2. L’evoluzione della morale
L’espressione ‘evoluzione umana’ può essere intesa principalmente in due sensi. Possiamo riferirci all’evoluzione ontogenetica, oggetto di studio della psicologia dello sviluppo, oppure possiamo riferirci all’evoluzione filogenetica, l’evoluzione della specie. Attraverso lo studio dell’infante, non solamente è possibile comprendere il punto di partenza dello sviluppo ontogenetico, ma è anche possibile individuare il punto di arrivo dell’evoluzione filogenetica. Studiare l’infante è per tanto indagare il precipitato più puro a nostra disposizione dell’evoluzione darwiniana della specie umana.
Nel tentativo, compiuto, di definire la morale, abbiamo accennato al fatto che essa è composta, come è evidente, tanto dagli aspetti relativi alla virtù quanto dagli aspetti relativi al vizio. Per secoli, in filosofia, si è dibattuto intorno al tema se l’uomo nasca e sia fondamentalmente buono o cattivo. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), ad esempio, ha notoriamente sostenuto che l’uomo nasce buono e, semmai, viene corrotto dall’educazione e dalla società, ovvero da ogni forma aggregativa che tradisca lo stato naturale in cui l’uomo esprimerebbe la sua bontà. Diversamente, Thomas Hobbes (1588-1679), non a caso obiettivo polemico di Rousseau, sosteneva la tesi rivale che l’uomo è per natura cattivo, egoista e violento, ed è la società ciò che, a certe condizioni, può contenere la sua naturale tendenza al male e alla sopraffazione dell’altro. Tutti ricorderanno le formule di Hobbes riguardo alla condizione dell’uomo prima dell’introduzione della contrattazione sociale, homo homini lupus e bellum omnium contra omnes. Ebbene, oggi, anche grazie allo studio di ciò che più si avvicina ad un ipotetico ‘uomo allo stato naturale’, ovvero l’infante, è possibile gettare uno sguardo in grado di chiarire e, almeno in parte, di far progredire l’antico dibattito attorno alle tendenze morali spontanee che più caratterizzano la natura umana.
Che l’uomo non sia solamente egoista e violento, ma che possieda, al contrario, una propensione naturale e spontanea ad aiutare il prossimo, è una tesi coerente con l’evidenza empirica raccolta nello studio condotto dagli psicologi Felix Warneken e Michael Tomasello (cfr. Warneken & Tomasello, 2006). Gli autori dello studio hanno cercato di supportare empiricamente l’ipotesi per cui l’essere umano è portato naturalmente a compiere atti di ‘altruismo genuino’, in altre parole, atti compiuti senza la prospettiva di una ricompensa personale e volti ad aiutare degli estranei a raggiungere i loro fini particolari. Sia i bambini di un anno e mezzo sia, anche se in misura meno accentuata, alcuni esemplari di scimpanzé hanno mostrato ciò che è stata poi interpretata essere una naturale tendenza all’altruismo. Il risultato sugli infanti, ulteriormente rinforzato dall’evidenza raccolta studiando il comportamento degli scimpanzé, è particolarmente interessante poiché si legge spesso che l’altruismo verso gli estranei o l’altruismo in generale è considerato un fenomeno difficilmente inquadrabile all’interno delle categorie esplicative della teoria dell’evoluzione darwiniana o delle teorie darwiniane.
Prima di considerare i risultati e i metodi dell’esperimento di Warneken e Tomasello, allora, sarà utile spiegare perché una tendenza naturale all’altruismo appare difficilmente spiegabile da un punto di vista evolutivo. La tesi da dimostrare è non soltanto che il tratto possieda una storia filogenetica ma, anche, che sia un adattamento, ovvero che il tratto abbia servito alla funzione generale di aumentare le possibilità di sopravvivenza del singolo individuo che lo possiede. La domanda a cui rispondere, per tanto, diventa in che modo la morale ma più in particolare quella sua parte che è il comportamento genuinamente altruistico hanno aumentato la probabilità di sopravvivenza dell’individuo o del gruppo? Notiamo che, qualche volta, si incontra il tentativo di spiegare l’evoluzione della morale per mezzo della dimostrazione del senso evolutivo ed adattivo dell’altruismo, tentativo che riduce l’intricata e complessa algebra morale ad una sua singola manifestazione, l’altruismo genuino. Tuttavia, spiegare l’evoluzione dell’altruismo non è ancora spiegare l’evoluzione della morale, sia pure l’altruismo una parte fondamentale del più complesso fenomeno morale.
In ogni caso, anche solo la questione dell’evoluzione dell’altruismo appare sufficientemente complessa da risolvere. L’apparente contraddizione da spiegare è che il comportamento altruistico, tratto pur evoluto, in termini biologici, non è altro che la diminuzione dell’adattamento (o fitness) di chi lo mette in atto e, per converso, l’aumento dell’adattamento altrui. Alcuni (Trivers, 1985), infatti, hanno definito l’atto altruistico come un atto che beneficia un organismo a spese dell’organismo altruistico, dove costi e benefici sono da intendere nei termini del successo riproduttivo. Un costo è dunque la diminuzione della probabilità di riprodurmi, mentre un beneficio è l’aumento della probabilità di riprodurmi. Come può trovare spiegazione l’emergenza, la sopravvivenza e la trasmissione di un tale tratto, se si assume che l’individuo sia, secondo la logica della selezione naturale, primariamente interessato al proprio adattamento e non a quello altrui? Quando diciamo ‘interessato’ non intendiamo attribuire all’individuo uno stato mentale preciso, una motivazione egoistica nel senso in cui siamo abituati a fare, ma semplicemente indicare quali sono le forze e le direzioni per mezzo delle quali la selezione naturale agisce in lui.
Una prima importante distinzione da trarre è quella tra due forme di comportamento altruista: l’altruismo diretto verso i consanguinei e l’altruismo diretto verso gli estranei. Se l’obiettivo non fosse tanto la sopravvivenza dell’individuo o dell’animale generalmente inteso, ma piuttosto la sopravvivenza del suo patrimonio genetico, allora sarebbe facilmente spiegabile, da un punto di vista evolutivo, il fenomeno dell’altruismo rivolto verso i parenti, e lo è. Poiché i consanguinei condividono i nostri geni, favorirli è comunque aumentare le probabilità di sopravvivenza dei propri geni e, diversamente, sfavorire i consanguinei implica la diminuzione della probabilità di sopravvivenza del proprio patrimonio genetico. In questo senso, la preservazione dei propri geni fornirebbe all’individuo una motivazione di tipo istintivo ad agire in modo altruistico verso i parenti, in altre parole chi, nel gruppo, ha una qualche possibilità di trasmettere i geni di famiglia a una prossima generazione. La sostanza è che il comportamento altruista dell’individuo può essere ridotto, senza particolari difficoltà concettuali, a un prodotto dell’egoismo dei geni. In questo modo, il problema dell’evoluzione dell’altruismo si risolve poiché non rimane il fenomeno stesso dell’altruismo genuino, che è ridotto ad una strategia egoistica e conservativa rivolta esclusivamente a raggiungere l’obiettivo della sopravvivenza del codice genetico di famiglia.
Fin qui, dunque, non c’è nulla di particolarmente complesso da ricondurre alle categorie concettuali della sopravvivenza del più adatto. Sappiamo bene, però, che oltre all’altruismo verso i consanguinei esiste la possibilità di comportarsi in maniera genuinamente altruistica anche verso degli estranei, in altre parole verso degli individui che non portano con loro e trasmettono i nostri stessi geni. Perché aiutare questi individui? Che senso avrebbe da un punto di vista evolutivo? Quale vantaggio porterebbe all’individuo altruistico?
Una prima soluzione del puzzle potrebbe essere quella di parlare di altruismo reciproco. In altri termini, l’organismo si comporta in maniera altruistica verso un secondo organismo nell’aspettativa di essere ricambiato o nell’immediato oppure in uno scambio futuro con lo stesso soggetto aiutato o con un terzo soggetto testimone diretto o indiretto dell’atto altruistico. Tuttavia, se ci atteniamo strettamente alla definizione di altruismo come atto che prevede una perdita personale, diventa curioso spiegare l’altruismo con l’attesa di un contraccambio che faccia recuperare le perdite all’organismo altruista. Infatti, nel caso in cui ci fosse una reciprocità appropriata, non parleremo più di altruismo genuino, di costi sostenuti dall’uno a beneficio dell’altro, ma parleremo piuttosto di una logica di scambio, dove chi reca benefici deve essere a sua volta adeguatamente beneficiato.
Una seconda soluzione esplicativa potrebbe essere quella di spostare l’attenzione dall’individuo verso il gruppo, dalla selezione a livello degli individui alla selezione a livello dei gruppi. L’individuo ha maggiori probabilità di riprodursi se inserito in un gruppo, e il gruppo ha maggiore probabilità di resistere nel tempo rispetto ad altri gruppi se al suo interno si sviluppano la coordinazione e la cooperazione reciproca. Non è più solamente l’individuo a dover essere adatto all’ambiente, ma è il gruppo a formare l’unità di analisi cui applicare le regole della selezione naturale. Un esempio di comportamento altruista nei confronti del gruppo intero, composto di parenti e non, potrebbe essere quello di chi ricopre il ruolo di guardiano mentre il resto del gruppo si sfama. Un tale comportamento è chiaramente altruistico poiché espone il singolo individuo ai pericoli correlati all’attività di guardia e aumenta il successo riproduttivo dell’intero gruppo.
Questa direzione di ragionamento sembrerebbe essere stata sviluppata dalla iniziale riflessione di Charles Darwin il quale, nell’Origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), dedica alcune pagine al problema dell’evoluzione della morale. Dopo aver rimarcato l’impressione che il senso morale sia la differenza più importante tra l’uomo e gli animali inferiori, Darwin aggiunge l’innovativo suggerimento di accostare il problema dell’origine del senso morale dalla parte della storia naturale.
Oggi, forse, può sembrare scontato o comunque non particolarmente sorprendente voler ricercare le origini evolutive del nostro senso morale, eppure nel bel mezzo dell’epoca vittoriana, in cui Darwin gradualmente proponeva e diffondeva le sue idee, ragionare in termini evolutivi, in particolare su un tema complesso e delicato come quello della morale, non era affatto scontato. D’altra parte, non sembrano esserci precedenti chiari nella storia del pensiero di una visione evoluzionistica legata a diverse tesi innovative, tra cui la più centrale è forse quella che l’evoluzione proceda secondo la legge della selezione naturale. Anche se, ma diversamente, alcuni pensatori, come Giambattista Vico (Scienza Nuova) in Italia e poi Hegel (in particolare con la Fenomenologia dello Spirito) avevano già introdotto la novità di un pensiero storico regolato da una logica interna.
In ogni caso, le tesi di Darwin, e il suo tentativo di ricercare nella storia filogenetica dell’uomo l’origine e il senso della morale, ancora circa settant’anni dopo la pubblicazione dell’Origine dell’uomo e la selezione sessuale, in un clima culturale filosofico diviso, almeno in Italia, tra idealismo e materialismo, impegnato nel dibattito natura o cultura, oggi fortunatamente quasi superato, incontravano il profondo imbarazzo di uno dei maggiori filosofi italiani del tempo, l’idealista Benedetto Croce, il quale, sulle pagine de La Critica, scriveva parole degne di essere citate per la percezione di stranezza che procurano alla maggior parte dei lettori odierni:
Tutte queste teorie [sull’origine dell’uomo dall’animale inferiore] non solo non vivificano l’intelletto ma mortificano l’animo, il quale alla storia chiede la nobile visione delle lotte umane e un nuovo alimento all’entusiasmo morale, e riceve invece l’immagine di fantastiche origini animalesche e meccaniche dell’umanità, e con esse un senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna a ritrovarci noi discendenti da quegli antenati e sostanzialmente a loro simili, nonostante le illusioni e le ipocrisie della civiltà, brutali come loro. Non così verso gli antenati che ci assegna il Vico i quali hanno in fondo al cuore una favilla divina, e Dio temono, e a lui pongono are [preghiere], per lui sentono svegliarsi il pudore e fondano i matrimoni e le famiglie e seppelliscono i morti corpi, e per quella favilla divina creano il linguaggio e la poesia e la prima scienza che è il mito. In questo modo la preistoria, dove accade che sia innalzata veramente a storia, ci mantiene dentro l’umanità e non ci fa ricascare nel naturalismo e nel materialismo. (La Critica, 1937).
Se questo è il pensiero di un uomo che scriveva a settant’anni dall’uscita del libro di Darwin, possiamo immaginarci le reazioni dei pensatori coevi al naturalista inglese. D’altra parte, ancora oggi, una certa sottocultura, la cui voce ci giunge forte, anche se un po’ stonata, soprattutto dagli Stati Uniti, è profondamente convinta dell’erroneità della teoria di Darwin e, quel che forse è peggio, è invece convinta della veridicità delle indicazioni sull’origine del mondo e dell’uomo che si possono trovare riportate nel Libro Sacro (tanto da arrivare a pensare che i fossili degli animali preistorici siano stati disseminati dalla mano di Dio per mettere a prova la resistenza della nostra fede in Lui e nella Sua parola sacra).
In ogni caso, Darwin, lasciando la questione aperta poiché solo brevemente affrontata, affermava la possibilità di accostare il problema dello sviluppo del senso morale solamente dal punto di vista della teoria della selezione naturale. Secondo Darwin:
qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben marcati, compresi quelli verso i genitori e i figli, acquisterebbe inevitabilmente un senso morale o una coscienza, non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti tanto sviluppati, o quasi altrettanto che nell’uomo. (L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, p. 90).
L’opinione di Darwin, dunque, è che la morale sia un attributo dell’uomo determinato naturalmente e non semplicemente una convenzione culturale. Il senso morale si svilupperebbe necessariamente nell’animale una volta che questo abbia acquisito un forte istinto sociale cooperativo, da una parte, e un’intelligenza di tipo superiore, dall’altra. Il fondamento del senso morale, dunque, è individuato, almeno in parte, nell’altruismo. Ma come si spiega l’evoluzione dell’altruismo? Sicuramente l’altruismo porta beneficio al gruppo, poiché i più bisognosi riescono a sopravvivere accanto ai meno bisognosi, e la coesione del gruppo aumenta, rendendolo più forte ad affrontare la pressione dell’ambiente naturale circostante ed eventualmente la pressione di gruppi rivali, tuttavia non dobbiamo dimenticare che l’altruismo porta beneficio al gruppo a spese del singolo individuo.
Lo spostamento dell’attenzione dal beneficio dell’individuo al beneficio dell’intero gruppo di appartenenza, in ogni caso, ha un senso apparente, e, però, apre il fianco alla critica di chi chiede di spiegare come mai gli individui, in una situazione dove il beneficio collettivo prevede che buona parte degli individui appartenenti al gruppo, ma non necessariamente tutti, collaborino e cooperino, non scelgano di agire egoisticamente sfruttando le risorse collettive, evitando di dare il proprio contributo. Da un punto di vista evolutivo, secondo alcuni, questa sarebbe la soluzione o strategia migliore, poiché aumenterebbe il vantaggio riproduttivo del singolo, il quale avrebbe benefici senza pagare i costi tipicamente associati all’ottenimento delle risorse.
Una risposta all’obiezione può venire dallo spostare l’attenzione completamente verso il gruppo. In altre parole, se pensiamo che la selezione naturale operi a livello del gruppo e non al livello dell’individuo, opinione ampiamente dibattuta all’interno della psicologia evoluzionistica e, dunque, controversa, allora possiamo spiegare il successo evolutivo dei gruppi cooperativi facendo riferimento alla loro maggiore efficienza e alla loro capacità di sconfiggere i gruppi composti da individui meno cooperativi ed altruisti. I gruppi che, in questo modo, faciliterebbero forme di aggregazione che prevedono il mutuo soccorso e l’altruismo genuino, raggiungerebbero un livello di adattabilità al contesto maggiore della somma dei potenziali adattivi di ogni membro del gruppo. I singoli individui beneficerebbero di questa situazione poiché il gruppo riuscirebbe ad avere la meglio sull’ambiente e sui gruppi rivali. Nel caso in cui, invece, non si voglia uscire dalla concezione che la selezione naturale operi a livello dell’individuo, possiamo affermare che il comportamento altruista è incoraggiato mentre il comportamento egoista e predatorio è scoraggiato da un sistema di punizioni e ricompense. L’individuo altruista sarebbe portato a punire chi sfrutta il gruppo, chi non ricompensa sistematicamente, o chi fa il furbo. L’instaurazione di un sistema di controllo interno al gruppo, dunque, renderebbe troppo costoso il tentativo di sfruttare il lavoro collettivo. Tuttavia, questa spiegazione sembra solamente spostare il problema. Che vantaggio riproduttivo darebbe all’individuo altruista caricarsi pure del compito di punire l’individuo sfruttatore? Come si spiega l’ulteriore atto di altruismo che consiste nel punire a proprie spese, ad esempio rischiando la propria vita nel tentativo di colpire l’individuo sfruttatore?
Questi e altri problemi esplicativi rendono la questione dell’evoluzione dell’altruismo difficile da risolvere. Per questo alcuni pensatori hanno suggerito che l’uomo non possieda affatto una naturale predisposizione ad aiutare un estraneo con la prospettiva di non essere ricambiato. Il tentativo di spiegare l’evoluzione di un comportamento apparentemente in grado di diminuire solamente la sopravvivenza del singolo, sarebbe così vano poiché un tale comportamento non esiste affatto, in altre parole si tratterebbe di abbaglio teorico.
Eppure, la psicologia dello sviluppo ci permette di gettare un poco di luce su questo spinoso problema. Abbiamo detto che lo studio di Warneken e Tomasello riporta dell’evidenza empirica poi interpretata dagli autori stessi come a favore della presenza nell’uomo di una tendenza naturale ed evoluta ad aiutare l’estraneo in senso genuinamente altruistico. Forse Rousseau, allora, non aveva tutti i torti quando insisteva sulla bontà delle tendenze naturali dell’essere umano, e forse Hobbes esagerava i toni nel descrivere l’uomo, sempre considerato nello stato di natura, come un lupo tra i lupi, incapace di qualsiasi forma di aiuto disinteressato.
Il risultato dello studio di Warneken e Tomasello è che i bambini, già a 18 mesi, aiutano spontaneamente un estraneo a raggiungere il suo obiettivo, in una serie di situazioni differenti e con tutta probabilità nuove per il bambino. Anche se con una frequenza minore, i tre esemplari di scimpanzé adulti studiati hanno mostrato la stessa propensione dei bambini. Secondo gli autori il compito di aiuto proposto richiedeva da una parte la capacità cognitiva di comprendere l’obiettivo altrui, quindi una lettura dello stato mentale altrui, e dall’altra una genuina motivazione altruistica. Capacità di comprensione e motivazione altruistica le quali sembrerebbero essere aspetti fondamentali ed entrambi evoluti nella nostra specie. Questi due aspetti, infatti, sono posseduti in qualche misura anche dalle scimmie – e sarebbe appropriato dire ‘da altre scimmie’, poiché l’uomo è, di fatto, una scimmia. Infatti, con la parola ‘scimmia’ ci riferisce propriamente agli animali classificati sotto l’ordine dei Primati, appartenente a sua volta alla classe dei mammiferi. Tra le diverse specie appartenenti all’ordine dei Primati vi sono quelle degli ominidi: scimpanzé, uomo e bonobo.
Studiare anche altre scimmie oltre all’uomo, allora, è un ottimo modo per avvicinarsi alla comprensione dei fondamenti della natura umana prodotti dal processo evolutivo. Uno dei più noti primatologi americani, Francis De Waal, ha dedicato particolare attenzione allo studio dei bonobo, i primati che più assomigliano all’uomo sotto il profilo della tendenza alla cooperazione e all’altruismo. Egli è arrivato alla conclusione che anche questi primati possiedono qualcosa come un insieme primitivo di sentimenti morali, una ‘morale’ rudimentale composta da istinti sociali altruistici e compassionevoli, e da un senso primitivo della giustizia. Con una serie di studi, De Waal e colleghi hanno dimostrato che soprattutto primati non umani, tra cui scimpanzé e cebi cappuccini, ma anche altri mammiferi come cani ed elefanti, hanno una forte avversione all’iniquità (soprattutto quando sono loro ad essere trattati in maniera ingiusta o ineguale agli altri), sono solidali, altruistici e compassionevoli gli uni con gli altri. Più degli scimpanzé, tristemente noti anche per la loro aggressività, i bonobo rappresentano una finestra da cui osservare la probabile fenomenologia primitiva che ha costituito l’origine e che costituisce, oggi, il fondamento biologico del nostro comportamento morale. Se questo fosse vero, come d’altra parte argomenta lo stesso De Waal nel suo libro intitolato Il bonobo e l’ateo, non sarebbe affatto necessario concepire la morale come fondata nel concetto e nell’esistenza di Dio, e sarebbe possibile, anche in assenza di Dio, dar conto dell’esistenza, della provenienza, della natura e dello sviluppo filogenetico della nostra morale.
La conclusione a cui porta lo studio di Warneken e Tomasello è, quindi, condivisa da altre indagini condotte sui primati. Ora ne descriveremo e analizzeremo il metodo. In un articolo la parte dedicata ai metodi è di fondamentale importanza e, spesso, va letta con la massima attenzione. In essa si trova la descrizione della procedura sperimentale e la specificazione di cosa viene misurato e come viene misurato. Chiarire come viene misurato un fenomeno è essenziale, in psicologia, per capire la natura del fenomeno indagato. Comprendere da quale punto di vista viene osservato un certo fenomeno permette, innanzitutto, di non farsi illusioni sull’oggetto della ricerca e sulla rilevanza dello studio per i nostri scopi di lettori. Molto spesso, in psicologia, capire come si misura un certo fenomeno è capire quale aspetto di quel fenomeno si sta osservando. Quasi mai l’oggetto della ricerca è un semplice aspetto della natura o della mente umana, e non di rado è necessario un lavoro concettuale per individuarne i contorni e distinguerlo da aspetti simili ma pur sempre differenti.
Nello studio condotto da Warneken e Tomasello i bambini venivano coinvolti come spettatori in dieci diverse situazioni nelle quali un adulto a loro estraneo non riusciva a raggiungere il proprio semplice obiettivo. L’adulto estraneo, ovvero lo sperimentatore, poteva simulare, ad esempio, di incontrare delle difficoltà nel raccogliere una penna caduta a terra oppure nell’aprire un armadio con l’intenzione di riporre la pila di libri tenuta tra le braccia. Dopodiché, lo sperimentatore osservava per qualche secondo l’oggetto da raggiungere o la fonte dell’impedimento, per poi, eventualmente, alternare lo sguardo tra l’oggetto e il bambino e, semmai, sottolineare il proprio problema con una breve formula del tipo ‘la mia penna’. In ogni caso, al bambino non veniva esplicitamente chiesto un aiuto e nemmeno il bambino veniva motivato ad agire con la promessa di premi o punizioni.
Il comportamento di risposta del bambino veniva registrato per mezzo di una videocamera e, successivamente, codificato come comportamento di aiuto nel caso in cui il bambino si fosse, appunto, prodigato per aiutare l’adulto. Inoltre, sono stati calcolati i secondi necessari al bambino per intraprendere l’azione altruistica.
Nella stragrande maggioranza degli studi sugli infanti, ma in generale negli studi di psicologia sperimentale, accanto alla misura o condizione sperimentale, chi progetta l’esperimento prevede di inserire anche una misura o condizione di controllo. Il compito di controllo, in questo e in altri casi, serve per assicurarsi che l’effetto indagato sia causato proprio dalla variabile di interesse e non da altre variabili intervenienti, poco o meno interessanti. Ovviamente, non è possibile controllare per l’effetto di tutte le possibili variabili intervenienti, e, tuttavia, è necessario controllare almeno per quelle su cui si nutre il maggior sospetto di possibilità di intervento. Nello studio in esame, per ogni situazione volta a misurare il comportamento altruistico è stata creata una situazione del tutto simile, tranne che per la presenza dell’elemento di problematicità percepita da parte dell’attore adulto. In sostanza, nelle situazioni di controllo, lo sperimentatore non dava al bambino alcun segnale di essere impedito nel raggiungimento di un fine. Ad esempio, lo sperimentatore lanciava di proposito la matita a terra. La misura di controllo è stata introdotta per assicurarsi che il bambino, invece che motivato genuinamente ad aiutare il prossimo, non fosse più semplicemente motivato a ripristinare la situazione di partenza o interessato nella ripetizione del comportamento precedentemente osservato.
Costruire progetti sperimentali intelligenti, con misure di controllo rilevanti, in grado di eliminare alcune ipotesi esplicative alternative ma non teoricamente interessanti o, invece, interessanti, è un compito delicato che richiede la massima cura. Ciò vale tanto più negli studi come quello che presentiamo, che utilizzano il metodo dell’osservazione comportamentale. È fin troppo chiaro che uno stesso comportamento può originare da diverse motivazioni. Eppure, lo psicologo sperimentale non è interessato alla semplice descrizione dell’atto fisico, ma, piuttosto, alla descrizione e spiegazione di un comportamento guidato da una decisione cognitiva e da una motivazione, da una credenza, da un desiderio e così via. Anche se non dobbiamo dimenticare che attraverso l’osservazione comportamentale lo sperimentatore è interessato perlopiù a descrivere e meno a spiegare (ad es. lo sperimentatore non risponde alla domanda perché l’altruismo).
Ci sono altri aspetti metodologici, più generali ed elementari, che meritano un accenno. Innanzitutto, possiamo individuare la variabile dipendente o le variabili dipendenti e la variabile indipendente (nel caso di un disegno monofattoriale) o le variabili indipendenti (nel caso di un disegno multifattoriale). La variabile dipendente è la nostra misura e, come dice la parola, è l’effetto che dipende causalmente dalla variabile indipendente. La variabile indipendente può spiegare e/o causare l’assunzione di un certo valore della variabile dipendente.
Le variabili devono assumere almeno due valori. Nello studio in esame, condotto per mezzo dell’osservazione comportamentale, la variabile dipendente è il comportamento, attivo d’aiuto o passivo, mentre la variabile indipendente è la presenza o l’assenza di un attore che è in visibile difficoltà nel raggiungimento del proprio fine.
Poiché metà del campione totale dei bambini era coinvolta in alcune situazioni nelle quali lo sperimentatore mostrava l’intenzione di raggiungere un obiettivo e l’altra metà era coinvolta, invece, in una parte delle situazioni speculari di controllo nelle quali lo sperimentatore non mostrava alcuna intenzione irrisolta, possiamo concludere che si tratti di un disegno tra i soggetti. In altre parole, nel momento in cui io sono interessato a comparare il comportamento del bimbo analizzando tutte le situazioni sperimentali con il comportamento degli infanti in tutte le situazioni di controllo, devo paragonare tra loro comportamenti messi in atto da bambini diversi.
La variabile indipendente di uno studio ha più livelli, almeno due. Quando ogni gruppo non è sottoposto a tutti i livelli (condizioni), o, alternativamente, nel caso in cui ci fossero due livelli, almeno un gruppo è sottoposto a un solo livello, allora abbiamo un disegno sperimentale chiamato tra i soggetti o tra i gruppi. Viceversa, quando ogni gruppo è sottoposto a tutti i livelli della variabile indipendente, a tutte le condizioni dell’esperimento, allora abbiamo un disegno entro i soggetti o entro i gruppi, o anche detto a misure ripetute. In quest’ultimo caso, non si confronteranno tra loro risposte date da persone differenti, ma le risposte a diversi stimoli che una stessa persona ha dato.
Un suggerimento metodologico che possiamo trarre dallo studio di Warneken e Tomasello è relativo al controbilanciamento. Con questo termine si intende una misura di controllo sperimentale dei possibili effetti di ordine e sequenza delle condizioni o degli stimoli presentati. Le prove a cui è sottoposto il bambino possono influenzarsi in modo sistematico, pertanto è necessario controllare che non si verifichino questi effetti di influenza. Il controbilanciamento consiste nel bilanciare l’ordine delle condizioni sperimentali. Se, ad esempio, in uno studio con due condizioni presentiamo a metà soggetti una condizione per prima, dovremmo presentarla all’altra metà dei soggetti come seconda. In questo modo assicuriamo la possibilità di verificare che non ci siano effetti indesiderati dovuti ad un certo ordine di presentazione degli stimoli piuttosto che ad un altro. Il controbilanciamento permette anche di ovviare a possibili effetti non voluti di apprendimento. Un accorgimento differente, anche se simile, è chiamato randomizzazione. In questo caso le condizioni o gli stimoli vengono presentati ad ogni soggetto in un ordine casuale sempre diverso. Nello studio di Warneken e Tomasello, ogni bambino era osservato in cinque situazioni nella loro versione sperimentale e in cinque diverse situazioni nella loro versione di controllo, controbilanciando per l’ordine di presentazione della situazione.
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