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I centurioni è un romanzo di Jean Larteguy edito in lingua francese nel 1963. Si tratta di un romanzo incentrato sulla storia dei paracadutisti francesi, prima sconfitti nella guerra in Indocina a Dien Bien Phu nel 1954, poi mandati in Algeria. Il romanzo si divide in tre parti. La prima è il racconto della prigionia dei soldati francesi nei campi Vietminh, costretti a lunghe marce forzate in mezzo alla giungla per raggiungere il campo di prigionia in cui avrebbero dovuto attendere la fine dei negoziati a Ginevra. La seconda parte narra il ritorno dei soldati in Francia, in cui ciascuno di essi ritrova la propria patria senza però poterne ritrovare la condizione consolatoria della pace. Perché la pace non era più qualcosa di tangibile, ma solamente una scusa per l’inazione, l’inattività e, in definitiva, per il nulla. La terza parte riporta l’esperienza dei soldati nella tragica guerra d’Algeria, in cui essi si resero complici di torture e azioni di dubbia legittimità giuridica e, allo stesso tempo, si ergono ad ultimo baluardo contro una forma di società antioccidentale.
Il libro I centurioni non è un libro privo di controversie, sotto diverse angolature. Il principale pregio del libro consiste nell’essere quasi un romanzo storico, nel senso che esso è una rappresentazione piuttosto verosimile degli avvenimenti così fondamentali per la Francia tra il 1950 e il 1960, vale a dire le due guerre di controllo dei territori dell’Indocina e dell’Algeria. E, considerato il peso della Francia nel contesto geopolitico mondiale, si tratta di un periodo e di due guerre assai importanti per comprendere la successiva successione dei fatti sia in Europa che nel mondo. Il fatto di essere stato pubblicato nel 1963 fa del libro una preziosa testimonianza storico-cronistica degli avvenimenti, nella misura in cui la battaglia di Dien Bien Phu era solo di nove anni precedente all’uscita del libro (e quindi ancora più vicina al momento della stesura).
Inoltre, il grado di dettaglio della descrizione dei fatti è piuttosto rilevante e riesce a restituire il momento di passaggio dell’evoluzione dell’esercito, da semplice organizzazione militare di una struttura statuale ad una massa combattente ideologicamente orientata. Infatti, i soldati che hanno passato la guerra in Indocina comprendono come la “guerra rivoluzionaria” non sia sconfiggibile alla “vecchia maniera”, cioè con l’uso esclusivo della forza, ma richiede grandi motivazioni, grandi convinzioni e una determinazione che può essere sostenuta solamente da quelle motivazioni e convinzioni. Senza di esse non c’è che la sconfitta.
Va senza dubbio annoverata la lucidità tra i meriti del romanzo, almeno rispetto al fatto di aver compreso come il ruolo dell’ideologia sarebbe diventata centrale all’interno delle guerre postcoloniali e, più in generale, post-seconda guerra mondiale. In tal senso, addirittura profetiche le parti in cui si dice che alla supposta e non scontata fine del comunismo si sarebbe succeduto il fondamentalismo religioso per la sua carica eversiva, per la capacità di unire persone diverse e per riuscire come elemento aggregante di una complessiva insoddisfazione delle condizioni politiche attribuite genericamente all’Occidente. Inoltre, lo stesso fondamentalismo è ciò che garantisce la diversità ideologica di fondo, rivendicando e radicalizzando delle differenze identitarie attribuite a una differente tradizione.
Mentre emerge, in questo senso, un Occidente fondato quasi esclusivamente sulla nozione di libertà e individualismo, i due cardini ultimi dell’ideologia occidentale. Sorprende, in tal senso, che la metafora che usa Lartéguy per descrivere gli eserciti Vietminh sia quella di un “formicaio”, cioè di un’entità sociale tipicamente priva di individui, in cui esiste solo un unico corpo sociale (non per niente Larteguy considera ogni ordine impartito come emanato da una sola entità nota come “la voce”). Non per niente si realizza la condizione per cui i singoli, guidati dalle loro primordiali aspettative e bisogni sulla vita, sono costretti alla castrazione (morale) per il bene del partito (la storia d’amore platonica dell’infermiera Vietminh è, in tal senso, emblematica). Ciò che colpisce è che la contrapposizione oriente/occidente o comunismo-fondamentalismo religioso/occidente sembra dimenticare che l’elaborazione del comunismo non soltanto è di matrice profondamente europea, tanto che, infatti, i quadri dei partiti comunisti di mezzo mondo si sono fondati in Europa (e spesso a Parigi, come nel caso di Ho Chi Minh), ma proprio legata alle radici stesse della filosofia politica che va avanti da Platone sino a Hegel (e che non per niente Karl Popper critica apertamente ne La società aperta e i suoi nemici). In altre parole, la contrapposizione non funziona perché la verità è che il comunismo, per quanto spesso maschera di un più profondo spirito nazionalista, è stato uno dei mezzi più potenti per la trasmissione di una delle parti della filosofia politica occidentale classica.
Tuttavia è proprio su questa parziale “dimenticanza” che I centurioni diventa nuovamente interessante. Esso mostra, infatti, la tortuosa costruzione dell’elemento “nemico” in contesti ideologici fortemente improntati alla nuova frontiera: i paesi comunisti e le lotte postcoloniali. Da questo punto di vista, dunque, nella costruzione della dinamica ideologica tra occidente e resto del mondo, l’Occidente si è riconosciuto sin da subito come il difensore dell’individuo sulla massa. Paradosso assoluto, se si considera che il capitalismo è proprio fondato sulla volontà di ricondurre i bisogni di ciascuno ai bisogni della produzione di massa. Si può dire, allora, che è proprio l’individuo ad essere al centro della contesa tra mondo “libero” e comunismo, la posta in gioco di tutte le forme conosciute di “guerra rivoluzionaria”.
Ma, allo stesso tempo, l’individuo non basta a garantire un’idea, un’ideologia. In altre parole, per avere qualcosa da difendere non basta avere un oggetto, ma serve una generale condizione che renda sensata la lotta anche quando gli individui siano salvi o ormai assenti. Quello che serve è la preservazione della difesa di un tessuto sociale, di una tradizione. L’Occidente secolarizzato lo ritrova in certi contesti della religione cristiana ma in modo troppo debole da costituire un faro generale (quasi tutti i paracadutisti non sono del tutto indifferenti alla religione, ma nessuno riesce a prenderla sul serio sino in fondo). Per questo la libertà diventa quell’elemento di valore che dovrebbe contraddistinguere l’Occidente in quanto tale.
Eppure anche questa libertà sembra troppo povera, ancora troppo priva di idee solide per garantirne la capacità motivante. Infatti la nozione stessa di libertà nella filosofia occidentale è nata prima in modo negativo (libertà come caos e assenza di regole, contraria all’ordine razionale da seguire – il logos), poi si è contrapposta alla coercizione in filosofia politica ma non in sede morale, laddove la libertà era semplicemente la relazione tra volontà e la realtà naturale (quando la nostra volontà non era contrastata dalla realtà naturale allora era libera). Con Immanuel Kant la libertà diventa un assunto fondamentale del soggetto morale. Ma in tutto questo la libertà diventa valore intrinseco solo quando ci si è resi conto che non si aveva molto altro per cui lottare in una società in cui tutti i valori morali sono stati dissolti e in cui la struttura sociale si fonda su una struttura economica che aggrega la massa su modelli di consumo di massa. Ed è da qui che nasce l’inquietudine dei centurioni e di tutti i loro successori: la difficoltà ad affrontare un nemico che non conosce limiti perché si contrappone ad essi ad un livello ideologico che loro non hanno o non sono in grado di elaborare e di cui hanno tremendamente bisogno (di questa tensione verso un senso ideologico absolutus si avverte la vibrazione in tutte le pagine del romanzo, come a sottolineare il fatto che la barbarie comunista si comprende proprio alla luce di quest’esigenza primordiale che è la ragione della lotta oltre alla lotta stessa).
I limiti del libro sono diversi, ma qui vale la pena di riportarne solamente alcuni. Sono tutti imputabili al fatto di essere un romanzo, perché la sua natura storica è proprio ciò che lo rende interessante. Infatti, da un punto di vista narrativo non c’è alcun appiglio per una analisi dei personaggi e delle vicende narrate che non sia immediatamente riferito alla natura stessa dell’evento contingente. In altre parole, il romanzo non consente di ritrovare l’elemento umano generale, universale ma solamente una serie di condizioni troppo legate al particolare concreto per essere simbolo di una condizione condivisa. Il fatto che la guerra sia un’esperienza unica e irripetibile non fornisce uno scudo a questa critica perché, al contrario, i contesti di guerra offrono un’ottima cornice per considerare i problemi della vita umana nel suo complesso (dall’Iliade in poi la guerra e i “fatti d’arme” di ariostesca memodia sono l’espediente narrativo per antonomasia per parlare di tutto il miserrimo genere umano).
In secondo luogo i personaggi sono spesso indistinguibili tra loro. Un lettore può fare addirittura fatica a ricordarsi delle personalità dei vari soldati, tanto sono essi omogenei. Anche se ci sono delle evidenti differenze, rimane che esse siano ancora una volta troppo concrete per differenziare modelli psicologici complessi e articolati. Un uomo non si distingue dagli altri per il colore dei vestiti e in un romanzo si richiede, in genere, che le differenze siano giocate su particolari profondi e caratterizzanti della psicologia piuttosto che di un generale habitus di comportamento di superficie. Questo è un punto da sottolineare, anche perché Larteguy spende circa 200 pagine su 500 nel raccontare il ritorno e le esperienze dei vari soldati in Francia, lasciando quindi intendere che è importante sapere cosa passava nella mente dei vari paracadutisti.
In fine, bisogna pur dirlo, può risultare difficile digerire il ruolo relegato all’elemento femminile, ché è complessivamente non soltanto distinto in modo vagamente deteriore, ma sin troppe volte considerato come sostanzialmente inferiore. Le mogli tradiscono, se non sul piano fisico (come nel caso della moglie di Marindelle) addirittura sul piano peggiore dei sentimenti e degli ideali (come la moglie di Glatigny). Esse sono in generale pronte a barattare la loro fede per un rapporto fisico (qualora siano di quelle rare ad avere una fede…), se non con le buone addirittura con le cattive (come il caso finale della ragazza membro del’Fln). Quando non sono attente alle mostrine dei soldati o a compiacerli fisicamente, esse passano il loro tempo a odiarsi a vicenda piuttosto che a organizzare serate a loro uso e consumo (come nel caso delle serate di gala in Algeria). In sostanza, le donne sono fedifraghe in senso stretto e in senso ampio. Non mantengono le promesse e sono anarchiche per natura, nella misura in cui non sono capaci di aiutarsi a vicenda (ad esempio la madre insulta la figlia chiamandola “puttana” perché si era concessa ad uno dei paracadutisti, prima che passi ad insultare le vicine di casa difendendo la figlia che almeno si faceva concupire da un colonnello…).
Per quanto si possa essere poco indulgenti con la razza umana e con la femmina degli esseri umani, e dato il fatto che la realtà è sempre prodiga nel garantirci nuove evidenze a suffragio di questa tesi vagamente pessimista, anche per una persona che può essere simpatetica con simili stereotipati modi di intendere la donna, risulta comunque una lettura talvolta impegnativa, in cui ogni principio di carità può venire meno. Il caso della donna Vietminh non solo è marginale ma è chiaramente un caso di inscenamento del senso di castrazione del comunismo contro ogni forma di bisogno individuale e, quindi, non risulta credibile come redenzione per un genere che ha contribuito a fare la storia, nelle sue misure e a suo modo. Tutto ciò può essere difficile da accettare, soprattutto dopo che neppure in un caso sembra potersi dare quella luce del riscatto che nel lettore farebbe sorgere il dubbio che almeno quel 10% di buono nel marciume generale sussiste. Quel poco di buono sufficiente a farci tirare tutti avanti in un mondo in cui il 90% è spazzatura. E invece no. E se forse si potrebbe obiettare che non è il mondo tutto, ma solo quello dei soldati, ad essere così, si può facilmente replicare che è proprio il mondo dei non soldati ad essere senza speranza (almeno sul versante del femminile). Giacché le pagine più dure non sono, a mio avviso, quelle delle torture e dei massacri, ma quelle in cui i soldati si scontrano con quella realtà quotidiana dipinta in modo da rendere insensate quelle torture semplicemente perché sembra che non ci sia niente da difendere. E il mondo dei soldati è tipicamente quello degli uomini, quello in cui soltanto i maschi hanno il diritto di combattere. Non per niente i soldati francesi sono soltanto uomini, mentre i Vietminh e i combattenti dell’Fln sono sia maschi che femmine. In altre parole, la donna è l’oggetto di difesa della purezza del proprio popolo (non per niente c’è un passo del libro in cui un membro dell’Fln dice che le donne francesi sarebbero state appositamente violentate per la bisogna…).
In definitiva si tratta di un romanzo interessante perché mostra i meccanismi profondi della “guerra rivoluzionaria” e della costruzione ideologica che ancora oggi ci portiamo dietro, nell’immagine collettiva secondo cui l’Occidente è il difensore della libertà e dell’individuo su ogni forma di società avversa alla libertà e all’individuo, qualsiasi cosa che “libertà” e “individuo” possano significare in una società in cui si tende, tipicamente, a voler imporre un mercato unico delle merci e delle idee. Alla fine dei conti, l’Occidente lotta per la sua civiltà, per la sua struttura formale sociale sacrificando gli individui. Il romanzo, allora, diventa una testimonianza importante sia per capire le dinamiche ideologiche, che propriamente le dinamiche fattuali, di uno dei più centrali periodi della nostra storia recente e, quindi, della nostra storia in generale.
Jean Larteguy
I centurioni
Mursia
Pagine: 519
Euro: 19,00.
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