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La Sardegna ha vissuto nella sua storia diversi periodi di colonizzazioni e diversi colonizzatori. Fenici, romani, bizantini, ecc., sono stati i primi. Ma poi in epoca moderna si susseguirono spagnoli e sabaudi. Il trattato di Londra del 1720 stabilì che la Sardegna passasse sotto l’influenza del governo piemontese, seppur mantenendo le antiche istituzione spagnole, all’ora governato dalla secolare casata dei Savoia. Furono proprio questi ultimi ad avere il predominio politico sulle scelte dell’isola dalla metà del 1720 fino all’unità d’Italia del 1861. Questo secolo e mezzo fu segnato da un lato da “grandi silenzi” e grande indifferenze da parte dell’amministrazione coloniale, dall’altro canto il potere sabaudo cercò in un certo periodo, specie nel campo agrario, di rifondare un sistema: l’evento più significato in questo senso lo si visse nel 1823 con quello che venne chiamato ‘editto delle chiudende’, il quale andava innestandosi direttamente nel sistema tradizionale degli ademprivi (per ademprivio si intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.), rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali.
“Il Re Carlo Emanuele, Avolo mio d’immortal memoria, fra le molte sue cure pel rifiorimento della Sardegna, manifestò il pensiero di favorire le chiusure dei terreni; principalissimo mezzo d’assicurare, ed estendere la proprietà, e così promuovere l’agricoltura. Convinti Noi di questa verità, già soggiornanti nell’Isola, Ci siamo applicati ad incoraggiare sì gran miglioramento, e l’anno scorso abbiamo poi creduto bene d’annunziare la legge, che si stava d’ordine nostro preparando. Ora col parere del Nostro Consiglio, di certa Nostra scienza, ed autorità Sovrana, ordiniamo, e stabiliamo in forza di legge quanto segue.”[1]
Con l’editto delle chiudende del 1823, emanato un secolo dopo l’inizio della dominazione piemontese, nasce di fatto il concetto di proprietà privata in Sardegna, concetto che fino all’epoca mai aveva dato grandi risultati, e viene cancellato il regime della proprietà collettiva dei terreni. Un atto che contribuì al dilagare della ribellione e del banditismo presso una popolazione che faceva dell’agricoltura comune e della pastorizia su terreni comuni, la sua fonte di vita. Scrisse Jean Jacques Rousseau: “Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile… Quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”[2]
Con l’editto delle chiudende si consentì la creazione della proprietà privata e venne del tutto cancellato il regime della proprietà collettiva dei terreni, che era stata una delle principali caratteristiche della cultura e dell’economia sarda fin dal tempo dei nuragici per poi essere sempre successivamente confermato nella legislazione dell’isola.
Art.1 “Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe, o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o d’abbeveratoio.”[3]
Questa imposizione dall’esterno di valori culturali portati dai piemontesi, considerati invasori, con le evidenti conseguenze anche economiche per una popolazione che faceva dell’agricoltura comune e della pastorizia su terreni condivisi la sua fonte di vita, contribuì in modo determinante a un ulteriore aggravarsi del fenomeno della ribellione e di conseguenza del cosiddetto banditismo sardo.
Il decreto si inseriva all’interno di un progetto politico atto a scindere il cordone secolare che, alle soglie dell’era industriale, ancorava la Sardegna al Medioevo e porre le basi per la creazione di una classe di piccoli e medi proprietari terrieri, condizione indispensabile per dare impulso a un’agricoltura moderna capace di innescare, a sua volta, uno sviluppo commerciale e industriale nell’isola.
Da sottolineare inoltre che tale fatto alimentò dissidi tra i pastori e i contadini. I privati venivano infatti autorizzati a recingere i terreni e diventarne proprietari assoluti, impedendo nel contempo l’accesso alle greggi che, in tal modo, venivano private di non pochi pascoli. In realtà l’editto, se per un verso danneggiava i pastori, per altro verso non favoriva certo quei contadini che erano solo prestatori d’opera. Lo stesso documento, infatti, autorizzava i comuni a vendere o cedere gratuitamente i propri terreni, per cui a trarne vantaggio, grazie anche a non pochi abusi, furono solo coloro che già erano proprietari terrieri e, quindi, avevano i mezzi per acquistarne altri o le aderenze necessarie per ottenerne gratis.
Il secondo periodo della colonizzazione sabauda si colloca nel periodo che va dal 1835 fino alla fine del secolo: questi decenni si caratterizzarono per gli sviluppi legislativi di carattere speciale. Nel mondo agricolo si svilupparono sempre più i conflitti agropastorali: gli agricoltori vedevano gli ex vidazzoni[4] sempre più diminuendo a favore degli affari politici piemontesi. Con il termine vidazzone o biddatzone, si denominava quella parte delle terre dedicata alla produzione agricole e lasciata a riposo per un anno, aperta dunque al pascolo del bestiame domestico[5].
In questi anni di profonde lotte agropastorali venne creato il diritto di ademprivio, un concetto legato fortemente a questo secolo di storia sarda. Gli ademprivi erano quegli spazi ad uso comune per i pascoli e per il legnatico[6]. Scrive Leopoldo Ortu: “particolarmente interessante e discusso è il passaggio dal diritto d’uso collettivo delle terre alla proprietà «perfetta», il quale segna una trasformazione profonda del tipo di produzione ed una tappa fondamentale nel processo di integrazione cui l’Isola si trovò ad essere inserita all’interno dello Stato sabaudo prima e della comunità nazionale italiana poi. L’esistenza di forme collettive di utilizzo della terra fu uno dei principali problemi che prima il governo del Regno di Sardegna, poi il governo italiano si trovarono a fronteggiare subito all’indomani dell’Unità, quando una delle priorità che i governi della Destra storica si proposero di perseguire fu individuata nella realizzazione completa della proprietà privata, da raggiungere attraverso l’affrancamento di terre e quotizzazioni del demanio e nonostante tale impegno avesse, come esito più immediato e subito evidente, l’accrescimento del latifondo.’[7]
L’editto delle chiudende fu idealmente seguito nel 1865 da una legge con la quale si aboliva l’istituto degli ademprivi e si imponeva una tassazione particolarmente onerosa sulle abitazioni; la tassazione aveva sì dei correttivi e prevedeva delle agevolazioni, ma queste erano in massima parte inapplicabili nella strutturazione urbanistica sarda, costituita di piccoli villaggi, perché prevista per quelle abitazioni completamente isolate.
L’abolizione degli ademprivi comportò non pochi problemi nell’isola nel 1865. Questa fu una delle più grosse questioni agitate nel periodo, ovvero la questione di trovare la destinazione e le modalità d’uso a quei terreni (oltre mezzo milione di ettari) sui quali le varie popolazioni rurali esercitavano dei diritti, spesso ereditati da capitoli di grazia spagnoli. Avevano il diritto di seminare, di far pascolare gli armenti e quello di impiantare boschi per legname. L’uomo che si prodigò fortemente per cercare una soluzione che potesse accontentare tutti fu certamente Carlo Cattaneo, patriota italiano e politico dotato di un notevole senso giustizia: egli fu certamente uno dei primi esponenti del pensiero federalista italiano, pensiero che però non ebbe un gran seguito, al meno in quegli anni. Il problema delle popolazioni sarde fu che lo stato si sarebbe accaparrato quei terreni che davano proprio la sussistenza necessaria alla loro esistenza economica, per questo Cattaneo sosteneva che coi terreni ademprivili, che il fisco intendeva invece vendere per ricavarne profitti, potesse essere garantito un prestito, il ricavato del quale avrebbe dovuto consentire di avere un fondo da destinare alle infrastrutture e alle necessità sarde: un’idea, quella di Cattaneo, innovativa e modernità, ma che tuttavia non venne accettata dal parlamento e soprattutto dallo schieramento della Destra storica, la quale in quegli anni trovava un fervido sostenitore in Gustavo Benso di Cavour, il fratello del più celebre Camillo.
Gustavo Benso di Cavour, il quale sosteneva che i beni ademprivili non avessero mai avuto padrone, così recitò in un suo discorso in parlamento: “come pure in America, ove gran parte dei beni non sono occupati, il Governo li dice suoi, perché nei codici di tutte le nazioni incivilite i beni che non hanno proprietario si considerano del demanio.”[8]
Gustavo di Cavour rincarò la dose difendendo l’idea che quelle terre che “appartenevano” al settore primario della Sardegna, avevano un valore minore di quanto si credesse. Gustavo era un esponente della Destra Storica e la legge che prevedeva l’esproprio degli ademprivi venne approvata, autorizzando lo stato nel 1864 a espropriare 200.000 ettari di terra a favore di se stesso. Una triste pagina della storia sarda e italiana questa, che portò allo scoppio dei moti de su connottu[9] nel 1868 nella cittadina di Nuoro, composta per lo più da uomini dediti alla pastorizia, alla lavorazione casearia e alla produzione del prezioso sughero. Attraverso questi motti i manifestanti rivendicarono il ritorno all’antico uso della terra, sicuramente più funzionale al loro sistema di vita e di esistenza che prevedeva un certo sviluppo del territorio. Il numero dei manifestanti all’inizio della protesta del 26 aprile 1868 era di circa una cinquantina, ma aumentò drasticamente e presto si levarono grida ostili contro quel consiglio comunale che andava espropriando sempre più salti[10], per rivendere le stesse terre allo stato.
Ci furono scontri sanguinosi e alla fine delle proteste, in cui i manifestanti riuscirono a occupare persino il municipio, il consiglio comunale fu costretto allo scioglimento. L’episodio ripreso dai principali giornali dell’epoca quali “Il corriere di Sardegna” e “La cronaca” fu divulgato in tutta la Sardegna e parecchie manifestazioni scoppiarono in tutta l’isola, specie nei centri urbani maggiori. Le testate giornalistiche attribuivano le colpe dei moti alle amministrazioni locali che da tempo sapevano del malcontento popolare senza però cercarne una soluzione valida: anzi spesso misero ancor più il bastone nelle ruote a quelle classi disagiate, che in quel periodo in Sardegna erano la stragrande maggioranza.
Tutti questi presupposti precedentemente elaborati ci aiutano a comprendere meglio quale fosse la situazione in Sardegna, non solo dal punto di vista agricolo, ma anche dal punto di vista sociale. Le terre erano perlopiù incolte e malariche. Proprio la malaria fu uno dei mali endemici della Sardegna, agevolata nel suo diffondersi dalla presenza di vaste zone paludose, sparse un po’ dappertutto all’interno dell’isola. La febbre che generava la malaria portò conseguentemente a un blocco dello stesso miglioramento dell’isola, che vigeva in un grave stato di arretratezza. Anche per questo motivo la Sardegna fu terra di ripetuti tentativi di colonizzazione e di risanamento del territorio, condizione quest’ultima indispensabile per la buona riuscita dell’opera, per questioni sia strategiche che commerciali, e in questi ultimi decenni anche militari.
Un’isola così grande e così scarsamente popolata, a metà del Settecento, si prospettava come ‘meta ideale’ da colonizzare: ideale per accogliere la popolazione eccedente delle altri regioni del continente. Già l’élite politica sabauda, che “ebbe buona conoscenza delle zone agrarie più evolute d’Europa”,[11] progettò uno spontaneo risanamento delle zone deserte e infette e un controllo contro la malaria, seguito, in tutto il corso del Settecento, da numerosi tentativi di colonizzazione in zone prima di allora del tutto disabitate: si pensa al Sarcidano, all’altopiano di Montresta, alla Nurra, all’Isola dell’Asinara,[12] all’Isola di San Pietro, i casi più eclatanti. Tuttavia “per strappare al disordine e alla malaria parti del territorio sfuggite loro di mano nel passato per la forte insalubrità, non potevano raggiungere i risultati sperati, isolati com’erano”, i sardi, “e al di fuori di una grande, complessiva opera di bonifica e di sistemazione idraulica, di riassetto del territorio, […] di nuovi rapporti dei coltivatori con la terra.[13]
Come vedremo arrivando alle soglie del Novecento, ci furono diversi progetti che vennero portati avanti, come il caso delle colonie penali agricole, che mirarono a un ammodernamento e a un risanamento, oltreché a una bonifica mirata, dell’isola sarda. In particolar modo la regolazione delle acque che avevano le loro sorgenti nei monti e che a valle producevano straripamenti e alluvioni, specie in autunno e in inverno, per poi lasciare nei residui acquitrini nidi malarici. La bonifica delle tante paludi presenti nell’isola e la creazione di varie dighe che avrebbero portato l’acqua nelle pianure della Sardegna aveva il fine di ridimensionare la potenza della malaria nell’intero territorio sardo.[14] Ma per il definitivo riassestamento idrico si dovrà attendere fino alla fine della seconda guerra mondiale.
In questo contesto si fonda la nascita e si può comprendere al meglio l’importanza delle colonie penali agricole che si svilupparono a partire dall’Ottocento nel territorio europeo, e con particolare rilevanza, nel territorio sardo e nell’arcipelago delle principali isole toscane in Italia.
[1] Incipit del Regio Editto Sopra le chiudende.
[2] Rousseau J.J., Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, 1755.
[3] Articolo 1 del Regio Editto Sopra le chiudende.
[4] Costa G., Biddatzoni e Paberile, Bidatsoni e Poboribi, Vidazzone e Poborile, Firenze University Press, 2005.
[5] Marroccu L., La comunità agraria e i suoi spazi, in Angioni G. e Sanna A., Sardegna, Laterza, Bari, 1988, pag. 16
[6] Quell’antico diritto di raccogliere legna per l’inverno e per le botteghe artigiane che necessitavano del fuoco all’interno appunto dei terreni comuni.
[7] Ortu L., La questione sarda tra Ottocento e Novecento, CUEC, Cagliari, 2005.
[8] Ibidem.
[9] Il termine connottu in italiano va tradotto con la parola “conosciuto”
[10] I salti erano quelle terre dedicate al pascolo delle greggi.
[11] Medda A., Tesi: insediamento e vita dei mezzadri in una città di nuova fondazione, 2009
[12] Si veda capitolo 3, par. 3.3.
[13] Tognotti E., Per una storia della malaria in Italia. Il caso della Sardegna, Franco Angeli, Milano, 2008, pag.135.
[14] Nel 1908 Angelo Omodeo, l’ingegnere che progetto l’omonimo lago artificiale (terzo per grandezza ancora oggi nel vecchio continente europeo), disse che erano necessari per bonificare e rendere vivibile la Sardegna “laghi artificiali capaci di disciplinare io modulo dei corsi d’acqua e di utilizzare il deflusso idrico costante così ottenuto a scopi di valorizzazione elettro-irrigua e industriale di numerosi comprensori.”
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