I modi di approccio alla realtà sono diversi e occorre prender atto dell’esistenza di concezioni, differenti da quelle di matrice occidentale, le quali, spesso, sono caratterizzate dalla frammentazione della realtà in componenti distinte. Oriente e Occidente dovrebbero considerarsi come complementari e familiarizzare con la filosofia zen può essere utile per sedimentare tale convinzione.
“Zen” è la traslitterazione giapponese del termine cinese “cham”, deriva dal sanscrito “dhyåna”, “meditazione”. Si tratta di un approccio orientato alla valorizzazione della vita attimo per attimo, approccio orientato al superamento dei condizionamenti e gli attaccamenti. Appare fuorviante etichettare lo zen come filosofia o religione. Può considerarsi una metodologia per orientare la propria mente, alla quale può aderirsi in qualunque tempo e in qualunque luogo, in quanto non esiste la possibilità di “confinare” siffatta concezione entro un criterio storicamente e geograficamente relativo.
Il passaggio dello zen tra l’India e la Cina avviene con il contributo del monaco indiano Bodhidharma, che sarebbe giunto nel regno cinese di Toba-Wei circa nella prima metà del VI secolo d.C., affermando la priorità di una concentrazione sul “qui e ora”. Sul piano filosofico, lo zen deriva da un intreccio fra meditazione indiana e tecniche taoiste. Lo zen va studiato anche all’interno della storia cinese e giapponese, in particolare nella suo passaggio in Giappone e nei suoi intrecci con la precedente cultura nipponica.
Si ritiene che occorra evitare la conclusione di un appiattimento dello zen sul buddismo, nel senso che nell’analisi delle complesse questioni, in rapporto all’essenza di zen e buddismo, bisogna prescindere da una mentalità occidentale (ammesso che una mentalità occidentale e orientale possano essere enucleate) e, quindi, superare l’idea della necessità di distinzione fra categorie ben separate. Attraverso lo zen si intendono eliminare le categorie e le contrapposizioni. Si tenta di prescindere da una rigida categorizzazione di tendenze umane e culturali, eventualmente attuabile attraverso una elencazione di strutture e di forme.
Vi è una contestazione nei confronti di un “vuoto seguire le regole” anche in materia religiosa, in rapporto a una rigida adesione ai riti liturgici. Si nega la possibilità che l’esistenza possa essere frammentata in vari fatti episodici e sequenziali e si afferma la priorità dell’esperienza concreta, rispetto alla sussunzione di tale esperienza all’interno di un’impostazione logica e razionale. Lo stile di comunicazione dei contenuti da parte dei monaci zen non intende veicolare un messaggio intellettualistico nel senso occidentale od orientale, ma il tentativo di far emergere potenzialità che un soggetto ha in sé e che appaiono assopite, in quanto non sufficientemente valorizzate e come nascoste. In certo senso, la persona non è consapevole dell’esistenza di queste attitudini, perché tende a identificarsi in ruoli rigidi, senza tener conto della flessibilità dei tratti identificativi. L’adesione rigida a un personaggio (ad esempio, “l’uomo che disdegna la dolcezza, perché non virile”) può portare alla convinzione non veridica che questi lati della personalità non esistano. La verbalizzazione e l’analisi della realtà concreta, secondo parametri conformi alla sola razionalità, possono contribuire a creare una rappresentazione fittizia della realtà.
Il linguaggio apparentemente criptico dello zen diventa maggiormente comprensibile ove si intenda che il medesimo è orientato a far comprendere la realtà empirica e ad anteporre la medesima a uno sterile intellettualismo. Viene difeso il tentativo di affrancarsi da finalità esterne indotte da una tendenza ad aderire alle “mode” del momento, che porta a percepire come necessari bisogni indotti, in modo che si possa vivere nel momento presente, senza proiettarsi nel passato o in un futuro che non esiste.
L’azione “minima”, nella sua semplicità, diviene il centro su cui bisogna collocarsi e l’attività di lavarsi, camminare debbono esser svolte vivendo intensamente l’istante. Quando in tal contesto di pensiero ci si esprime in termini di inazione o di assenza di attività, l’intento è di riferirsi a un agire senza tentare di controllare i processi naturali, armonizzandosi con essi.
Pertanto, si assiste a una radicale ridiscussione e confutazione dei concetti di superamento e di miglioramento e prevale l’idea del lasciar fluire ciò che ci circonda, rigettando distinzioni artificiose, reputate non legittime ed esito di un errore epistemologico, all’interno di una realtà essenzialmente unitaria. Lo zen mira al conseguimento del “Satori”, condizione in cui ci si continua a muovere all’interno dell’esperienza umana, superando un rigido intellettualismo.
Suzuki, uno dei massimi studiosi dello zen, scrive a proposito delle caratteristiche del Satori. in: “Zen Buddhism, Selected Writings of DT Suzuki”, (New York: Anchor Books, 1956), pp. 103-108:
- <<Irrazionalità. Con ciò, voglio dire che il Satori non è una conclusione che si può raggiungere con il ragionamento, esso sfida ogni determinazione intellettuale. Coloro che lo hanno sperimentato sono sempre incapaci di spiegarlo in modo coerente e logico>>.
Si creano i presupposti per far sembrare impalpabili le nozioni di irrazionalità e razionalità ed emerge una tendenza alla “a-razionalità”, nel senso della acquisizione di una mentalità non rigidamente sequenziale e categorizzante, che accetti l’imprevedibile (razionalmente).
- <<Insight Intuitivo. Che ci sia la qualità noetica nelle esperienze mistiche è stato sottolineato da (William) James… Un altro nome di Satori è Kensho (Chien-Hsing, in Cinese), che significa “vedere l’essenza o natura”, e che apparentemente comprova che nel Satori c’è il “vedere” o “percepire” (…) Senza questa qualità noetica, il Satori perderebbe tutta la sua qualità pungente, perché essa invero è la ragione del Satori>>. L’intuizione consente di andare oltre una visione meramente razionale.
- <<Autorevolezza. Con ciò, voglio dire che la conoscenza realizzata tramite il Satori è definitiva, che nessuna quantità di argomentazione logica può confutarla. Essendo diretta e personale, è sufficiente a se stessa. Tutto ciò che la logica può fare è di spiegarla, di interpretarla in connessione ad altri tipi di conoscenza di cui le nostre menti sono piene. Il Satori è dunque una forma di percezione, una percezione interiore, che ha luogo nella parte più interna della coscienza>>.
- <<Affermazione. Ciò che è autorevole e definitivo non può mai essere negativo. Pur se l’esperienza del Satori è a volte espressa in termini negativi, essa è essenzialmente un’attitudine affermativa nei riguardi di tutte le cose che esistono; essa le accetta così come vengono, a prescindere dai loro valori morali>>.
- <<Senso dell’Oltre. (…) Nel Satori c’è sempre quello che potremmo chiamare il “Sensodell’Oltre”, in quanto l’esperienza è davvero la mia, ma a me sembra che sia radicata altrove. Il guscio individuale entro cui la mia personalità è così solidamente incastrata, al momento del Satori, esplode. Non è, necessariamente, che io sia unificato con un essere superiore a me o assorbito in esso, ma è che la mia individualità, che io trovo rigidamente tenuta insieme e definitivamente mantenuta separata dalle altre esistenze individuali, in qualche modo si districa dalla sua presa ferrea e si scioglie in qualcosa di indescrivibile, qualcosa che è di un ordine totalmente diverso da quello a cui io ero abituato. La sensazione che ne consegue è quella di un completo abbandono o una totale quiete – la sensazione che uno finalmente è arrivato a destinazione. E per quanto riguarda la parte psicologica del Satori, tutto quello che possiamo dire a questo proposito è un senso di ‘oltre’; il chiamare questo “l’Oltre”, l’Assoluto, Dio, o Persona, è andare oltre l’esperienza stessa, ed immergersi in una “teologia”, o metafisica>>
- <<Tono Impersonale. Forse l’aspetto più notevole dell’esperienza Zen è che non ha nessuna nota personale in essa, così come sono osservabili nelle esperienze mistiche Cristiane>>
Ciò può portare a ritenere che nell’esperienza zen ci si spersonalizzi e si spezzino le identificazioni rigide
- <<Sensazione di esaltazione. Che questa sensazione accompagni inevitabilmente il Satori è dovuto al fatto che esso è la disgregazione della restrizione imposta su uno, come essere individuale, e questa disgregazione non è un mero incidente negativo, ma alquanto positivo e carico di significato, perché significa una infinita espansione della persona individuale>>.
8.<<Momentarietà. Il Satori accade a un individuo improvvisamente, ed è un’esperienza momentanea. In effetti, se non è improvviso e momentaneo, non è Satori>>.
Si può affermare che il Satori consenta un certo grado di emancipazione dalla forma ordinaria dell’esperienza. Nel dodicesimo secolo si sviluppa un movimento “anti-Satori”, in cui il medesimo è considerato come una sorta di sovrastruttura. Il sistema dei koan mira a consolidare una visione basata sulla esigenza di raggiungere il Satori.
Uno dei principali metodi per ottenere o cercare di ottenere quest’ultimo risultato è proprio la concentrazione su di un koan, dato dal maestro al discepolo (vedi appresso nel testo). Già prima dell’introduzione dello strumento del koan, vengono adoperati altri mezzi, per ottenere il conseguimento del Satori, per conseguire un vuoto mentale e interiore, che faccia tabula rasa delle preesistenti convinzioni del discepolo, nel quadro di una destrutturazione del dualismo “essere/non essere”, con la sperimentazione di una verità collegata ai fenomeni concreti, ma più ricca di ciò che emerge ictu oculi dagli stessi.
Il “vuoto” (che comprende anche il pieno e si interseca con esso) è qualifica che mira a indicare una progressiva acquisizione della comprensione del senso dell’esistenza, attraverso un processo, in cui non intervengono la logica e l’analisi astratta. Proprio la cessazione di ogni ragionamento implica l’eliminazione di contrasto fra pensante e pensato e la compenetrazione reciproca dei medesimi, dopo una gestazione, in cui la matrice razionale appare predominante (quanto adesso esposto si correla alla distinzione-assimilazione dei concetti di yin e yang, propri della filosofia cinese di matrice taoista, in cui le due componenti apparentemente antitetiche confluiscono all’interno di un’unità).
Il passo successivo nella comprensione dello zen avviene quando si accetta di coinvolgere sé stessi in un percorso di discontinuità logica, da esplorare personalmente, come se si trovasse un’apertura all’interno di un vicolo cieco, che sussiste fino a quando ci si appiattisca sterilmente sull’intellettualismo.
Nella letteratura zen talora il discepolo chiede al Maestro le modalità per ottenere l’illuminazione e il maestro lo percuote. E’ una sorta di linguaggio dei segni, con cui si invita il discepolo a destrutturarsi e decondizionarsi da schemi esclusivamente razionali. Il koan (letteralmente, “caso giudiziario esemplare”) è questione apparentemente assurda, su cui il discepolo deve meditare, cercando di comprendere l’essenza del quesito. Occorre dimostrare di aver percepito il koan, tramite l’intuito. E’ come stimolare la crescita di una siepe con la potatura.
Alcuni esempi famosi di koan sono: <<Conosciamo il rumore provocato dal battito di due mani. Ma qual è il rumore di un amano sola?>> Oppure: <<Come si può bere tutta l’acqua di un lago?>>.
La risposta meditata dal discepolo viene poi riferita al maestro, il quale giudica se essa dimostra un grado di evoluzione. Esistono koan di varia difficoltà, a seconda del livello di capacità e di progressiva “illuminazione” dei discepoli. Tale sistema di modificazione dell’approccio alla realtà può ritenersi un contributo all’evoluzione della coscienza religiosa, ove si concluda nel senso che ciascun koan rappresenta, su una scala di ridotte dimensioni, una metafora del vero significato dell’universo, il quale anch’esso può considerarsi un koan di dimensioni, appunto, “universali”.
Il sistema didattico e pedagogico basato sui koan viene introdotto anche per evitare una tendenza ad appiattirsi sul concettualismo, con un conseguente distacco dall’esperienza di vita. Il koan è strumento di divulgazione dello zen e strumento per non intaccare la genuina essenza del medesimo. Infatti, nel tempo emergono delle tendenze ad un assoluto quietismo, consistente nell’abbandonarsi a una concentrazione essenzialmente passiva, e all’intellettualismo, peraltro combattute con vigore dai sostenitori del sistema dei koan. Tale sistema attribuisce priorità all’esperienza concreta.
Un tentativo di risposta meramente intellettualistica nei confronti del koan è fuorviante, in quanto esiste un ambito in cui l’intelletto non può fornire soluzioni adeguate: infatti, l’intelletto distingue fra oggetto e soggetto e l’uso dei koan mira a sovrapporre una visione unitaria, rispetto a tale distinzione. Pertanto, occorre trascendere la struttura verbale del koan, affrancandosi dall’idea di pervenire a una soluzione del quesito su cui, in apparenza, si basa il koan, mediante un’analisi anche approfondita della sua struttura linguistica. Ciò non deve far pensare che il koan coincida con la meditazione, proprio per la tendenza al superamento del quietismo sopra esposta. Ove lo studente, in senso contrario rispetto a quanto fino adesso esposto, tenti un approccio meramente intellettualistico, per la soluzione del koan, il risultato sarà sterile e si perverrà a una situazione di stallo. Solo il ricongiungimento con l’esperienza e con l’intuizione può produrre un uso virtuoso del koan. Il travaglio che lo studente zen veramente appassionato attraversa costituisce un antecedente necessario per approfondire la conoscenza.
Spesso, la struttura del koan fa riferimento a elementi di vita semplice e concreta (“strofinaccio”, “cipresso”). E’ sottinteso un approccio orientato all’emersione di uno sguardo puntato sulla realtà di vita come può desumersi anche dal consueto insegnamento, secondo cui l’esercizio del koan va continuato anche quando si svolge un’attività concreta. La concentrazione sul koan viene riconosciuta come un passo necessario, verso la realizzazione del Satori.
La tecnica in parola è, in particolare, utilizzata dalla Scuola Zen Rinzai. I discepoli sono invitati a cercare di fornire una soluzione al koan, eventualmente attraverso più sessioni, con l’intento precipuo di far comprendere come un ragionamento algoritmico, basato su un rigido meccanismo sequenziale di premesse, passi e conclusioni non sempre è in grado di far comprendere le esatte sfaccettature di una determinata questione o di condurre alla soluzione di un problema. A volte, ove si dia spazio all’intuito o all’istinto, possono emergere nuovi elementi che favoriscono la risoluzione di un problema. E’ come centrare un bersaglio: si tenta si tenta di penetrare con la ragione la soluzione e successivamente ci si rende conto che il koan (il bersaglio) si identifica con chi cerca di centrarlo. Si mira alla dissoluzione del processo logico, per arrivare a una visione “trasversale” delle questioni, in modo che si possa essere presenti alle proprie azioni nel momento in cui le stesse si compiono, in modo che le cose possano essere apprese dall’interno, attraverso un processo di mutua identificazionefra pensante e pensato.
Appare fuorviante ritenere che i koan siano degli indovinelli da risolvere. I koan non richiedono di rinnegare l’intelletto, ma tentano di proporre un superamento delle rappresentazioni mentali con cui “mappiamo” ciò che è intorno a noi. Si critica ogni tentativo di una rigida definizione del mondo. Ciò che emerge da una analisi rigidamente “cerebrale” può condurre l’osservante a ingannarsi. I koan dunque hanno un’essenza metaforica. Può ritenersi che una delle funzioni più profonde di tali storie è consiste nel presentare e rappresentare la configurazione della psiche umana, in cui coesiste una componente analitica e uno propensa alla creatività e alla riemersione delle componenti giocose del pensiero.
Si tenta di intervenire, attraverso i koan, le domande paradossali, in modo tale che si possa pervenire a una verità non razionalizzata e si possa ridestare la possibilità creativa del soggetto cui il koan viene sottoposto. Ne viene fuori un impiego spurio del linguaggio.
Il significato del koan come strumento meditativo, consiste nel pensare al senso della vita solo in termini logici è inutile e dannoso. Gli stessi concetti di razionalità e irrazionalità appaiono volatili e non definibili univocamente. Pertanto, bisogna aprirsi a un universo mentale differente, anche per osservare la propria realtà situazionale con un maggiore distacco, in modo da rendere multilaterale una visione appiattita solo su alcuni aspetti della realtà.
L’idea sottesa a questa concezione è che più cerchiamo mediante la volontà cosciente di compiere qualcosa, meno vi riusciamo, così che il bersaglio si centra solo quando abbandoniamo una visione rigidamente concentrata sul medesimo e in un percorso di crescita virtuoso ci rendiamo conto che bersaglio e soggetto che lo vuole centrare coincidono. Nell’opera “Lo zen e il tiro con l’arco” si trova un passo particolarmente esemplificativo di questa concezione: <<Io temo di non capire più nulla, anche la cosa più semplice mi si confonde. Sono io che tendo l’arco, o è l’arco che mi trae alla massima tensione? Sono io che colpisco il bersaglio o è il bersaglio che colpisce me? Quel “si” è spirituale agli occhi del corpo e corporeo agli occhi dello spirito – è ambedue le cose o nessuna delle due? Tutto questo, arco freccia, bersaglio e Io si intrecciano tra loro in modo che non so più separarli. E persino il bisogno di separarli è scomparso.Perché non appena tendo l’arco e tiro, tutto diventa così chiaro e naturale e così ridicolmente semplice..” – “Proprio ora” mi interruppe il Maestro “la corda dell’arco l’ha trapassata da parte a parte>>. Si riscontra un contrasto con i paradossi del movimento e di Zenone, anche se, ancora più paradossalmente, si arriva a conclusioni simili.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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SUZUKI D. T., Saggi sul buddhismo Zen. Vol. 1: Una spiegazione chiara e precisa dello zen, Mediterranee, Roma, 1989.
SUZUKI D. T, Saggi sul buddhismo zen. Vol. 2: La pratica del koan, Mediterranee, Roma, 1989.
SUZUKI D T, Saggi sul buddhismo zen. Vol. 3: La trasformazione del buddhismo e l’Influenza dello zen sulla cultura giapponese, Mediterranee, Roma, 1989.
WATTS A.W. Lo zen, un modo di vita, lavoro e arte in Estremo Oriente, Bompiani, Milano, 1958.
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WATTS A.W., The problems of faith and works in buddhism, Review of religion”, vol IV , New York, Maggio 1941.
Forse è più utile non considerare i koan delle metafore, o dichiarazioni dotate di un’essenza metaforica, ma solo verbalizzazioni di precise esperienze del mondo e delle cose. Forse si tratta di descrizioni di come funziona realmente il nostro mondo, lo stesso mondo in cui viviamo tutti, anche se la maggior parte di noi non se ne accorge. Quando un maestro dice che cammina a piedi ed è a dorso di un bue, non sarà forse perché sta andando a piedi ed è a dorso di un bue? Se dice che a mani vuote e tiene una vanga nelle mani, non è perché è a mani vuote e tiene una vanga nelle mani? Se dice che attraversa un ponte e l’acqua non scorre ma scorre il ponte, non può darsi che attraversi un ponte, che l’acqua non scorra ma sia il ponte a scorrere? Se dice che beve in un sorso tutta l’acqua del Fiume Giallo, non sta forse descrivendo ciò che esattamente fa? Se così fosse, allora non saremmo di fronte a delle metafore, ma solo alla realtà delle cose.