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Amleto è una tragedia di William Shakespeare, considerata tra i suoi massimi capolavori insieme a Macbeth, Re Lear, Otello e Enrico IV. E’ indubbiamente un master pièce del grande bardo di Avon ed è anche una delle tragedie sue più cupe, sia per il tema, sia per lo stile e per il personaggio dominante. In quest’opera Shakespeare indaga i risvolti di un uomo di genio (Amleto) che vive ossessionato dalla morte.
La tragedia si svolge alla corte del re di Danimarca, zio di Amleto (era il fratello del padre) e sposo della madre dello stesso. Il re di Danimarca aveva assassinato il padre di Amleto e ad esso si sostituisce. Per tale ragione, la tragedia non è soltanto l’inscenamento di una complessa relazione tra padre defunto e il figlio, ma anche tra il figlio e una madre presto risposatasi: Amleto è ossessionato tanto dalla morte del padre, quanto dal ritorno della madre ad essere donna indipendente, cioè sessualmente attiva (non più madre-donna ma amante-donna) Infatti, la madre di Amleto si risposa molto presto, giusto due mesi dopo la morte del marito e questa è una delle due principali ragioni della disperazione del figlio. Infatti, da un lato Amleto è distrutto dalla morte del padre ma, allo stesso tempo, dall’incapacità di accettare il recupero del lutto della madre, la quale è “colpevole” di aver subito accettato di risposarsi con il fratello del marito.
Amleto viene chiamato da uno dei suoi fidi servitori, Orazio, per vedere il fantasma del padre, il quale gli conferma i suoi sospetti: lo zio aveva ucciso il re di Danimarca per prenderne il suo posto. Il fantasma fa giurare vendetta ad Amleto. Questo fantasma potrebbe essere ben interpretato come la fissazione di un pensiero ad un luogo particolare, investito di grandi sentimenti a tal punto da far apparire reali cose che non sono (per una analisi dei fantasmi, si veda Pili (2015), Zombie e fantasmi: due figure complementari). E’ vero: il fantasma non viene visto solo da Amleto, ma risulta invisibile, ad esempio, alla madre di Amleto. Sicché se ne può concludere che il fantasma appaia a tutti coloro dai quali il ricordo del re è a tal punto vivo da non essere pensabile morto. Questo determina una escalation nell’instabilità di Amleto, il quale dissolve ogni possibile salvezza di questo mondo. Egli guarda la vita con gli occhi della morte e vede d’ovunque inutilità, futilità, scialbezza e pochezza: così è il mondo, guardato da chi sta dall’altra parte o da chi sta da questa ma ha considerato la morte più importante della vita, come è il caso di Amleto. Questo è pure mostrato dal fatto che Amleto rifiuta ogni contatto positivo con la vita, testimoniato dal rigetto dell’amore di Ofelia: Ofelia dapprima si illude di avere l’amore di Amleto, uomo coraggioso e di fine intelletto, ma poi si rende conto che la morte ha preso anzitempo il suo agognato oggetto d’amore. Sicché Ofelia prima impazzisce e poi muore, affogata e pazza. Non è neppure chiaro che non si sia tolta la vita, come ben sottolineano i due becchini in una delle scene più luciferine di una già luciferina tragedia. Alla fine, Amleto uccide anche il padre di Ofelia, Polonio, e questo scatenerà le ire del figlio, Laerte, che lo ucciderà. Ma la fine è un bagno di sangue che non risparmia nessuno, perché nessuno può più salvarsi dalla morte che incombe su tutti. Quella morte che Amleto aveva tratto dall’altra parte della barricata, da quella barricata da cui nessuno ritorna più.
L’Amleto è giustamente considerata un indubbio capolavoro della narrativa di ogni tempo ed è soprattutto la figura di Amleto stesso, uomo di genio ossessionato dalla morte, che domina assoluta l’opera. Mentre in Enrico IV la scena era divisa tra grandi personaggi (Falstaff, Enrico IV, Enrico V etc.), come pure il Macbeth (lady Macbeth e Macbeth stesso), e ancora nell’Otello (Iago, Otello e Desdemona), nell’Amleto è il giovane figlio del re ad essere l’oggetto dell’analisi psicologica del bardo di Avon. Amleto è un absolutus, un unicum perché estraneo nel contesto della corte del re e, più in generale, un fuggiasco dalla vita e già parte del regno dei morti.
Infatti, Amleto è una persona di grande intelligenza. Ma questa intelligenza demistifica senza costruire, distrugge senza edificare. La morte del padre determina in lui l’acuirsi di un riconoscimento di un vuoto (la morte) che si manifesta nella vita, che appare piena solo perché intrinsecamente cattiva e malvagia. Niente c’è nella vita che interessi Amleto, che lo tragga da uno stato di totale impermeabilità dal mondo esterno. E quando il mondo si intromette dentro l’Io di Amleto assume la forma di uno spettro, come un bosco che si mostri come insieme di arbusti spogli allo sguardo di un uomo che non vede la vita ma la morte in esso.
Sicché la tragedia mostra l’inscenarsi della morte all’interno del mondo. Non la morte fisica, ma la dissipazione psicologica di chi è ormai ossessionato da un passato che non esiste più. Dopo un grande lutto e dopo un grande dolore, gli uomini tendono a cercare di ricordarsi i tempi precedenti perché alleviano la mente dall’angoscia del presente, un presente appunto di morte. Ma questo trarsi dal presente conduce alla rivisitazione di un passato che è esso stesso morto. Come quegli anziani ossessionati da un mondo che non c’è più, così Amleto è il figlio che non riesce a conciliare presente e passato e, così, si rifugia in un mondo ibrido in cui il presente assume il colore cinereo della morte, perché intrinsecamente valutato in relazione al mondo che non c’è più. Sicché Amleto è ancorato a tal punto al suo passato, che finisce come morto. Perché il passato è il regno delle ombre, soprattutto il passato fondato sui ricordi passivi, quelli che non sono parte di eventi che continuano nel presente. Il ricordo di un defunto è importante per la nostra identità, ma non per la nostra vita futura: egli non ci aiuterà più, non ci potrà più parlare, più salvare dalla nostra stessa vita. Ma queste considerazioni non nascono subito perché troppo repentina è la morte, troppo veloce il cambiamento. La nostra vita, non quella del morto, ne è uscita distrutta. Una rivisitazione totale della propria identità e, più corrivamente, della propria organizzazione umana e sociale si impone. E così la vita assume una valenza ambigua, un incubo osceno che continua ad assumere continuamente le forme del vuoto o, ancora peggio, della vita sfigurata dall’arrivo della grande falciatrice.
Questo è appunto testimoniato dalla madre di Amleto, la quale ha già superato il passato, anche per via della sua evidente insipienza: chi non ha memoria, chi non ha comprensione delle cose, passa leggero nel bene e nel male, premio e peccato della stoltezza che paga poco nel bene e nel male. Ma Amleto non può perché egli analizza le cose, le discerne e le soppesa. E le ricorda. E questo lo conduce a guardare la madre con pieno disprezzo e odio: lei è viva, lei si è tratta dalla morte, lei è già andata oltre per ritornare nel mondo dei vivi. Uno stato di cose inaccettabile per chi guarda la vita dalla morte. Amleto vede i fantasmi perché egli stesso compartecipa al loro mondo. Amleto potrebbe salvarsi, potrebbe accettare l’amore di Ofelia, potrebbe aspettare a momenti migliori a considerare la cattiveria dello zio, a sua volta ossessionato da Amleto e dal suo delitto. Potrebbe salvarsi Amleto? Probabilmente no. Perché la sua ragione lo ha condotto a rifiutare ogni valore positivo, giacché la positività fa parte della vita, laddove la morte, regno del vuoto, non ha valore intrinseco.
Amleto, allora, diventa il simbolo dell’uomo che già si proietta dall’altra parte della barricata e considera la vita per quello che è: un destino infinitamente ingrato, un destino di morte perché in essa si finisce. Non può riuscire ad osservare che la vita è il regno del destino di vita perché sin tanto che la vita c’è, la morte non c’è. Ma Amleto si guarda in terza persona, come se lui fosse già morto: egli è il primo dei non-morti e agisce come vivo che rifiuta di esistere. E quindi, con sé e il suo male, richiama la morte su tutto quello che lo circonda. Così la tragedia finisce in una girandola di morte e di follia. La follia di Amleto, dunque, è solo superficie e mostra, in controluce, ciò che tutti noi siamo: esseri appesi alla vita, che vale molto meno di quello che ci dobbiamo raccontare. Eppure, anche quando valga poco, la vita è per noi l’absolutum. Bisogna vivere perché vivere è parte del mondo di cui siamo parte. Perché dopo tutto, il lutto è il simbolo stesso dell’intromissione che la morte fa dentro di noi.
Ma quando si capisce che la morte non vale quanto la vita, perché la morte non è niente e che il presente, anche quando afflitto dal dolore, è qualcosa di importante, di essenziale nella nostra realtà, allora capiamo che il passato, anche bello, anche glorioso, ma non meno morto, non è mai più importante di ciò che vive ancora dentro di noi, dentro il nostro presente e dentro il nostro futuro. Solo allora la morte sarà sconfitta dentro di noi, il bosco riprenderà ad apparirci come ricco di foglie verdi e sane, allora la nostra vita riprenderà a scorrere anche quando, qualche volta, ci chiederemmo come sarebbe stata la nostra esistenza se soltanto la morte non si fosse avventurata tanto vicino a noi, da essere entrata, almeno un po’, anche dentro di noi. Ma quando arriviamo a questo, ci renderemo conto che la domanda è mal posta. Perché la nostra vita non sarebbe la nostra, se non ci fosse stato quel passato che ha previsto anche la morte. Come ogni passato. Ma come tale, è ormai finito: un non più, l’unico che a nostra disposizione e, per tanto, punto intermedio tra nascita e fine. E, come tale, un fatto contingente, tra gli altri che ancora vivremo. Solo così Amleto si sarebbe salvato. Ma Amleto aveva varcato la soglia di non ritorno, era stato vinto dalla morte e alla morte sarebbe andato in contro senza paura. Perché nel niente neppure la paura può esistere.
William Shakespeare
Amleto
Mondadori
Pagine: 304.
Euro: 9,50.
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