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Scopri Filosofia e letteratura di Chiara Cozzi
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è un romanzo di Carlo Emilio Gadda uscito a puntate su una rivista letteraria ma edito in unico volume solo nel 1957 dalla Garzanti. Si tratta indubbiamente di uno dei massimi capolavori in lingua italiana della storia della letteratura da Dante al XXI secolo, difficile trovare paragoni in opere letterarie precedenti e successive, se non altro per densità, precisione, profondità e grandezza.
La trama del romanzo è apparentemente ispirata alla cronaca nera, pervasa da una vena quasi giallistica in cui il latrocinio di una ricca vedova (tal contessa Menegazzi) è il prodromo per il delitto quintessenziale della “donna” per eccellenza, Liliana in Balducci, amica e lontana cugina del protagonista Don Ciccio Ingravallo, ispettore di polizia molisano trapiantato a Roma, esule integrato quanto estraneo nella capitale italiana. Perché tutti siamo integrati ed estranei con la realtà che ci circonda, una delle possibili interpretazioni ultime del romanzo.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana si apre a casa di Liliana Balducci e marito in cui, insieme a Don Ciccio, cenano tranquilli. Sin da subito Liliana viene presentata come una donna buona e pacata, e dalla bellezza viva e non appassita. Questo alza su immediatamente il problema dell’assenza di una giovane prole che la sgravasse, una volta anch’essa sgravata, dalla solitudine alla quale, s’intuiva, doveva esserle consona. Don Ciccio ne aveva inferito la logica conclusione dall’osservazione, invero assai acuta, del fatto che Liliana amava circondarsi di giovinette che le tenessero compagnia. In genere si trattava di lontane parenti ma per Don Ciccio non erano altro che il surrogato di quella figlia, di quella prole, che evidentemente e fatalmente non era arrivata… Questo quadrava con i conti, del resto fatti, che le figure femminili giovini rimanevano in casa Balducci sino a che non prendevano il largo, ora per un fidanzato ora per un fugace tradimento di intenti rispetto alle pie necessità della buona Liliana. La povera Liliana Balducci aveva fatto silente breccia nel cuore di Ingravallo, single esacerbato dall’invidia istintiva ed irriflessa per i giovani ragazzi più capaci di lui. Di uno in particolare, essendo uno dei protetti della Liliana, proprio perché parente di quel sangue così fecondo in lei presente e così sciupato. Si trattava di quel signorino Giuliano su cui Ingravallo si trovò a fare la seguente riflessione:
Un bel ragazzo, er signorino Giuliano, dellà: piuttosto fortunato co le donne. Piuttosto. Già. Che lo perseguivano a sciami, a volo radente: e gli precipitavano poi addosso tutte insieme e in picchiata, come tante mosche sur miele. Lui sapeva puranche fare: ci aveva un bìndolo, uno specchieto a rota, un suo modo così naturale e così strano ar medesimo tempo… che te le incantava co gnente. Dava a divedere de trascuralle, o di sentirsene magari annoiato: troppe, troppo facili! d’aver sottomano ben altro. Faceva er maschietto tosto, o er tu-mi-stufi, certe volte, o er superbioso; o er signorino de casa de famija scerta der generone de via de li Banchi Vecchi: o l’uomo d’affari, che nun cià tempo de stà a discorre. Siconno. Così. Come je va girava. Intonato ar vestito che ciaveva addosso. Come je veniva l’ispirazione del momento. (…) Era allora proprio che loro s’ammattiveno. Si concedeva dopo lungo reluttare o dopo interminato anelare e basire dela vittima, strascicandone l’estuoso abbandono o sfibrandone la indocilità renitente mediante una erogazione di pseudo-sintomi (in realtà suggerimenti) alternati a contrasto, a sì e no. M’ama nun m’ama. Te vojo nun te vojo. E comunque alle predestinate e rare, e con arcana deliberata elette, si concedeva: come la Salute Eterna in Giansenio. (…) Là, propio, dove ognuno aveva voltato altrove l’oroscopio. Zàn! Lasciandosi cadere a piombo alla maniera del nibbio sulla più contumace di tutto il gallinaio: quasi a punirla (o a rimeritarla) con quel fulgurante diavolio: a riscattarla da una debilità recondita nel di lei essere, da una ignominia… anteriore a quella prelazione magnificatrice. In tal senso la gratitudine della magnificata poteva salire a le stelle: e la paura, o fosse magara la speranza, del bis.[1]
Il palazzo di via Merulana era abitato per lo più da “pescicani”, cioè da uomini variamente importanti o ricchi di famiglia, di cui tanto i Balducci che la Menegazzi erano degli ottimi esponenti. E nonostante tutto, c’era chi viveva solo e senza amore e affetto. A partire, appunto, dalla Menegazzi che dietro agli spasimi e alle lacrime, lascia intendere durante l’interrogatorio poliziesco post latrocinio che il vero delitto, quello più importante, non era stato compiuto (benché del tutto auspicato, secondo la vivida impressione di Ingravallo). Se il furto alla Menegazzi fu il principio, il delitto di Liliana è la chiave di volta per un mondo, per un viaggio nell’oscurità, nei recessi della femminilità. Infatti, tutti sapevano che Liliana era, per quanto proba e pia, ossessionata (addirittura) dalla necessità di avere della prole che infallibilmente non arrivava. Motivo per il quale Ingravallo e i poliziotti incominciano a tracciare le infinite e tormentate relazioni che la Balducci intratteneva con i parenti che avrebbero potuto aiutarla a sanare questa sua necessità, dovuta ad un matrimonio positivo per la sistemazione e i denari (il signor Balducci, dal canto suo, era un brav’uomo, un onesto compagno nella solitudine di una casa troppo grande per il cuore di una donna fertile come quello di Liliana).
Da questa duplice situazione di cronaca nera, ambientata al periodo del fascismo, cioè quando la cronaca nera era bandita dai giornali e si credeva, per ciò, che non esistesse, è l’inizio, come si diceva, per la discesa nel mondo della femminilità nelle sue varie forme e dalla prosperità alla povertà. I personaggi che i poliziotti incontrano ricoprono lo spettro della femminilità in quanto tale: madri, mogli, amiche, maghe, servette, inservienti… La loro condizione si gioca continuamente tra la ricerca dell’uomo, quasi sempre frustrata o frustrante, e la conquista di una situazione economica che le salvasse dalla precarietà. Gioia di vivere insieme con la costante sensazione di non poterla mai abbracciare per intero. Perché per la donna (almeno così nel romanzo) non c’è mai la condizione piena di felicità dell’esser-femmina congiunta ad una situazione complessiva di soddisfazione. Infatti, Liliana Balducci è una donna bella e ricca (due attributi importanti) ma prona alla schiavitù dell’infertilità. E quindi della solitudine. Mentre la Menegazzi, anch’essa agiata, è vedova e circondata da una solitudine a tal punto solenne dal farle travisare e sussultare per ogni “scricchiolio” dei mobili. Per giungere fino alle tre ragazze che si incontrano nella fase finale del romanzo, la cui solitudine e povertà le colloca al ramo più basso della condizione umana. La figura femminile, infatti, domina in un romanzo la cui complessità ricrea l’intera gamma delle condizioni umane, dalle più felici alle più infelici, e in cui la verità ultima è probabilmente introvabile, come la soluzione all’ipotesi di Riemann:
Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceno della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei “suoi” delitti. “Quanno me chiameno!… Già. Si mechiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliommero… de sberretà…” diceva, contaminando napolitano, molisano e italiano.[2]
In questo passo centrale, oltre ad osservare la tipica prosa gaddiana anche se non spinta al suo più profondo stato sperimentale, si nota la presenza del rifiuto della categoria causale come di un monolito (oltre ad una conoscenza non trascurabile della filosofia che passa da Aristotele, tange in quella celebre “vecchia opinione” le Meditazioni metafisiche di Cartesio e giunge fino a Kant). Ed è in questo passo (casualmente posato al principio dell’opera) che si dischiude una delle chiavi di lettura del romanzo stesso: non c’è una causa unica per un unico fatto, ma una molteplicità di situazioni che determinano tutte concomitanti un grande (o piccolo) evento. Come una valanga è il risultato di una somma quasi infinita di molecole d’acqua in stato solido che complessivamente prendono la forma di una grossa palla, così il delitto di via Merulana diventa un insieme di luci alternative scomposte dalla spettrometria di massa dell’intelletto dei poliziotti di cui Ingravallo e il dottor Fumi sono senz’altro gli alfieri. Rimane, però, la sensazione che se la soluzione è presente, essa è ben celata all’interno della natura umana la quale prende forma di uomo o donna in base alle circostanze.
Ma, come si diceva, se il mondo maschile risulta essere assai povero e lineare, per quanto produttivo in talune circostanze, è il mondo femminile che risulta essere uno “gliommero” da dipanare. Ed è per questo che una volta tolti i due indiziati maschili principali (il solitario dottor Angeloni e il giovane parente della Liliana), il resto del romanzo si dedica alle figure femminili, tutte variamente ellittiche perché descritte in possesso di due fuochi attorno a cui ruota la loro personalità: il bisogno di generare la vita (primo fuoco) e la necessità di trovare un compromesso per una sistemazione sostenibile in un mondo sostanzialmente al maschile (secondo fuoco, che poi si lega al primo).
Lo “gnommero” femminile è diverso da quello maschile, in cui una linea è diretta verso il possesso e consumo immediato della femmina e poi anche basta: la femmina ha bisogno del conforto, dell’attenzione ma anche della potenza generatrice del maschio. E quando una di queste tre condizioni viene meno (ne basta anche solo una) ecco che la miseria della condizione umana al femminile sorge potente dalle viscere della sua stessa natura. Così Ingravallo fotografa mentalmente la condizione al femminile nel suo cervello poliziesco al maschile assistito dalla sua nerissima parrucca nerissima d’astrakan:
La personalità femminile – brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso – ve vvulive dì?… ‘a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii, in tanto si distingue dalla maschile, in quanto l’attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello d’ ‘a femmena, si manifesta in apprendimento, e in un rifacimento, d’ ‘o ragionamento dell’elemento maschile, si putimme chiarmarle ragionamente, o addirittura in una riedizione ecolalica delle parole messe in circolo dall’uomo ch’essa ci ha rispetto: da ‘o professore, da ‘o commendatore, da ‘o dottore de ‘e femmene, da l’avvucate ‘e lusso, o da chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge [Mussolini]. La moralità-individualità della donna si rivolge per addensamenti e per coaguli affettivi al marito, o al facente funzione, e dai labbri dell’idolo dispiccica l’oracolo quotidiano della sottintesa ammonizione: ché uomo non è, che non si senta Apollo nel sacello delfico. La qualità eminentemente ecolalica della di lei amnima (il concilio di Magonza, nel 589, le concesse un’anima: a un voto di maggioranza) la induce a soavemente farfallare d’attorno al perno del coniugio: plastile cera, chiede dal sigillo l’impronta: al marito il verbo e l’affetto, l’ethos e il pathos. Donde, cioè dal marito, il lento e greve maturare, il discendere doglioso dei figli. Mancandole i figli, sentenziò Ingravalo, il marito cinquantottenne decade senza suo demerito a buon amico ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili, a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere (nel di lei apprendimento inconscio) è degradato a pupazzo: un animale infruttifero, con testone finto da carnevale. Un arnese che non serve: uno sdipanato succhiello.[3]
In questo passo si trova tutta la profondità de Quer pasticciaccio… in cui la cultura gaddiana spazia dall’esibizione di una conoscenza della terminologia scientifica (“attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello…”), alla conoscenza della storia (il concilio di Magonza del 589) piuttosto che alla conoscenza della cultura classica (“ché l’uomo non si senta Apollo nel sacello delfico”). In questo senso, lo “gliommero” non è solamente una faccenda di “riconsiderazione della categoria causale” quanto anche la ricostruzione di una lingua, quella italiana, che è un magma infinito, un continuum che ha come limite a cui tende la letteratura colta che, invero, rientra poco e raramente nello stile gaddiano (anche se non esclude neppure un crudo realismo: si pensi alla descrizione della trachea tranciata della povera Liliana), perché la parlata dell’italiano medio è, appunto, uno “gnommero don cicciano”.
In questa triplice matassa inestricabile di fili che giungono dalla lingua per passare alla condizione della natura femminile e terminare alla generale situazione umana, la storia (l’insieme dei fatti dell’umanità) assume un contorno impalpabile, per quanto rientra all’interno della realtà solamente in quanto il potere si intromette sempre (e assai malamente) all’interno delle vicissitudini umane, aumentando, ancora una volta, il complessivo stato di confusione, di entropia che già è definitivamente parte della realtà (se non proprio della natura) umana.
Siamo di fronte ad un vero capolavoro assoluto della storia della letteratura, una gemma che va incastonata nella non infinita produzione di grandi opere estetiche dalla genesi del mondo (invero assai lontana e che determina una quantità di opere nel rapporto con lo spazio tempo assai ingenerosa per il poco quantitativo umano, anche quando lo si restringa a quei famosi 100.000 anni di cui non abbiamo ancora saputo bene che farcene). La grandezza dell’opera di Gadda è di tale levatura da essere riproponibile sotto molti aspetti concomitanti e differenti. Non fosse altro per la straordinaria levatura linguistica, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana assurge a monumento esemplare dell’alta letteratura italiana. Senza considerare il dolce sarcasmo di un uomo che cerca e setaccia le cose umane (maschili e femminili in questo forte senso distintivo del sesso nelle umane cose) per rintracciare sempre una delle infiniti cause concomitanti che se non scusano del tutto la miseria dell’umanità, almeno le danno una parvenza di accettabilità nella dimensione mediocre e assolutamente minuta nella dimensione esistenziale e estetica. Perché se è vero che il mondo di Gadda è così simile a quello reale da essere talvolta sconcertante, talvolta quasi inaccettabile, è anche vero che egli fornisce una via di redenzione. La via della grande estetica italiana che dovrebbe renderci tutti orgogliosi di pensare di far parte di questo paese che è il simbolo di quella grande mediocrità che è propria di tutta l’umanità.
Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Garzanti
Euro: 18.00.
Pagine: 275.
La personalità femminile – brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso – ve vvulive dì?… ‘a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii, in tanto si distingue dalla maschile, in quanto l’attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello d’ ‘a femmena, si manifesta in apprendimento, e in un rifacimento, d’ ‘o ragionamento dell’elemento maschile, si putimme chiarmarle ragionamente, o addirittura in una riedizione ecolalica delle parole messe in circolo dall’uomo ch’essa ci ha rispetto: da ‘o professore, da ‘o commendatore, da ‘o dottore de ‘e femmene, da l’avvucate ‘e lusso, o da chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge [Mussolini]. La moralità-individualità della donna si rivolge per addensamenti e per coaguli affettivi al marito, o al facente funzione, e dai labbri dell’idolo dispiccica l’oracolo quotidiano della sottintesa ammonizione: ché uomo non è, che non si senta Apollo nel sacello delfico. La qualità eminentemente ecolalica della di lei amnima (il concilio di Magonza, nel 589, le concesse un’anima: a un voto di maggioranza) la induce a soavemente farfallare d’attorno al perno del coniugio: plastile cera, chiede dal sigillo l’impronta: al marito il verbo e l’affetto, l’ethos e il pathos. Donde, cioè dal marito, il lento e greve maturare, il discendere doglioso dei figli. Mancandole i figli, sentenziò Ingravalo, il marito cinquantottenne decade senza suo demerito a buon amico ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili, a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere (nel di lei apprendimento inconscio) è degradato a pupazzo: un animale infruttifero, con testone finto da carnevale. Un arnese che non serve: uno sdipanato succhiello.[4]
Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceno della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei “suoi” delitti. “Quanno me chiameno!… Già. Si mechiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliommero… de sberretà…” diceva, contaminando napolitano, molisano e italiano.[5]
Un bel ragazzo, er signorino Giuliano, dellà: piuttosto fortunato co le donne. Piuttosto. Già. Che lo perseguivano a sciami, a volo radente: e gli precipitavano poi addosso tutte insieme e in picchiata, come tante mosche sur miele. Lui sapeva puranche fare: ci aveva un bìndolo, uno specchieto a rota, un suo modo così naturale e così strano ar medesimo tempo… che te le incantava co gnente. Dava a divedere de trascuralle, o di sentirsene magari annoiato: troppe, troppo facili! d’aver sottomano ben altro. Faceva er maschietto tosto, o er tu-mi-stufi, certe volte, o er superbioso; o er signorino de casa de famija scerta der generone de via de li Banchi Vecchi: o l’uomo d’affari, che nun cià tempo de stà a discorre. Siconno. Così. Come je va girava. Intonato ar vestito che ciaveva addosso. Come je veniva l’ispirazione del momento. (…) Era allora proprio che loro s’ammattiveno. Si concedeva dopo lungo reluttare o dopo interminato anelare e basire dela vittima, strascicandone l’estuoso abbandono o sfibrandone la indocilità renitente mediante una erogazione di pseudo-sintomi (in realtà suggerimenti) alternati a contrasto, a sì e no. M’ama nun m’ama. Te vojo nun te vojo. E comunque alle predestinate e rare, e con arcana deliberata elette, si concedeva: come la Salute Eterna in Giansenio. (…) Là, propio, dove ognuno aveva voltato altrove l’oroscopio. Zàn! Lasciandosi cadere a piombo alla maniera del nibbio sulla più contumace di tutto il gallinaio: quasi a punirla (o a rimeritarla) con quel fulgurante diavolio: a riscattarla da una debilità recondita nel di lei essere, da una ignominia… anteriore a quella prelazione magnificatrice. In tal senso la gratitudine della magnificata poteva salire a le stelle: e la paura, o fosse magara la speranza, del bis.[6]
[1] Gadda C. E., (1957), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, p.54.
[2] Gadda C. E., (1957), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, p. 8.
[3] Ivi., Cit., pp. 91-92.
[4] Ivi., Cit., pp. 91-92.
[5] Gadda C. E., (1957), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, p. 8.
[6] Gadda C. E., (1957), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, p.54.
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