleari di media e corta gittata. Le trattative non furono prive di ostacoli, anche proprio per la SDI più volte evocata, ma alla fine portarono a dei buoni risultati anche per via della fiducia vicendevole venutasi a creare tra i due leader. Gorbaciov era, in tal senso, tanto distante da Stalin quanto poteva esserlo da Kruscev: era un uomo istruito, colto, capace di mediare interessi diversi, lontano dalla diffidenza che genera la guerra nei rapporti umani e capace di accattivare la simpatia delle masse, anche e soprattutto occidentali. Infatti, Gorbaciov rimane assai criticato anche per il fatto che egli fu il primo a consentire un rilassamento del controllo sulla società sufficiente ad accettare un inizio di dibattito critico pubblico. E le conseguenze sono sempre le stesse, giacché mai come in democrazia si è inclini a criticare l’operato dei governanti. Perché, come ben diceva quel grande storico che fu Huizinga, gli uomini possono vedere soltanto il male della loro epoca, concentrati, come sono, a sopravvivere in un mondo difficile e per lo più incomprensibile. Quel che non era riuscito a Eisenhower e Kruscev era, infine, riuscito a Reagan e Gorbaciov.
Nel 1986 il disastro di Cernobyl fu di tali dimensioni che l’URSS dovette dichiararlo al mondo, una delle ultime grandi cadute dell’immagine della potenza sovietica prima del crollo. Il disastro fu contenuto a fatica, gestito male e in modo troppo lento. Ma ormai si trattava di uno dei momenti esiziali del crollo finale. Che non tarda ad arrivare.
Nel gennaio del 1989 le truppe sovietiche si ritirano definitivamente dall’Afghanistan, una guerra che era costata perdite importanti e, soprattutto, un deficit economico insanabile. Infatti, per quanto sia una guerra ben meno nota che quella del Vietnam, anche per le inevitabili differenze della circolazione delle informazioni tra URSS e USA, fu una guerra decennale, capace di assorbire mezzi e capitali ingenti dell’Unione Sovietica, già sottoposta ad uno sforzo economico costante per il controllo simultaneo delle altre aree dell’impero sovietico. Ma era il momento di una più vasta ritirata. Infatti, nel giugno del 1989 la Polonia si dichiara indipendente, uno degli stati che più aveva pagato l’essere posto geograficamente tra la Germania nazista e l’URSS di Stalin. Nel settembre l’Ungheria si dichiara indipendente e a novembre il muro di Berlino è demolito e la città viene riunificata.
La riunificazione finale della Germania sarebbe arrivata un anno dopo (il 3 ottobre del 1990), ma già il crollo del muro era il segnale che tutto il mondo stava aspettando dall’inizio dell’occupazione armata della città, dopo la seconda guerra mondiale. Il muro, eretto nel 1961 (cfr. § 3), fu il simbolo stesso del dispotismo sovietico, anche se ci si dimentica velocemente della presenza dei tank americani dall’altra parte. Ma il muro, come detto, non era che il simbolo materiale dello stato di cose durante la guerra fredda: la Germania e Berlino erano state divise a seguito dell’infinita serie di problemi politici causati dalle due guerre, nonché l’unico modo per mantenere l’Europa, di fatto, sotto il diretto controllo di chi aveva pagato le guerre europee più da vicino (USA e URSS). La fine della divisione della Germania era anche la fine della divisione dell’Europa in est e ovest, era la fine dell’imposizione di un ordine mondiale con le armi atomiche e la MAD svaniva. Non ce n’era più bisogno perché non c’era più niente da difendere, ormai, con quelle armi.
Alla fine del 1989 cadono anche i governi comunisti in Cecoslovacchia, in Bulgaria e in Romania. Mikhail Gorbaciov non aveva opposto resistenza armata e aveva soltanto cercato di mantenere un comunismo di libera scelta. Fallendo. Ormai gli stati del blocco sovietico (ormai defunto) volevano la loro indipendenza e la loro indipendenza da Mosca si fondava su un nazionalismo antico e mai morto, trattenuto soltanto dalla forza delle armi. Cessate le armi, il comunismo non poteva che diventare il simbolo stesso dell’ingiustizia. Una parziale eccezione si verificò in Lituania, dove il KGB, e non sotto gli auspici di Gorbaciov, tentò di mantenere il potere e piegare la folla e far cessare l’indipendenza: i paesi baltici erano tra le repubbliche che per prime caddero sotto il controllo dell’URSS staliniana. Ma si trattò di un caso isolato e terminò rapidamente.
Il nazionalismo rinato arrivò a dominare anche la Russia, la più grande delle repubbliche sovietiche: Boris Yelstin (1931-2007) fu eletto presidente della Russia. Nell’agosto del 1991 l’Unione Sovietica cessò di esistere: Gorbaciov consegnò le chiavi degli armamenti nucleari a Yelstin e, con esse, l’Unione Sovietica era finita. Quando la bandiera rossa fu calata, il mondo si fermò ad ammirare la fine di un sogno, meraviglioso e terribile: la fine di un impero che avrebbe dovuto cambiare il mondo e che finì per implodere per via dell’irrealizzabilità intrinseca delle sue idee.
Eppure, ancora oggi, si continua a parlare della guerra fredda quasi con nostalgia: basta vedere i colori patinati e i personaggi innocui e bonari di un recente film di Spielberg, per rendersi conto di questa retrospezione. Il mondo era migliore allora? Tutt’altro. Ma c’era una differenza con il mondo del secolo XXI. La storia sembrava poter avere un senso. Oggi la storia si mostra per quello che è: senza sogni e senza incubi, semplicemente un puro caso del destino, infinita sommatoria di idee inespresse, potenzialità fallite e qualche bella intuizione portata a termine. Questo il destino di quell’umanità venuta al mondo senza sapere un perché e che senza un perché deve continuare ad esistere, tra un vuoto nichilismo de facto e un fanatismo iperdenso dall’altro. Questa, la nostra condizione. La condizione di chi vive nel dopoguerra fredda. La condizione di chi vive nel XXI secolo.
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