Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) è stato uno psicologo sperimentale, una delle figure di maggiore spicco e risonanza internazionale di quella psicologia comportamentista i cui programmi di ricerca ci sembrano oggi tanto lontani. Il comportamentismo è una prospettiva di studio della psicologia dell’uomo e del comportamento animale consistente in una serie di teorie dell’apprendimento accomunate dal principio per cui l’unico oggetto di studio scientifico deve essere il comportamento osservabile dell’organismo. Per tanto, l’attenzione del ricercatore è spostata dagli stati mentali o affettivi ai comportamenti osservabili. Il comportamentismo vuole essere una scienza del comportamento, non della mente, pur mantenendo la pretesa di spiegare in maniera esauriente la psicologia umana. Il rigore scientifico vieterebbe di far riferimento al vocabolario mentalista (intenzioni, propositi, motivazioni, coscienza, e così via) per spiegare la vita psicologica dell’uomo, la quale può essere compresa semplicemente a partire dagli stimoli ambientali e dalle conseguenti risposte comportamentali dell’organismo.
Sulla coppia di termini “stimolo-risposta” si incentra il punto fondamentale della proposta teorica comportamentista. Spiegare un qualsiasi fenomeno psicologico significa tradurre il fenomeno nella sua dimensione comportamentale, per poi individuare le contingenze ambientali responsabili della sua manifestazione. Per contingenze ambientali si intende quell’insieme di stimoli che determinano un comportamento. Ad un livello di spiegazione elementare, possiamo individuare una risposta comportamentale nel semplice riflesso alla presenza di uno stimolo. I riflessi fisiologici ne sono un esempio chiaro. Ad un livello più complesso, possiamo spiegare il comportamento come una risposta a determinate contingenze ambientali di rinforzo. Ciò che viene rinforzato è chiaramente il comportamento.
Senza voler esaurire l’argomento, possiamo accennare al fatto che, fondamentalmente, sono distinguibili due tipi di rinforzo, ovvero di cause che aumentano la probabilità che un certo comportamento si ripeta nel futuro (in questo senso il rinforzo è l’opposto logico e pratico della punizione, che abbassa le probabilità di occorrenza di un certo comportamento). Si parla di rinforzo positivo quando aumento la probabilità di determinare l’organismo a comportarsi in un certo modo associando alla sua azione una conseguenza positiva o gratificante. Si parla di rinforzo negativo, invece, quando aumento la probabilità che il comportamento venga ripetuto, togliendo dalla situazione in cui il comportamento occorre uno stimolo avversivo. Con il rinforzo positivo aumento direttamente l’associazione comportamento-piacere, mentre con il rinforzo negativo l’aumento indirettamente, diminuendo l’associazione comportamento-dolore.
Proprio queste distinzioni sono state introdotte da Skinner nello studio sperimentale del comportamento animale. La novità rappresentata da quest’introduzione, rispetto alle più datate ricerche sperimentali di psicologi come Watson o di fisiologi come Pavlov, è che il comportamento non veniva teorizzato dipendere solamente dagli stimoli che lo precedono, ma anche e più fondamentalmente dalle conseguenze che provoca. È chiaro come questa novità teorica e sperimentale abbia aperto vaste possibilità alla pratica di condizionamento del comportamento animale e umano. Se oggi c’è un’eredità del comportamentismo, escludendo l’eredità in campo scientifico (che rimane rilevante, nonostante tutto), è proprio questa. Sia applicato ai contesti lavorativi sia applicato al contesto della terapia psicologica, l’approccio comportamentista e condizionante che vede nella costruzione di ambienti rinforzanti una forte leva di cambiamento o miglioramento della vita delle persone, trova oggi il suo spazio.
Il libro sicuramente più conosciuto e dibattuto di Skinner è Beyond freedom and dignity, pubblicato nel 1971, dunque a completamento di una vita spesa per lo studio delle leggi del comportamento, e a pochi anni dalla pensione da professore di psicologia ad Harvard. Nell’introduzione che segue, resa necessaria dall’impressione che l’opera di Skinner sia quanto più citata quanto più fraintesa ma soprattutto ignorata, cercherò di essere sintetico nell’esposizione di alcuni elementi critici che mi è parso opportuno premettere.
Beyond freedom and dignity è un libro radicale; pone problemi fondamentali e drammatici nello stesso frangente in cui tenta di proporre una via risolutiva che, ai più, appare estrema. Il problema fondamentale è la sopravvivenza della specie umana, minacciata da potenziali sconvolgimenti a livello globale, come la mancanza di risorse, la sovrappopolazione, l’inquinamento e così via. La soluzione è la pianificazione totale dell’ambiente sociale da parte della scienza e della tecnologia comportamentale. Posto che il comportamento sia modificabile attraverso la creazione di un ambiente controllante, il quale rinforzi i comportamenti desiderati dal controllore, se il problema è il comportamento umano, la soluzione è determinarlo in modo tale che la nostra specie e la nostra cultura possa sopravvivere. Il problema è il nostro comportamento, la soluzione è controllarlo attraverso la tecnica. Risulta immediatamente chiaro che una tale soluzione deve mettere da parte le idee di libertà individuale, responsabilità e dignità. La vita in un ambiente controllante non ci renderà meno umani, piuttosto migliorerà la nostra condizione, almeno questa è la promessa di Skinner, anche se dovremo abbandonare o ripensare profondamente le vecchie concezioni sull’autodeterminazione dell’individuo. Chi difende questi vecchi baluardi ideologici e prescientifici, come le idee di libertà, responsabilità, dignità e così via, non fa che impedire il progresso scientifico e tecnico, ove questo è la sola e necessaria soluzione di cui oggi disponiamo. O scienza comportamentale o morte! Ovazione.
È chiaro che con queste premesse il libro non può che lasciare deluso il lettore che si avvicini con almeno un po’ di ingenuità. Perché? Perché tanto vasta e ricca è la terra promessa, che questa non può che apparire, alla fine dell’esodo, un’illusione, un cielo promesso. Ma c’è di più, o di meno. Se vogliamo rimanere nell’analogia, possiamo affermare che la lettura del libro è veramente una lunga attraversata nel deserto. Si rimane, ingenui e meno ingenui, profondamente delusi da quanta poca argomentazione scientifica sia presente nel libro di uno dei più grandi scienziati della psicologia umana. E questo lo notava anche Chomsky in una recensione critica la cui fortuna ha superato quella dello stesso libro criticato. Non è un caso che la critica chomskiana nelle università sia più letta e discussa dello stesso libro di Skinner. Non è possibile giustificare quest’assenza di riferimenti ai risultati empirici con la natura eventualmente divulgativa dell’opera. C’è una tale mancanza di evidenza empirica a sostegno delle tesi sostenute nel libro, accompagnata da una tale vaghezza nell’uso dei termini e nella discussione, che è fin troppo anche per un’opera dalle intenzioni divulgative. Questa grave mancanza, forse la mancanza più grave per uno scienziato, rende difficile valutare l’interesse scientifico delle opinioni esposte e delle conclusioni tratte. Invece, a sopperire questa mancanza, si incontrano una serie di affermazioni che somigliano nella forma a dei ‘mantra’, delle affermazioni che dovrebbero far pensare colui che legge mentre gli chiedono di abbandonare ogni capacità critica, a cui, in sostanza, si deve aderire per una sorta di principio speranza, poiché, a quanto sembrerebbe, l’unico appiglio rimasto in grado di garantirci la sopravvivenza è lo sviluppo e l’applicazione della scienza comportamentale.
Se alcuni critici maligni potrebbero, per amore dell’assurdo, arrivare a chiedersi quali contingenze ambientali di natura rinforzante abbiano determinato la scrittura del libro, noi non ci vogliamo spingere fino a tanto. Piuttosto, notiamo come nel lettore rimanga la forte impressione che i pensieri esposti dall’autore non riescano veramente ad uscire dallo statuto di speculazioni prive di una solida base empirica. Le conclusioni sembrano tutto meno che delle deduzioni tratte da una rigorosa indagine sperimentale. Anche perché, e questo è utile ricordarlo, la gran parte della sperimentazione di Skinner fu condotta sugli animali. Per tanto, nel ragionare sull’ingegneria ambientale destinata all’uomo, in che modo Skinner avrebbe potuto appoggiare le proprie riflessioni su dati raccolti dallo studio di campioni umani?
Ma immaginiamo per un momento che il lettore possa trovare tutto ciò irrilevante, e decidere di aderire alla soluzione skinneriana su base emotiva, ad esempio. Ebbene, tale lettore rimarrebbe deluso anche in questo caso, poiché si ha la costante impressione che l’opera sia stata scritta da una persona fondamentalmente stanca. Le pagine di Skinner falliscono nell’entusiasmare, nel raccogliere il proselito. È possibile constatare un fallimento persino nel far leva sul carattere rivoluzionario, futuristico, dirompente, ribelle o riformatore dello scritto. Eppure materia ce ne sarebbe. Sicché, l’odio, o sarebbe meglio dire il fastidio, provocato ai molti commentatori di quest’opera riesce ad essere un odio privo di passione, proprio perché risponde ad un pensiero che fa il vuoto intorno a sé, e semmai, in chi legge, provoca la sensazione di non aver colto fino in fondo la lezione, l’avvertimento, o cos’altro, appunto. In conclusione, l’unico interesse sensato che rimane al lettore è di tipo storico. Skinner è indubitabilmente uno degli scienziati che maggiormente hanno contributo a costruire la scienza del comportamento, la quale per una cinquantina d’anni ha definito i programmi di ricerca in psicologia. Se si vuole comprendere la storia della psicologia comportamentale è necessario passare per Skinner, e passando per Skinner, passare per questa sua opera che è un ultimo tragico tentativo di sparare lontano quando ormai le munizioni sono terminate e il nemico sta saltando nella trincea.
E pensare che ero partito con l’idea out of trend di scrivere una recensione perlopiù in favore di Skinner. Bene … il testo che segue è una ricostruzione abbastanza fedele e puntuale della riflessione di Skinner, suddivisa secondo i capitoli che compongono il libro.
Cap 1 – Una tecnologia del comportamento
Senza dubbio ci troviamo di fronte ad imminenti e decisivi problemi per la sopravvivenza dell’umanità: la possibilità di uno scontro con armi nucleari, la sovrappopolazione, l’inquinamento, la mancanza di risorse. Erano imminenti e decisivi negli anni settanta, e tolta l’enfasi su una possibile guerra nucleare in grado di cancellare l’umanità, lo sono ancora oggi. Per risolverli non possiamo che rivolgerci alla scienza e alla tecnica. Tuttavia, la madre scienza e la figlia tecnica sembrano, ai più, ancora impotenti. La Storia lo dimostrerebbe. Ogni incremento di potenza tecnica è stato accompagnato dall’aumento della probabilità di insuccesso nella lotta per la sopravvivenza. Eppure siamo ad un punto di non ritorno, dobbiamo insistere con la tecnica. Oltre alla Storia, una considerazione è decisiva per comprendere perché la tecnica si mostra inefficacie agli scopi adattivi dell’uomo. La tecnica non è stata capace di modificare il comportamento umano. A pensarci bene, il comportamento dell’uomo è l’elemento chiave. Ma sono in pochi ad essersene accorti. Ad esempio, noi possiamo sviluppare la chimica e la biologia per ottenere tecniche ineccepibili di controllo delle nascite, ma se poi nessuno le usa, il nostro lavoro scientifico e tecnico sarà andato perso. Un’ingegneria del comportamento permetterebbe di risolvere i problemi che ci affliggono con una precisione ed efficacia mai viste, andando a lavorare sul vero elemento di accelerazione del cambiamento storico e sociale, il comportamento umano.
Come mai ancora non si è giunti a possedere una seria scienza e un’efficacie tecnologia del comportamento? Dai tempi degli antichi, noi occidentali abbiamo avuto uno sviluppo radicale in discipline come la biologia, la chimica, la fisica, le quali hanno smesso di usare il vocabolario mentalistico – intenzioni, scopi e obiettivi attribuiti alle cose – per diventare vere scienze. La psicologia, invece, è andata incontro ad un ben misero sviluppo, ed ancora si esprime in maniera prescientifica spiegando il comportamento nei termini di intenzioni, scopi, tendenze naturali e così via. Anche se paradossale, questa è proprio la ricostruzione storica offerta da Skinner a supporto della sua argomentazione. Solamente una volta superato questo vocabolario sarà possibile sviluppare una vera scienza dell’uomo.
Il problema con gli oggetti di ricerca e di teorizzazione della psicologia, quali le idee, i sentimenti, i tratti di carattere, la volontà e così via, non è tanto la loro natura controversa e come entrano in relazione con la realtà fisica, ma piuttosto il fatto che tali elementi distolgono l’attenzione dal vero oggetto della ricerca e della spiegazione, ovvero il comportamento. Tali elementi devono essere considerati dei sottoprodotti del comportamento, e non viceversa. L’attenzione deve essere posta sulle circostanze ambientali in cui si svolge il comportamento, e deve essere abbandonata l’idea che molti comportamenti non siano determinati da circostanze ambientali antecedenti. Ciò che spiega il comportamento non è la coscienza o il cosiddetto soggetto autonomo. Queste ultime categorie sono semplicemente primitive e riflettono la nostra ignoranza. Se la psicologia vuole diventare una scienza come la fisica e la biologia, deve abbandonare il riferimento teorico agli stati mentali e porsi come obiettivo di spiegare il comportamento in relazione alle circostanze ambientali che l’hanno rinforzato.
Se ancora la scienza dell’uomo non ha escluso i termini mentalistici dal suo vocabolario, ciò è dovuto al fatto che si è creduto di non trovare costruzioni teoriche alternative e valide. Per molto tempo il ruolo dell’ambiente nel determinare il comportamento è risultato poco chiaro, e quando si è iniziato a ragionare in termini di stimolo e risposta, e dunque a spiegare il comportamento in maniera meccanicistica, oppure a ipotizzare un termine medio mentalistico che permettesse il passaggio dallo stimolo alla risposta, non si è compresa a sufficienza la funzione selettiva dell’ambiente, il quale non solo agisce in maniera diretta sul comportamento, ma retroagisce. Un certo comportamento è determinato e poi mantenuto nell’abitudine dalle conseguenze provocate nel passato dell’individuo da comportamenti ad esso simili. Riconoscere ciò significa iniziare ad analizzare e spiegare il comportamento operante, ovvero il comportamento che opera sull’ambiente per produrre delle conseguenze, attraverso il concetto di contingenza ambientale, la quale, come unità di analisi, ha il diritto di sostituire il vecchio vocabolario mentalistico. È tramite questo riconoscimento che arriviamo a comprendere la possibilità di modificare l’ambiente e così il comportamento. Tuttavia, se una tecnica del comportamento, in questo senso, è pronta, forse non ancora la società e gran parte della scienza dell’uomo, le quali ancora ragionano in termini mentalistici.
Le caratteristiche dell’uomo autonomo, autodeterminato, pongono alcuni problemi che rallentano l’avanzamento della scienza dell’uomo e così la risoluzione dei problemi che minacciano la sopravvivenza dell’umanità. Nella visione tradizionale e di buon senso, l’individuo spesso non è causato nel comportamento da altro che dalla sua volontà, e, per tanto, l’individuo è responsabile delle proprie azioni. Tale visione cadrà una volta chiarita la natura determinata del comportamento. È l’ambiente a condizionare, controllare e determinare il comportamento, e non l’uomo interiore dotato di autonomia. La scienza del comportamento farà cadere le nozioni di dignità, libertà e responsabilità, per lo meno così come oggi le pensiamo.
Tuttavia, una volta accettata l’idea che sia il contesto a determinare il comportamento, e che, dunque, bisogni agire su di esso per cambiare l’uomo, chi costruirà l’ambiente controllante e secondo quali criteri o valori? Partiamo da un fatto: l’unica possibilità di soluzione ai problemi dell’uomo è quella che crea questa domanda o problematicità. Continuiamo con un’osservazione: il conflitto dialettico tra soluzione proposta e problema etico relativo è esso stesso un problema relativo al comportamento umano, niente di più ma niente di meno. Di conseguenza, la problematicità etica deve essere affrontata come una questione di ingegneria sociale, ovvero dalla scienza del comportamento. È un cane che si morde la coda, ed è necessario che lo faccia: tutti i problemi che emergono nell’applicazione della scienza del comportamento sono essi stessi problemi di comportamento. Se accettiamo la scienza del comportamento come valida, allora dovremo affrontare i problemi che emergono dalla sua applicazione con l’unico strumento a cui possiamo appigliarci, il comportamentismo. Oltre questa convoluzione non è possibile andare senza contraddire la premessa irrinunciabile per cui i problemi dell’uomo debbano essere affrontati scientificamente.
Cap 2 – La libertà
Esiste nell’uomo una lotta per la libertà, ma questa non è determinata, come comunemente si crede, dalla volontà del singolo di essere libero. Ciò che spiega la spinta naturale a liberarsi rispetto a certe condizioni sono i processi comportamentali dell’organismo in risposta ad un ambiente avversivo. Fondamentalmente, si tratta della spinta naturale degli organismi ad allontanarsi da ciò che è dannoso per la loro sopravvivenza. Queste spinte non sono solamente quelle automatiche ed immediate, come ad esempio il riflesso del vomito, che libera l’individuo da una sostanza dannosa, ma sono anche le dinamiche di rinforzo del comportamento. Innanzitutto, dobbiamo considerare il rinforzo negativo, dove ciò che rinforza o aumenta la probabilità del verificarsi futuro di una certa linea d’azione è l’evitamento o la sottrazione di un elemento negativo o spiacevole per l’individuo. Mi libero dal calore del sole attraverso il rinforzo di un certo comportamento di evitamento delle zone assolate che giustifica il suo sviluppo per mezzo della storia di tutte le volte in cui ho notato quanto fosse meno spiacevole stare all’ombra piuttosto che al sole.
Nelle situazioni sociali posso evitare il dolore in diversi modi. Se sono uno schiavo e vengo frustato quando non lavoro, posso lavorare per evitare le frustate. Tuttavia, il mio comportamento rinforzerà il padrone a bastonarmi. Allora posso evitare il dolore scappando o attaccando il padrone. Probabilmente, è la mia stessa dotazione genetica a supportare la lotta per la libertà, nelle sue diverse forme. Una di queste forme è la letteratura di stampo illuministico che glorifica il valore della libertà. Tale letteratura non è che un mezzo per indurre le persone a scappare o attaccare chi le controlla in maniera avversivo. Ora, oltre a sistemi di controllo avversivi, che utilizzano il rinforzo negativo, esistono e sono molto diffusi i sistemi di controllo non avversivo, che utilizzano il rinforzo positivo. Questi sistemi sono molto più efficaci rispetto al rinforzo negativo, perché nel caso in cui portino a conseguenze avversive queste saranno lontane nel tempo e non immediate. Per tanto, l’organismo incontra difficoltà a riconoscere e rispondere con la ribellione a conseguenze negative le quali avverranno nel tempo, mentre invece risponde naturalmente alle conseguenze negative immediate. Le società moderne, non a caso, sono strutturate attorno a sistemi di rinforzo positivo. La letteratura sulla libertà (Leibnitz, Locke e così via) riesce a stimolare con successo il comportamento di rivolta verso il controllo avversivo, ma non distingue chiaramente tra controllo avversivo e non avversivo. Così facendo, tale letteratura oppone dicotomicamente la libertà al controllo, e fa di ogni controllo un controllo avversivo e di ogni controllore un nemico. È ovvio, però, che il controllo non è qualcosa da cui possiamo veramente liberarci, piuttosto è una necessità. Il punto, allora, è scegliere quale tipo di controllo desideriamo accettare. Molte pratiche sociali essenziali al benessere comune implicano che le persone si controllino a vicenda. Il controllo non è un male in sé. Dovremmo accettare le pratiche di controllo non avversivo, perché sono le più funzionali, e discutere le conseguenze di questo controllo. L’uomo non deve liberarsi dal controllo, ma da alcune pratiche di controllo. L’obiettivo comune è chiaro: liberare l’ambiente dagli stimoli avversivi. Come farlo? Ridisegnando l’ambiente, affinando, cambiando e attuando pratiche di controllo più efficaci rispetto a quelle esistenti. Un tale compito è il solo mezzo con l’uomo possa liberare sé stesso.
Cap 3 – La dignità
La dignità, potremo dire, non è altro che la proprietà che viene attribuita all’uomo in relazione alle azioni che egli compie per pura volontà propria. In questo senso, indizi di un’azione dignitosa, e allora ricompensabile, lodabile, apprezzabile, ammirabile e così via, sono il fatto che è stata compiuta liberamente da condizionamenti ambientali, senza la prospettiva di una ricompensa, oppure, eventualmente, in opposizione a contingenze esterne ad essa sfavorevoli. L’assenza di cause esterne e di ragioni cogenti, come l’impossibilità di spiegare il comportamento fuori dalla categoria della gratuità, rendono l’atto dignitoso. La ricompensa è, poi, il riconoscimento della dignità alla persona. Più l’azione è indeterminata più viene ricompensata. La letteratura sulla dignità vuole proteggerci da coloro i quali falliscono nel riconoscere e nel ricompensare la dignità, ovvero l’azione indeterminata. Insistere sulla nozione di giustizia, in fondo, non è altro che insistere sull’appropriatezza dei pesi e delle misure con cui si riconosce e si ricompensa l’azione dignitosa dell’uomo.
Poste queste premesse, osserviamo come il concetto di dignità si scontra necessariamente con l’avanzamento di una tecnologia comportamentale il cui scopo è, da una parte, ridurre le occasioni di sacrificio dell’uomo, e dall’altra, presuppone una scienza che abbia risolto quello che oggi viene detto, per ignoranza, comportamento indeterminato in un comportamento determinato dalle circostanze ambientali, presenti e passate. Togliendo la possibilità del sacrificio alla libertà e acquistando consapevolezza che ogni atto è determinato da circostanze ambientali, abbiamo de facto eliminato la ragion d’essere della dignità così come oggi è comunemente concepita. La prospettiva dell’impossibilità di dirsi dignitosi, però, è umiliante e con essa lo è la scienza del comportamento. Una tale scienza è temuta nella misura in cui impedisce il sentimento di ammirazione per le azioni umane, dove tale ammirazione è legata a doppio filo all’inspiegabilità o indeterminatezza del comportamento. Tuttavia, non è possibile impedire lo sviluppo della scienza del comportamento, anche se, certamente, può essere rallentato. Se la diffusione della scienza del comportamento è reale (in senso hegeliano), allora tanto vale che la letteratura sulla dignità si faccia da parte il prima possibile. Anche perché, opponendosi, i sostenitori della dignità non capiscono che impediscono l’avvenimento che loro stessi definirebbero come il più ammirevole e ricompensabile, ovvero dignitoso: l’ingegneria culturale.
Cap 4 – Punizione
Le sanzioni punitive sono molto diffuse nella società. La punizione, diversamente dal controllo avversivo che spinge le persone ad agire in una determinata maniera, induce principalmente a non agire in un certo modo. La punizione è la negazione della libertà, se per libertà intendiamo la mancanza di contenimento o resistenza. Eppure, la letteratura sulla libertà e la dignità, se avversa le forme più primitive di punizione, legittima una società che fa largo uso dei sistemi punitivi. Con la punizione si intende estirpare il male, assumendo che punire l’individuo diminuisce la probabilità che il suo comportamento futuro sia criminale. Tuttavia, le cose non stanno così. Infatti, il comportamento punito si ripresenta una volta che le contingenze punitive vengono a mancare, e tuttalpiù le condizioni avversive che accompagnano la punizione portano l’individuo ad evitare selettivamente quei corsi d’azione che con più probabilità porterebbero alla punizione. Invece che uccidere in piazza, ci si preoccupa di farlo senza essere visti.
Vi sono modi più o meno efficaci per evitare la punizione. Innanzitutto, si può togliere la possibilità stessa di compiere l’azione criminale. Ad esempio, entrando in convento, diminuisco la probabilità di compiere certi peccati. Un controllo totale di questo tipo, però, non piace a nessuno, ancora una volta viene negata la libertà e la dignità dell’uomo. La società, per tanto, si è orientata verso una forma di controllo meno vistosa e visibile. La bontà stessa viene attribuita alle persone in funzione di quanto il loro comportamento non sia frutto della prudenza rispetto alla sanzione o al controllo esterno. Più il controllo diventa invisibile, più le persone si illudono di agire liberamente, si chiamano buone e parlano di coscienza, non riconoscendo che quello che le muove è l’evitamento delle condizioni avversive associate alla punizione. Disegnare una società in cui le persone sono buone automaticamente, e dove, dunque, si fa a meno della punizione, sembra minare la stessa possibilità di dirsi buoni, liberi e responsabili, poiché chi merita il premio o la punizione non è più l’individuo ma sono ora le contingenze ambientali. È la possibilità stessa della morale a venir meno.
La situazione è curiosa: sono gli stessi difensori della libertà e della dignità ad invocare la necessità della punizione. Una società senza punizione, che determina i suoi membri ad agire il bene, spaventa poiché è priva di individui liberi e responsabili. Oggi si preferisce lasciare la libertà di operare il male, per poi ricorrere alla punizione, che è il contrario della libertà, al fine di arginare le conseguenze pratiche della libertà. C’è di più. La punizione non determina nemmeno gli individui ad essere meno propensi a fare il male. La punizione crea solamente individui attenti ad evitare le condizioni avversive associate alla punizione. Tuttavia, se l’obiettivo è creare una società di buoni individui, e partiamo dal presupposto, non ancora compreso, che in ogni caso siamo determinati o controllati, allora è privo di senso rallentare il progresso per un controllo più efficacie volto ad aumentare i comportamenti buoni solo per paura che le illusioni dettate dall’ignoranza (volontà, libertà, responsabilità) possano svanire. Alla fine, si tratta semplicemente di rendere il mondo un posto più sicuro, facendo quello che si è sempre fatto, ovvero trasformare l’ambiente. L’unica differenza è che ora esistono possibilità più efficaci di farlo. Far leva sul senso di responsabilità e di autonomia delle persone servirà a poco. Esistono alternative alla punizione, e bisogna guardare ad esse senza timore per l’abbandono di nozioni come libertà e responsabilità. Non bisogna pensare che l’unico sistema legittimo sia l’esistente sistema punitivo, il quale appare a Skinner un sistema primitivo e limitato di controllo. Il punto, dunque, è creare ambienti migliori, non uomini migliori.
Cap 5 – Alternative alla punizione
I difensori delle nozioni di libertà, dignità e autonomia del soggetto non difendono solamente il sistema punitivo, ma difendono altre misure inefficaci. Alcuni difendono la permissività totale, ovvero l’assenza di controllo. L’anarchia, però, presuppone la bontà naturale dell’uomo, e non determina che uno spostamento del problema, poiché il controllo non è lasciato, come si vorrebbe, alle persone, ma è lasciato alla caoticità dell’ambiente. Il controllo non è mai direttamente nelle mani delle persone, piuttosto è nelle condizioni ambientali, che rinforzano questo o quell’altro comportamento. Altre misure appaiono ai difensori della libertà e dell’autonomia come non abbastanza controllanti e, dunque, giustificate. Tuttavia, questi difensori dovrebbero tenere a mente che il comportamento non è dovuto alla volontà dell’individuo ma alle condizioni ambientali. Misure come il controllo maieutico di socratica memoria, dove il maestro aiuta l’alunno a partorire idee che in lui sono già presenti, oppure l’apprendimento guidato o ancora il controllo delle menti altrui nel senso del suggerimento, della testimonianza pubblicitaria o dell’esposizione dialettica delle proprie ragioni, non sono che prassi di controllo non abbastanza efficaci. Ed è proprio perché queste prassi sono inefficaci che vengono tollerate; esse garantiscono lo spazio alla libertà e alla responsabilità personale. Diversamente, però, l’unico spazio che si apre è quello all’azione di fattori ambientali non considerati con sufficiente rigore. La libertà è un’apparenza. La realtà è che il controllo esistente non è compreso, non è percepito e non è ottimale. Le misure di controllo alternative alla punizione possono a loro volta essere superate da misure di controllo migliori, dove si riconosca l’errore di pensare che il comportamento non sia completamente determinato dalle contingenze ambientali.
Cap 6 – I valori
Alla proposta di un’ingegneria sociale che trasformi l’uomo modificando la forza e le direzioni del controllo su di lui esercitato dall’ambiente, segue naturalmente la reazione di chi chiede conto di quali cambiamenti sia opportuno operare sull’uomo e chi debba decidere e avere il potere di operare sull’ambiente. Sostanzialmente, sorgono delle questioni etiche. Qual è il bene a cui aspiriamo quando modifichiamo l’ambiente per trasformare noi stessi, e chi ha l’autorità per definirlo?[1]
Consideriamo, innanzitutto, che le questioni etiche non sono altro che questioni su certi rinforzi comportamentali. Le cose buone sono rinforzi positivi. Ad un livello non ancora morale, un cibo che possiede un buon sapore rappresenta un rinforzo per colui che lo consuma. Viceversa, un cibo cattivo è un rinforzo negativo, che porta all’evitamento. Inoltre, le cose ci appaiono buone o cattive in relazione alle contingenze di rinforzo nelle o con le quali la nostra specie si è evoluta. Da una parte, dunque, siamo naturalmente portati a considerare alcune cose buone o cattive, a causa della nostra storia filogenetica, e dall’altra, l’esperienza nell’ambiente in cui viviamo rinforza positivamente o negativamente alcuni comportamenti, che poi consideriamo buoni o cattivi. Lo stesso vocabolario morale è uno strumento di rinforzo, del nostro e dell’altrui comportamento, anche perché è solitamente accompagnato da altri rinforzi. Esprimere un giudizio morale è un comportamento soggetto alle logiche di rinforzo proprie dei comportamenti. Anche la bontà e la cattiveria morale possono trovare una traduzione nel linguaggio comportamentista. Buono è ciò che rinforza positivamente, cattivo è ciò che rinforza negativamente. Il sentimento morale, che nella prospettiva sentimentalista causa il giudizio e il comportamento morale, è in realtà un prodotto a posteriori del rinforzo. Ciò che rinforza positivamente lo chiamiamo buono, e il rinforzo positivo naturalmente provoca un sentimento positivo. Viceversa, nel caso della cattiveria. Non sono i sentimenti piacevoli o spiacevoli che l’uomo cerca o fugge, ma più propriamente i rinforzi positivi e negativi. Sicché la persona agisce per il bene degli altri non a causa di un sentimento d’amore o d’appartenenza, ma semplicemente perché il suo comportamento prosociale è rinforzato dall’ambiente sociale.
Il valore del rispetto del comandamento che prescrive di dire la verità non va trovato nell’aderenza autonoma, libera e responsabile ad un gruppo di credenze morali, ma nelle contingenze sociali che rinforzano l’individuo quando egli racconta la verità. È il gruppo a sviluppare il costume (ethos) di mantenere un certo controllo interno, tale per cui quando un membro è sincero trova l’approvazione e il rinforzo dei suoi compagni, e a causa di questo rinforzo egli cercherà di raccontare la verità. Il comportamento buono o cattivo non dipende dalla supposta qualità morale del carattere individuale e nemmeno dalla conoscenza morale, ma semplicemente dalle contingenze che rappresentano una grande varietà di rinforzi comportamentali. L’imperativo di non rubare significa che se l’individuo tende ad evitare la punizione, allora evita di rubare. In questo senso, la normatività dell’imperativo morale non è dissimile alla normatività della massima prudenziale o della tautologia.
La stessa logica si applica alla spiegazione del comportamento di supporto per il governo o di devozione ad una religione. Non è la lealtà a spiegare perché l’individuo supporta il governo, così come non è la devozione che spiega l’appartenenza ad una confessione. È il sistema di contingenze organizzate dal governo o dalla religione a portare l’individuo al supporto o alla devozione. Ora, la difficoltà di comprendere questi fenomeni in chiave comportamentista è dovuta al fatto che le conseguenze avversive o di rinforzo positivo non sono immediate, ma solitamente differite nel tempo. L’insieme delle contingenze sociali che spiegano il comportamento morale dell’uomo è complesso e, di conseguenza, non compreso. Quest’incomprensione ha prodotto l’illusione della responsabilità morale e della volontà dell’individuo autonomo che sceglie la propria condotta secondo i criteri della propria coscienza morale.
Il motore della Storia, del progresso umano e della nascita e dello sviluppo dei codici di condotta morale si individua solamente considerando quali sono state e sono le contingenze ambientali di rinforzo di questa o quella linea di comportamento. Se viviamo ancora in una società afflitta dal male è perché il controllo sull’ambiente non è ottimale. I rinforzi positivi e negativi non lavorano efficacemente come nel caso in cui noi assecondassimo quello spirito o quella tendenza comportamentale che chiamiamo morale. Aumentare il controllo è l’unica soluzione possibile. Fare diversamente è vivere in un ambiente che ci determina senza che noi ne comprendiamo l’esercizio di influenza. Di fronte alla necessità del controllo ambientale, l’unica soluzione ragionevole è sviluppare la conoscenza delle relazioni tra ambiente e individuo e sviluppare tecniche di controllo sempre più efficaci. La soluzione non è la libertà dell’individuo, poiché questa è semplicemente l’illusione di chi pensa di essere libero e morale ma in realtà è controllato da un ambiente di cui non sa nulla. Bene e male sono determinazioni del controllo ambientale, dunque agire moralmente significa migliorare l’ambiente che ci circonda. E se per migliorare il controllo ambientale dobbiamo sbarazzarci delle nozioni morali, allora dovremo farlo (paradossalmente, in nome della morale). Al di là delle domande sul bene e sul male, l’appropriatezza di sviluppare e di usare una tecnologia del controllo si impone come una necessità razionale.
Cap 7 – L’evoluzione della cultura
L’insieme delle contingenze di rinforzo identifica la cultura. Eredità genetica e cultura determinano il comportamento degli individui. Le contingenze che compongono la cultura sono in parte fisiche o materiali e in parte sociali. Abbiamo già visto che le contingenze sociali sono i valori. Quando un gruppo definisce un bene dà nome a qualcosa che produce un rinforzo comportamentale grazie all’eredità genetica e alle contingenze naturali e sociali che compongono la cultura. Poiché le contingenze sono in continuo cambiamento, così lo sono le culture, che fiorisco o periscono. Un valore dovrebbe stare a fondamento di tutti i valori, quello della sopravvivenza della cultura.
Le culture sopravvivono o si estinguono proprio come le specie. Anche le culture, come le specie, sono selezionate nel tempo in relazione alla loro capacità di adattarsi all’ambiente naturale e alle esigenze dei loro abitanti. Le nuove pratiche sono considerabili alla stregua di mutazioni genetiche, e possono favorire o meno il potenziale adattivo di una cultura. Ma diversamente dalla trasmissione genetica, la trasmissione culturale ubbidisce ad una logica lamarckiana. Se qualcosa sembra adattivo può essere direttamente trasmesso alla generazione successiva, ad altre culture o, in generale, al proprio tempo. Le culture evolvono rapidamente e nuove pratiche vengono trasmesse nel caso in cui si ritenga che esse possano aumentare le probabilità di sopravvivenza del gruppo. Si tratta di trasmettere pratiche che permettano la sopravvivenza in determinate condizioni fisiche o naturali dell’ambiente, e, poi, di ottenere un vantaggio rispetto a culture o gruppi competitori. Queste dinamiche rimarranno oscure agli uomini di conoscenza fin tanto che non si sarà in grado di indentificare con chiarezza le contingenze sociali e i meccanismi di rinforzo che vi stanno alla base.
Tra i moventi del comportamento dell’individuo è necessario aggiungere, oltre alla ricerca del bene personale o del benessere del gruppo, anche la ricerca del bene della cultura. L’individuo è parte del meccanismo di trasmissione culturale, e, dunque, determina la sopravvivenza o la scomparsa di una cultura. Chi si trovasse nella posizione di usare la tecnologia del comportamento disporrebbe di questo valore ultimo. Ma quali sono i rinforzi che muovono l’individuo ad occuparsi della sopravvivenza della cultura? Innanzitutto, è chiaro che la spinta alla promozione della sopravvivenza della cultura non è intenzionale, ma è la cultura stessa, ovvero l’insieme dei rinforzi sociali, a promuovere i comportamenti ad essa utili. La cultura che sopravvive è quella che induce – tramite i rinforzi, le contingenze e le ragioni del caso – i suoi membri a lavorare attivamente per la sua salvezza. La relazione tra individuo e cultura è simile a quella che intercorre tra uno Stato in guerra e i suoi cittadini o sudditi. Il singolo individuo non troverà mai una buona ragione per farsi ammazzare al fronte. Pertanto, ci deve interessare solamente osservare che lo Stato cade nel momento in cui fallisce l’organizzazione di un sistema di rinforzi adeguato a raccogliere partecipazioni sufficienti ad affrontare la guerra. La cultura sopravvive nel momento in cui organizza un sistema di contingenze che aumenta la sopravvivenza immediata e futura. Di fronte ai problemi globali e alle minacce alla sopravvivenza dell’umanità, la cultura dell’uomo sopravvive se sa organizzare un appropriato sistema di contingenze sociali. Questo è un fatto. Se l’uomo è interessato al valore fondamentale della sopravvivenza, allora deve riconoscere che l’unica soluzione allo sviluppo dell’umanità è una migliore organizzazione dello spazio sociale. Poiché lo spazio sociale è controllo, si tratta di sviluppare migliori sistemi di controllo sociale. Chi lo fa sopravvive, chi non lo fa perisce, e con lui periscono i suoi preziosi valori.
Ora, se lo sviluppo della cultura dipende dal cambiamento delle contingenze, all’uomo non rimane che comprendere le logiche di questo sviluppo e intervenire per comandare le trasformazioni culturali. Si tratta di un lavoro di ingegneria culturale sulle contingenze, ma non di sviluppare la cultura umana verso uno stadio finale di maturazione. D’altra parte, parlare di stadi finali o di maturazione ha poco senso. Lo sviluppo della cultura umana, proprio come lo sviluppo delle specie o lo sviluppo dell’individuo, ha un termine, ma questo termine non rappresenta il télos, lo skopós, l’éschaton. Il comportamento umano è seguito dal rinforzo, ma non lo ricerca. Così la vita è seguita dalla morte, e la morte non è l’obiettivo di chi vive. Nonostante questo, è possibile imprimere una direzione al movimento di sviluppo della cultura. Eccone una: affinare la sensibilità per le conseguenze delle proprie azioni. Si tratta di sviluppare individui sensibili e influenzabili dalle conseguenze più remote delle loro azioni. Il sistema di rinforzi si amplierebbe, e così la consapevolezza dell’uomo di essere controllato dall’ambiente. Il compito di un ingegnere culturale dovrebbe essere quello di accelerare lo sviluppo di pratiche in grado di rendere determinanti anche le conseguenze più remote del comportamento, e dunque di lavorare più efficacemente per il bene e la sopravvivenza della cultura.
Cap 8 – Pianificare una cultura
Le pratiche culturali sono continuamente pianificate. Anche se non è individuabile la cultura migliore in senso assoluto, è possibile valutare comparativamente le culture in relazione ai risultati rinforzanti determinati dalle loro pratiche interne. È la scienza del comportamento umano che ci aiuta a comparare le culture, a definire che cosa dobbiamo cambiare e ci indica come farlo, nel momento in cui desideriamo ridisegnare la cultura globale. La scienza ci permette di definire la direzione del cambiamento attraverso un’analisi dei risultati rinforzanti previsti, mentre ci indica come cambiare poiché svela le logiche sottese al cambiamento. Se vogliamo modificare i nostri comportamenti dobbiamo modificare le contingenze ambientali.
Una tale tecnologia appare eticamente neutra, eppure promuove il rispetto del valore fondamentale, la sopravvivenza. Sostanzialmente, i membri di una cultura che lavorano per la sopravvivenza devono innanzitutto prevedere le difficoltà a cui la cultura va incontro. Oggi, alcune difficoltà sono la sovrappopolazione del pianeta, l’inquinamento e il consumo spropositato di risorse naturali. Le linee di comportamento da adottare sono chiare: proliferare, inquinare e consumare meno. La scienza del comportamento non ha tutte le risposte, ma possiede un metodo efficace per impostare e risolvere i problemi. D’altra parte, lasciare spazio a ciò che non è pianificato, perché ciò che è pianificato desta sospetto e paura di fallire, non è una soluzione. Non possiamo che sviluppare la scienza e la tecnica per proporre modi migliori e più efficaci per pianificare la vita della gente. Se l’alunno si rifiuta di studiare, non è utile al fine far leva sulla sua buona volontà o sul senso del dovere, ma è utile disegnare un ambiente educativo che produca quel comportamento per cui diremmo che il ragazzo ha buona volontà o uno spiccato senso del dovere.
Una cultura pianificata non implica necessariamente uniformazione e alienazione. Semmai sono state le culture storiche, prodotti di variabili accidentali, non controllate, a produrre uniformazione e alienazione. Non è possibile preferire il caso alla pianificazione, quando l’unica speranza di sopravvivenza è rappresentata da una cultura pianificata. Dopodiché, la diversificazione può essere pianificata come il resto, se lo si ritiene opportuno. In ogni caso, l’accidentale non porta necessariamente e nemmeno probabilmente alla sopravvivenza della cultura.
Ora, che l’idea di questo nuovo mondo non ci piaccia è naturale, ma importa poco. Nella cultura ripianificata ci saranno rinforzi differenti. Ad esempio, il valore rinforzante del riposo e del tempo libero potrebbe scomparire nel momento in cui il lavoro fosse reso meno compulsivo. La cultura deve piacere a chi ci vive, e se è pianificata per sopravvivere, allora piacerà. Ovviamente, poiché chi pianifica sente, si comporta e pensa a partire da una cultura imperfetta, qualche elemento accidentale verrà inserito nel piano. Si arriverà solo gradualmente a pianificare una cultura dove i beni sono distribuiti agli individui per mezzo delle pratiche introdotte al fine di garantire la sopravvivenza e l’evoluzione della cultura. La risposta ‘se non piace, piacerà’ può essere declinata diversamente a seconda dell’obiezione rivolta al progetto di riformazione ingegneristica comportamentale della società. Se, ad esempio, obietto che un tale progetto non potrà durare poiché alle persone non piace essere controllate, posso rispondere che la pianificazione prevede l’inserimento di contingenze che renderanno rinforzante il comportamento di accettazione del controllo. Se ci spaventa la possibilità che il controllore possa perseguire l’interesse personale piuttosto che quello della comunità, dovremmo considerare meno il controllore e piuttosto le contingenze nelle quali egli esercita il potere di controllo. D’altra parte, queste contingenze sono proprio i controllati, i quali controllano il controllore. Se le cose stanno così, senza ignorare i pericoli di un controllore tiranno e capriccioso, è necessario pensare attentamente all’organizzazione di misure di contro-controllo in grado di determinare un comportamento appropriato da parte del controllore. Quest’ultimo è parte integrante della realtà controllata, ed è soggetto alle stesse regole di condizionamento che regolano il comportamento dei controllati. Se pensiamo che la stessa morale non dipende da una scelta deliberata del singolo, ma dipende da un sistema organizzato di contingenze, allora capiamo perché l’attenzione andrà spostata verso la creazione di un ambiente che determini il controllore a perseguire l’interesse della società. Il controllore non nasce benevolo, ma sono le contingenze ambientali che rendono il comportamento del controllore interpretabile come benevolente. Chi difende la libertà e la dignità sostiene che il contro-controllo debba sopprimere le pratiche di controllo, invece di correggerle. Quest’idea è pericolosa poiché la nostra cultura ha una sola possibilità di sopravvivenza, evolvere nel senso dell’introduzione di pratiche di ingegneria sociale in grado di pianificare lo spazio di tutti, controllori e controllati.
Cap 9 – Cos’è l’uomo?
La scienza del comportamento, se libera di sperimentare, descrivere e spiegare, relegherà nelle illusioni il carattere autonomo dell’individuo. Per comprendere il comportamento sarà sufficiente considerare l’ambiente in cui la nostra specie si è evoluta, insieme all’ambiente in cui l’individuo cresce e vive. Ad esempio, fenomeni psicologici come l’aggressività, l’industriosità o l’attenzione potranno essere spiegati senza alcun riferimento ad un attore intenzionale. Il comportamento aggressivo o industrioso potrà essere compreso chiarendo le contingenze ambientali che hanno determinato un carattere aggressivo o industrioso nella nostra specie, così come le contingenze che rientrano nella storia del singolo individuo. L’attenzione, poi, è meno qualcosa su cui l’individuo ha controllo, e più qualcosa determinata dalla ricchezza, distribuzione e disposizione degli stimoli ambientali. Non è l’individuo che percepisce ad agire sul mondo, ma il mondo percepito ad agire sull’individuo; e la stessa linea di ragionamento vale per descrivere e spiegare l’attività conoscitiva.
Tra gli ambienti possibili, poi, dovremmo annoverare l’ambiente intra-psichico, che non è mai veramente tale, esistendo in relazione all’ambiente inter-psichico. È una comunità di parlanti che crea la consapevolezza nel singolo; l’autocoscienza è un prodotto sociale. È tramite le contingenze con cui ci si racconta agli altri (ad esempio, Tizio chiede a Caio cosa ha fatto ieri) che un gruppo di individui costituiti in una società dotata di linguaggio controllano sé stessi. È grazie al racconto dell’auto-descrizione che gli individui entrano in relazione reciproca. In sostanza, sono le contingenze ambientali, ovvero certi corsi d’azione richiesti dall’ambiente in cui si vive in gruppo, che spiegano il perché e l’utilità di essere in grado di descrivere sé stessi.
Anche il pensiero astratto sarà slegato dal carattere autonomo dell’individuo, e verrà compreso a partire dalle contingenze ambientali che ne determinano l’insorgenza ed i contenuti specifici. Se una tale riduzione comportamentista del pensiero umano non è ancora disponibile, probabilmente lo sarà nel futuro prossimo. In ogni caso, spiegare il pensiero come un’attività della mente non aiuta a comprendere che cosa sia e come funzioni. Gli stessi sistemi filosofici, ritenuti comunemente la massima espressione del pensiero, non sono creazioni dell’autonomia del pensiero, ma sono da comprendere in riferimento alle complesse contingenze ambientali che li hanno determinati.
Il sé dell’individuo non è altro che un insieme di comportamenti appropriati rispetto ad un insieme di contingenze ambientali. Ne sarebbe prova il fatto che è possibile avere diversi sé a seconda del contesto: in famiglia sono una persona, ma con gli amici sono un’altra persona. Ciò che struttura il sé sono le contingenze. Se questa è l’immagine dell’uomo che otteniamo dalla descrizione scientifica, ci si chiederà cosa rimanga dell’uomo. Secondo Skinner rimane tutto – infatti nessuna teoria può veramente cambiare l’oggetto che tenta di spiegare –, meno l’omuncolo autonomo che per la comprensione prescientifica dovrebbe abitarci. La scienza, per tanto, non de-umanizza l’uomo, lo de-omuncolizza. Tale è il destino naturale della comprensione scientifica, e al contempo la speranza di sopravvivenza per la nostra cultura. Solo abbandonando la superstizione potremo scoprire le vere cause del comportamento, e, dunque, agire per migliorare la nostra sorte, la quale, virtualmente, dipende dal comportamento di ognuno.
La descrizione dell’uomo proposta dalla scienza può spaventare, poiché sembra proporre l’immagine di una vittima indifesa dell’ambiente naturale e sociale. Tuttavia, l’ambiente sociale è un prodotto umano, tanto che l’uomo, come lo conosciamo, è ciò che egli ha fatto di sé stesso. Più precisamente, l’uomo è il prodotto dei suoi tentativi ed errori, oltreché della casualità, ma comunque l’autore del proprio contesto sociale. Nel dare forma al proprio ambiente, l’uomo svolge il ruolo di controllore, eppure, abitando tale contesto, egli svolge il ruolo di controllato. La doppia natura di controllore e controllato non deve spaventare, si tratta di una necessità. La cultura è un prodotto umano che retroagisce producendo il comportamento dell’individuo. La tecnologia del comportamento segue con mezzi più efficaci rispetto al passato questa naturale linea di sviluppo delle cose umane, permettendo una progettazione consapevole delle conseguenze immediate e lontane del proprio agire. Di fronte ai grandi problemi dell’umanità, non cogliere quest’apertura tecnologica significherà mettere fine ad ogni possibilità di sopravvivenza. Se temiamo che l’uomo non possa più controllare sé stesso, dovremmo ricordare che la progettazione di una cultura secondo i canoni comportamentistici non è altro che il più grande tentativo di auto-controllo che l’umanità avrà mai tentato. Per concepire le cose in tal guisa, bisogna passare dalla prospettiva limitata dell’individuo alla prospettiva della specie o della cultura, dove, comunque, la cultura è l’insieme degli uomini, fasci di comportamenti. Comprendere il comportamento e come modificarlo aprirà lo scenario dell’intentato. Solo allora capiremo che non avevamo minimamente intravisto what man can make of man.
Bibliografia minima
– Chomsky, N. (1971). The case against B. F. Skinner. The New York review of books.
– Skinner, B. F. (1971). Beyond Freedom and Dignity. New York: Alfred Knof.
– Skinner, B. F. (1948). Walden II. Indianapolis: Hackett Publishing Company.
Note:
[1] Nel romanzo utopico (e non distopico) Walden Two, scritto da Skinner, e pubblicato nel 1948, è delineata la figura del controllore come di un tecnico innocuo che non ha la possibilità di imporre la propria volontà privata e che non può che agire razionalmente, essendo controllato egli stesso dalla realtà totalizzante.
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