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Nikita Kruscev si era spinto troppo in avanti nella crisi di Cuba e aveva incrinato i rapporti con il colosso cinese, la cui qualità nasceva principalmente dalla quantità. A seguito di ciò e del fatto che Kruscev era capace di prendere anche iniziative isolate dall’élite, si tramò alle sue spalle. L’organizzazione del complotto portò Leonid Brezhnev (1906-1982) al potere.
Leonid Brezhnev era stato uno dei principali sostenitori di Kruscev, ma questo non gli impedì di conquistare il comando dell’URSS. Kruscev fu semplicemente ‘invitato’ a uscire fuori dalla scena politica, un sistema che egli stesso ricordò amaramente, sostenendo che il suo contributo alla causa era stato rendere possibile un simile fatto senza rischiare, come sotto Stalin, di finire direttamente in un gulag. Sicché egli rimase in vita, gli venne concessa una pensione di stato e una casa. Quando, poi, iniziò a scrivere le sue memorie, data la natura delle stesse, la pensione fu ridotta e fu costretto a cambiare casa e la nuova dimora non era piacevole come la precedente. Ad ogni modo, dopo un iniziale scoramento, Kruscev ebbe modo di terminare la sua vita in pace.
L’eredità di Kruscev, comunque, fu cospicua. Il paese aveva una libertà di parola e stampa prima sconosciute. La sua riforma dell’istruzione aveva portato ad un miglioramento del sistema scientifico. Le sue decisioni nel campo dell’industria avevano sortito dei buoni effetti e fino alla prima metà degli anni ’70, l’URSS godette di una buona crescita economica. Va detto, però, che il problema delle derrate alimentari era rimasto cronico: l’URSS continuò a dover importare il grano, di quando in quando, anche dagli stessi USA, che ne fecero, talvolta, un arma di ricatto.
Sul piano della politica estera Kruscev aveva iniziato la deriva terzomondista, quella che poi avrebbe guidato l’URSS verso la sua guerra in Vietnam, cioè la guerra in Afghanistan, contro i Mujaheddin. In fine, Kruscev aveva ampliato lo spettro della competizione, come visto, portandola in ambiti diversi ma congiunti: dallo spazio alla produzione industriale, dal controllo delle aree del terzo mondo allo sviluppo di nuovi ordigni nucleari, tutto era diventato un fatto politico.
Leonid Brezhnev era convinto nella causa della distensione politica, ma anche sostenitore di un più rigido controllo sociale e politico, sia nei confronti della stessa Unione Sovietica, sia nei confronti dei satelliti. Non fu un caso, infatti, che nell’agosto del 1968 Brezhnev autorizzò l’invio di truppe dell’armata rossa per spegnere definitivamente la primavera di Praga e nella Cecoslovacchia. Brezhnev fu scelto tra i vari candidati per il post-Kruscev anche per il fatto che egli teneva in alto rispetto l’opinione delle forze armate e del KGB, di cui si servì, come del resto tutti gli altri leader.
Inoltre, Brezhnev segnò un ritorno ad alcuni echi di una forma di neostalinismo anche per via del suo più ingenuo culto della personalità: amava le medaglie, che gli venivano conferite con generosità in varie celebrazioni, alcune delle quali gli vennero tolte una volta morto. Era fiero delle sue gesta militari, nonostante non avesse partecipato ad alcuna battaglia importante nella ‘grande guerra patriottica’ (la seconda guerra mondiale). Questo non tolse che impose una certa immagine retrospettiva di sé, grazie alle sue vere o presunte, gesta. Va detto, comunque, che per quanto Brezhnev potesse tentare di incentrare su di sé una certa propaganda politica, fondata quindi sul culto della personalità, rimane il fatto che fu ben lontano dagli apici toccati da Stalin stesso e da altri leader di paesi totalitari del XX secolo.
La seconda metà degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta vide un’espansione del problema dei diritti umani. In particolare, furono gli USA a scoprire amaramente il problema della contestazione interna del sistema, dei diritti delle minoranze e della conquista della parità dei diritti da parte di cittadini esclusi dalla politica. Kennedy (cfr. § 3) fu il primo presidente a dover spendere attenzione alla causa dei neri afro-americani, a tal punto da essere considerato, in tal proposito, un paladino della difesa di tale categoria. Inoltre, gli USA videro per primi gli effetti delle contestazioni studentesche, portate a livelli prima sconosciuti. In particolare, la guerra in Vietnam e il progressivo coinvolgimento americano furono aspramente contestati in una varietà di modi che continuano ad essere al centro dell’attenzione di storici, di sociologi e di strateghi.
L’ondata di protesta poi si estese all’Europa occidentale e coinvolse anche il blocco sovietico, come viene evidenziato in Zubock (2007) e Harper (2011), perché, come mostrato tanto da Mitter, Major (2004) che da Judt (2007), la cortina di ferro era tutt’altro che fatta di ferro e, come il muro di Berlino era tutt’altro che invalicabile (cfr. § 3), i due blocchi erano in continuo dibattito tra loro e tra i loro alleati. Oggi si dice che le informazioni non hanno padrone e fluttuano in modo incontrollabile. Come sempre quando si parla per truismi, ciò era vero anche nel passato. Ma è indubbio che, almeno in questo periodo, furono gli USA a sperimentare i maggiori problemi dal giudizio sull’equità politica e sul rispetto dei diritti civili da parte dello stato, lezione che verrà fatta propria dagli stessi USA, come si vedrà in seguito. Intanto, l’URSS ancora poteva sfruttare l’armata rossa e la polizia segreta per mantenere alto il profilo del controllo. Ma non sarebbe stato possibile farlo all’infinito.
Gli USA erano coinvolti nella guerra in Vietnam, fallimentare almeno quanto impopolare.
L’amministrazione Johnson era stata tra le più audaci nelle riforme sociali e la sua idea di nuova società aveva portato a grandi cambiamenti nell’America del periodo. Eppure la politica estera degli USA era ormai tale da essersi inimicata anche il sostegno di paesi che avrebbero volentieri considerato gli americani come il popolo più contrario alla causa del colonialismo, sin dal XIX secolo. Questo condusse Lyndon Johnson (1908-1973) a non ricandidarsi per le elezioni, vinte poi da Richard Nixon (1913-1994), il quale aveva ottenuto il successo fondando la sua campagna elettorale nella ritirata subitanea dalla guerra in Vietnam, ritirata che, come altri casi ben più recenti, si dimostrò accidentata e più lunga del previsto (ma non del prevedibile). Rimaneva il fatto che l’amministrazione Nixon era ben consapevole che bisognava cercare una svolta in politica estera, pur mantenendo alto il profilo aggressivo contro i russi, cosa che, come sempre, non vietava una distensione prima facie. La détente serviva per mascherare una competizione ancora più serrata in altri campi, laddove consentiva di stornare risorse dalla corsa agli armamenti che, di fatto, non poté comunque cessare.
La svolta della politica estera americana durante la terza fase della guerra fredda fu senza dubbio la normalizzazione dei rapporti con la Cina comunista (Pili (2014)). Henry Kissinger (1923) fu uno degli artefici di questa svolta, che spiegherà nel contesto della strategia politica americana nel suo monumentale Diplomacy (1996). La mia interpretazione di questa svolta strategica, cioè nel cambiamento dei rapporti diplomatici e di alleanze, è questa: l’obiettivo reale della guerra fredda fu il comunismo globale sino a questo momento, vale a dire che il comunismo in blocco era considerato il nemico delle potenze occidentali, guidate dagli USA. Ma dalla guerra in Vietnam in poi gli USA dovettero ripensare profondamente sulle loro possibilità di intervento a livello globale. Il risultato di tale ripensamento, consapevole o meno, fu la disgiunzione tra il nemico e il comunismo. In altre parole, era l’URSS ad essere il vero e proprio obiettivo polemico, mentre gli altri paesi del blocco comunista non erano considerati altrettanto pericolosi o da considerarsi ostili, a parte il caso rappresentato da Cuba, per le sue peculiarità geopolitiche. Sicché, a seguito di ciò, a differenza che durante il periodo Truman (cfr. § 2) e della sua dottrina, gli USA si concentrarono soprattutto a combattere l’Unione Sovietica. Il risultato fu, dunque, una revisione dei rapporti con la Cina.
Come si è detto, i rapporti tra l’URSS e le altre potenze comuniste non era semplice, sia perché era sempre possibile un disaccordo tra i vari timonieri (come tra Tito e Stalin o tra Mao e Kruscev), sia perché era sempre possibile elaborare una propria via al vero marxismo. Dopo la defezione di Tito, fu la volta delle relazioni diplomatiche difficoltose con la Cina, nonostante il trattato di amicizia firmato durante l’ultimo periodo staliniano e nonostante l’impegno al sostegno scientifico e tecnologico che portò la Cina ad avere un suo arsenale nucleare (1964), compreso di ordigni all’idrogeno dopo pochi anni.
Gli americani avevano sempre riconosciuto come governo legittimo cinese, il governo nazionalista di Taiwan sin dai tempi di Chiang Kai-Shek, a cui devolvettero e devolvono tutt’oggi, la loro attenzione. Ma i problemi della guerra in Vietnam e la necessità di rompere il blocco comunista condusse ad una politica ‘realista’ gli USA. Henry Kissinger fu inviato in Cina e nel 1972 il presidente Nixon stesso visitò il più grande paese dell’Oriente ponendo, di fatto, le basi per un vicendevole sostegno, sia sul piano economico che su quello diplomatico, i cui risultati permangono ancora oggi, ma che furono pienamente riconosciuti nel ’79.
La seconda metà degli anni ’70 videro la stagnazione del sistema economico dell’URSS, problema che fu dichiarato tale da Mikhail Gorbaciov. L’URSS non cresceva più economicamente e il rallentamento dell’economia sovietica non implicò una diminuzione delle spese militari, su cui si erano comunque imbarcati per il sostegno di diversi paesi del terzo mondo come nel sostegno in medio oriente di Egitto e Siria contro Israele (1973), oppure in Angola (1976), con la partecipazione anche di un contingente cubano. Inoltre, fu stabilito un imponente rinnovamento delle forze navali, che portarono alla costruzione di vascelli di grande capacità. Sebbene gli USA erano senza dubbio la potenza egemone nei mari, con una tradizione consolidata dalle due guerre mondiali di proiezione di potenza fondata sulla flotta, l’URSS tentò di arginare la potenza navale americana puntando su sistemi missilistici antinave e poche portaerei. Ad ogni modo, anche la costruzione di nuovi vascelli e il rinnovamento degli obsoleti comportò un inevitabile aumento delle spese, anche dopo il SALT II (1979).
L’URSS, d’altronde, manteneva il suo prestigio e il suo controllo sui vari satelliti con la forza delle sue armate e con la superiorità in termini qualitativi. Sicché era impensabile poter fare a meno di ingenti investimenti nel settore della difesa. Tuttavia, non si trovò mai la possibilità di conciliare la corsa alle armi con la corsa alla pace. Inoltre, dopo la guerra in Vietnam, gli USA erano risultati aggressivi sugli altri piani della lotta: nel 1969 ci fu l’allunaggio e nel 1972 Nixon si recò in Cina. E anche se il Vietnam del sud fu unificato con il nord comunista (1975), nonostante Nixon fu costretto a lasciare la White House (1974), gli USA rimanevano avanti sotto almeno altri tre fronti: l’economia, la tecnologia e il piano diplomatico. Infatti, sul piano economico gli USA, pur con la fine dell’età dell’oro economica americana del dopoguerra, rimanevano ampiamente avanti. Ancor di più nel settore tecnologico, laddove iniziavano a svilupparsi i primi computer, affini a quelli che conosciamo oggi, mentre in URSS la tecnologia era sempre più obsolescente. Il risultato fu che, nonostante la Rivoluzione negli Affari Militari fosse stata per la prima volta concepita da Nikolai Ogarkov, essa vide impegnati gli USA in modo decisivo per lo sviluppo di nuove armi e nuove dottrine, i cui risultati operativi si videro durante la prima e seconda guerra del golfo.
L’URSS era in crisi, una crisi congiunta su ogni livello della contesa della guerra fredda. La situazione sarebbe andata ancora a peggiorare e sempre più velocemente dopo l’intervento in Afghanistan (1979). Al principio si trattò soltanto di cercare di sostenere un regime favorevole al comunismo, ma si vide ben presto che senza un intervento di qualche genere, il paese sarebbe caduto nelle mani degli islamici, già forti per aver preso il potere in Iran (novembre 1979). Brezhnev decise di autorizzare l’intervento armato, giacché si era convinti di poter occupare il paese in poco tempo e mantenerne il controllo senza eccessivi sforzi. Il risultato fu una guerra sanguinosa, sia per via del territorio dell’Afghanistan, sia per la natura stessa del nemico, un nemico determinato, ispirato dalla religione e dall’amore per il combattimento, caso emblematico di come la definizione clausewitziana di guerra non renda sempre giustizia alla complessità delle cose. Sia detto per inciso che l’Afghanistan, insieme a poche altre aree del mondo, tra le quali il Vietnam, è stata una terra infausta per quasi tutti gli eserciti che ci sono passati, eserciti, tra l’altro, tra i migliori delle loro epoche.
Nel 1979 la situazione dell’URSS appare retrospettivamente drammatica: gli USA avevano aperto definitivamente le relazioni diplomatiche con la Cina (1972, 1979), si erano imbarcati in una guerra dura e lunga in Afghanistan, lo stato dell’obsolescenza tecnologica comportava importanti sforzi economici per sopperire ai problemi imposti dal gap tecnico, con la conseguenza di un aumento complessivo delle spese militari. Per queste ragioni, i cui prodromi stavano già nei due decenni precedenti, l’URSS era la superpotenza che più aveva tentato approcci distensivi con la concorrente. Infatti, sin dalla crisi di Corea (cfr. § 2.3), erano gli USA il paese più aggressivo sotto il punto di vista diplomatico. Anche perché gli USA, paese intoccato nella seconda guerra mondiale, disponevano di una stabilità interna e di una coesione, nonché potenza economica, non paragonabile a nessun altro paese del mondo. Ma nel 1979 lo stato di cose non era ancora così chiaramente drammatico, almeno agli occhi esterni.
Gli ultimi anni dell’era Brezhnev videro un accelerazione repentina dei fattori di crisi. Dopo l’intervento armato in Afghanistan, l’URSS si vide costretta a intervenire anche in Polonia: nel 1980 il sindacato Solidarnos impose uno sciopero e Lech Walesa fu eletto come capo. Non si videro mediazioni e fu imposta una repressione dura. Ma ormai il dado era tratto. Troppi i satelliti da controllare con l’armata rossa, troppi i nemici interni e troppo poco il pay off. La sorte dell’URSS incominciava ad essere evidente anche ai membri della vecchia guardia. Brezhnev era ormai un uomo malato, sovrappeso, alcolizzato e dipendente dai sonniferi già da diversi anni: nel 1982 muore.
Il periodo tra Breznhev e Gorbaciov è chiamato dell’interregno e vide avvicendarsi prima Andropov, capo del KGB, e poi Chernenko, che sostenne Mikhail Gorbaciov come successore. Yuri Andropov (1914-1984) e Konstantin Chernenko (1911-1985) erano già anziani e morirono poco dopo il loro stesso insediamento al potere, il che la dice assai lunga sull’ossificazione del sistema di selezione della guida nell’URSS di quel periodo.
Leonid Breznhev lasciò un’eredità pesante. Infatti, non si trattò di un lascito in stile staliniano, ma di un complessivo stato di cose ormai degenerato. Infatti, il 1980 non fu soltanto l’anno di Solidarnos, ma l’anno del sintomo dell’arrivo del problema finale per l’Unione Sovietica: il rispetto dei diritti dei cittadini e il fallimento completo sul piano della qualità della vita, una delle ragioni intrinseche della sfida della guerra fredda. Nonostante la stagnazione, la repressione e l’isolamento diplomatico sempre più marcato, Brezhnev è rimasto il più popolare leader dell’URSS e, in generale, leader politico russo più amato nel XX secolo.
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