La materia è infinita e ci si limiterà a brevi cenni, che eventualmente verranno sviluppati in successivi interventi.
Il diritto sarebbe orfano, senza un sostrato filosofico. L’attenzione in prospettiva filosofica al fenomeno giuridico è consustanziale ai primi sviluppi del pensiero umano, in quanto l’uomo, per la circostanza di vivere in un contesto sociale, è portato a meditare sulle regole che devono costituire la base per la regolamentazione del rapporto con i consociati.
Si suole affermare che una manifestazione della giuridicità è la circostanza che una conseguenza sicura della mancata applicazione di una norma è l’irrogazione di una sanzione, a seguito della sua violazione, con il corollario che il precetto quando sia solo morale, è suscettibile di violazione, senza alcun intervento sanzionatorio, ma la questione è più articolata, in quanto deve anche coesistere presso la comunità la convinzione della giuridicità di una certa disposizione, sia che essa sia cristallizzata in un testo scritto, sia che derivi da una consuetudine, la cui applicazione concreta appaia protrattasi nel tempo. Spesso ci può essere un’intersezione di regole morali e giuridiche, accorpate e allora occorre bilanciare e modulare il criterio di analisi. I princìpi generali del diritto (non sempre agevolmente distinguibili dalle mere regole) son considerati un ponte di collegamento fra diritto e morale, ma la compenetrazione fra diritto e morale in genere implica l’esigenza di un superamento dell’utilizzo della sola logica sillogistica, al fine di analizzare il testo normativo. Tra diritto e morale in astratto può configurarsi un nesso di separazione o connessione. Il filosofo Austin ha sostenuto la tesi della separazione, osservando che una regola giuridica è tale, anche quando non corrisponda alla concezione etica prevalente in una data fase. Tuttavia, spesso nella costruzione dei testi normativi intervengono concetti etici come “buon costume”, “ordine pubblico”, i quali, ai fini di un’appropriata decodificazione, richiedono il riferimento a un sistema logico, che tenga conto delle sfumature e non si limiti a un mero esame dei poli opposti di una questione (bianco-nero, per es.). Nell’individuazione dei parametri per l’analisi congrua delle regole morali, occorrerà anche verificare se venga in considerazione una morale “laica”, indifferente al religioso o addirittura antagonista a essa o una morale impregnata di religiosità e/o misticismo.
La disciplina “filosofia del diritto” nasce nell’Accademia nel secolo XIX (può riflettersi sui “Lineamenti di filosofia del diritto” di Hegel, pubblicati nel 1820 o sulla “Filosofia del diritto” di Rosmini del 1841-1845), ma l’esigenza di indagare con intento speculativo la realtà giuridica, anche per stabilire il rapporto fra il diritto codificato e reso operativo dall’attività di normazione e i valori “giustizia, etica”, che si collocano su un piano astratto, preesiste rispetto alla creazione dell’insegnamento di una materia autonoma così denominata. Forse, si è avvertita solo a questo punto l’esigenza di una delimitazione di questo ramo specifico della filosofia, nonostante che la medesima filosofia non possa frammentarsi in compartimenti stagni, così come l’intero “sapere”, o forse la “filosofia” del giuridico in epoca precedente era accorpata all’analisi del diritto positivo (vale a dire: posto da una norma scritta o consuetudinaria).
In seno alla classicità esistono le riflessioni sulla giustizia. Nella “Repubblica” (390-360 a.C.) Platone si pone il problema giuridico-politico di quale sia il miglior governo possibile e conclude per l’affidamento ai filosofi dell’autorità, ma il paradigma argomentativo resta intensamente astratto e in consonanza con il prisma dell’”idea” in senso platonico. Nelle “Leggi” di Platone (pubblicate postume dal discepolo Filippo di Opunte) forse è leggibile un approccio più pragmatico e migrante dal mondo delle “Idee” a quello empirico, attraverso la proposizione di concreti problemi, concernenti l’impostazione dell’attività normativa, sia pur con un’apertura anche al problema religioso. La “Costituzione degli Ateniesi” (330-332 a.C.) di Aristotele pone il problema della costituzione “ante litteram” (nel senso di individuazione del sostrato normativo essenziale di una comunità). Emerge l’importanza della nozione di “comunità”, in quanto l’uomo viene considerato un “animale sociale” inserito in una comunità e la sua identità e la ricerca del senso dell’esistenza si sviluppa all’interno di un aggregato sociale.
Il “De Legibus” (52 a.C.) di Marco Tullio Cicerone è un’opera che indaga il diritto in una prospettiva e con paradigmi filosofici, attraverso un’ispirazione di matrice “stoica” e un riferimento al diritto naturale (costruito in epoca successiva come insieme di valori immutabili o comunque dotati di un grado di permanenza superiore rispetto al contingente mutamento della realtà storica). Il giurista Ulpiano (170-228 d.C.) tende a distinguere la giustizia, attribuendo a essa una funzione filosofica, nel senso di paradigma permanente, che deve condurre a risultati progressivamente perfezionabili e che deve fungere da matrice e fucina per la costruzione adeguata delle leggi, rispetto ai sofismi retorici.
Emerge il tentativo di enucleare una dimensione di questo tipo per la scienza giuridica, anche al fine di indagare i rapporti della medesima con la Morale e la Giustizia. L’indagine su tali rapporti può considerarsi un sostrato indispensabile per emancipare il giuridico in senso proprio, rispetto alla mera retorica individuazione di stratagemmi sofistici per cercar di convincere qualcuno della propria tesi. Nel Medioevo in seno all’Università si tenta di elaborare un’autonomia della scienza giuridica, in modo da rendere il diritto, e la speculazione filosofica su di esso, una disciplina autonoma. La coesistenza fra potere spirituale e temporale implica l’esistenza di una dimensione “teologica” del diritto, in una prospettiva in cui Dio è concepito come Legislatore e si costruisce la categoria del diritto “divino”, sulla quale chi scrive ha avuto modo di affermare, con riferimento al diritto della Chiesa cattolica, che
“Il diritto canonico nasce a seguito della costituzione, da parte di Gesù, della comunità degli Apostoli, in un contesto, in cui una comunità di uomini risponde a una chiamata divina. Questa impostazione implica il rifiuto in radice delle controversie dottrinali, a proposito della“nascita storica” del diritto canonico e a proposito dell’individuazione di una cronologia d’inizio del medesimo. Se sottostiamo al paradigma “ubi societas ibi ius”, la stessa formazione della comunità di Gesù di Nazareth e dei suoi Discepoli ha determinato l’esigenza di un ordinamento giuridico variamente complesso, attraverso il quale i membri della comunità in questione hanno regolamentato i propri rapporti. Può aggiungersi che la circostanza che nella nostra ipotesi venga in considerazione un ordinamento, basantesi sull’esistenza di un Dio, implica la possibile pretermissione del problema di una delimitazione e periodizzazione del diritto canonico, in quanto, una volta che si ponga a base del ragionamento l’osservazione, per la quale Dio è la principale fonte del diritto canonico, in quanto titolare della suprema potestà legislativa (anche se con riferimento alla Divinità tale categoria appare inappropriata), e una volta che si rifletta sulla circostanza che la categoria “tempo” non è applicabile a una Divinità Trascendente” (…) Gli esegeti sogliono distinguere fra diritto divino, vale a dire il nucleo di princìpi che attraverso una decifrazione (“positivazione” e successiva formalizzazione, della volontà divina) costituiscono i capisaldi della struttura della Chiesa come comunità e ordinamento”
Acquisisce progressivamente rilievo un riconoscimento al “diritto naturale”, il quale appare conforme alla natura dell’uomo, in taluni casi anche attraverso apriorismi e arbitri logici. La successiva nascita di contrasti che portano alla separazione fra potere spirituale e temporale (in particolare Stato-Chiesa) comporta l’allontanamento dal paradigma giusnaturalista e l’elaborazione del giuspositivismo, come antagonista del “diritto naturale” (su tali concetti vedi appresso nel testo). Norberto Bobbio rileva che
la più antica e celebre distinzione tra diritto naturale e diritto positivo è in Aristotele: “Del giusto politico ci sono due specie, quella naturale e quella legale. È naturale il giusto che ha dovunque la stessa potenza e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è del tutto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è più indifferente, una volta che è stato stabilito” (Eth. Nic., 1134 b). Il diritto naturale vi è definito attraverso due caratteristiche: 1) è dappertutto, il che vuol dire che la sua potenza, ovvero la sua validità e la sua efficacia, sono universali, al pari del fuoco, come si legge poco più oltre, che brucia ovunque nello stesso modo; 2) vale indipendentemente dal fatto che sia o che non sia riconosciuto, il che significa che vale oggettivamente. Il diritto positivo, che qui viene chiamato legale, cioè posto per legge, è caratterizzato non attraverso l’antitesi alla prima caratteristica, anche se si può sottintendere facilmente che esso non vale “dappertutto”, ma varia da luogo a luogo, bensì in base alla seconda: accanto alle azioni regolate dal diritto naturale, e quindi non dipendenti dal nostro giudizio e, in quanto tali, buone o cattive in se stesse, vi è l’ampia sfera delle azioni indifferenti che sono libere, ma diventano obbligatorie o proibite in quanto così sia stabilito da una legge posta da un’autorità superiore, cioè da una legge che oggi chiamiamo ‘positiva’. L’esempio che lo stesso Aristotele adduce dopo la definizione è chiaro: sacrificare a Zeus una capra o due pecore è un’azione indifferente prima che sia stata emanata da quella certa autorità, in quel certo luogo e in un certo momento del tempo, una legge che imponga un tipo di sacrificio piuttosto che un altro.
Può aggiungersi che le prime comunità cristiane vivono in una dimensione entro certi limiti de-istituzionalizzata, con una sorta di idealizzazione del modello “monastico” come struttura di aggregazione ideale. La dimensione comunitaria conserva un rilievo precipuo anche sotto il prisma della filosofia del diritto, e successivamente si passa dalla de-istituzionalizzazione alla istituzione della “civitas”.
La visione del giusnaturalismo implica una superiorità “di valore” del diritto naturale, rispetto al diritto positivo, in rapporto alla permanenza di essi valori, rispetto alla contingenza del diritto posto, e ammette l’esistenza di entrambi. Il positivismo giuridico nega l’esistenza del diritto naturale e riconosce come effettivamente esistente solo il diritto posto, vale a dire codificato nelle norme. Si può configurare un rapporto di indifferenza fra diritto naturale e diritto positivo, oppure può ritenersi che il diritto positivo umano proceda dal diritto naturale (si ritiene sia questa la concezione di S. Tommaso d’Aquino), oppure si può configurare una superiorità del diritto positivo, rispetto al diritto naturale. L’estrinsecazione dei rapporti fra i due concetti può focalizzarsi con il seguente esempio: si può configurare che l’istinto di conservazione è innato nell’uomo e allora viene positivizzata la regola della tutela della vita e la condanna dell’omicidio. Appare allora razionale prevedere a livello di diritto positivo queste prescrizioni. Per inciso, il nostro codice civile enuclea un’esigenza di intrinseca razionalità dell’ordinamento, definendo il medesimo come “intenzione del Legislatore”, all’art., 12 cc.dd. Preleggi al codice civile, secondo cui
“Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Il giusnaturalismo esprime giudizi di valore sul diritto, rilevandone la stretta connessione con il concetto astratto di “giustizia” e quindi configura una legittimazione di valore del giuridico, ulteriore e diversa rispetto al dato fattuale della sua vigenza. Il positivismo ritiene che questa concezione pecchi di astrattezza. Hobbes (1588-1679) distingue lo Stato di natura, retto soltanto dalle leggi naturali e preesistente allo Stato civile regolato dal diritto positivo, il quale costituisce il superamento dello stato di natura. Quest’ultimo è noto come situazione in cui l’uomo si scontra con gli altri uomini in un assetto di ostilità permanente (homo homini lupus). In consonanza con tale pensiero si colloca Kant (1724-1804) . Entrambi questi pensatori attribuiscono alla comunità internazionale la condizione dello “stato di natura”e il problema s’intreccia con quello della giuridicizzazione della realtà internazionalistica,, attraverso la creazione di un diritto internazionale.
Nei suoi “Lineamenti di filosofia del diritto” Hegel sviluppa nello specifico settore del giuridico il tentativo di superare la scissione, propria della filosofia Kantiana, fra soggettività e mondo e tra fenomeno e cosa in sé. Si tratta di un tentativo di creazione di un sistema filosofico “monistico”, che rappresenta l’esito del percorso intellettuale dell’idealismo tedesco, che in Hegel rinviene il suo punto culminante. Permane la convinzione che esiste la possibilità di una comprensione del mondo esterno e del mondo interno dell’uomo e questa convinzione profonda che permea di sé il pensiero del filosofo è scolpita nella nota frase aforistica «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale», che si trova nella prefazione ai “Lineamenti di filosofia del diritto”. L’esito del percorso speculativo di Hegel è la “personificazione” dello Stato e la considerazione dell’inevitabilità del conflitto fra Stati, in rapporto alla mancanza di un’autorità, deputata a dirimere i conflitti. .
La formalizzazione della concezione dello Stato come soggetto di diritto autonomo si ha con la dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, che concepisce la presenza di un “motore immobile”, strutturato in un agglomerato di disposizioni immutabili, da cui “a cascata” derivano le altre norme, in modo da creare un “ordine” strutturato, che possa prevenire conflitti civili e guerre, con la conseguenza che l’ideale Kantiano della presenza di una pace duratura è destinato a non realizzarsi. Per inciso, può osservarsi che secondo taluni interpreti il pensiero di Hegel non potrebbe essere interamente incorporato nella nota triade tesi, antitesi e sintesi. D’altronde, questo sembra un modello catechistico non totalmente idoneo a incorporare un magma di pensiero così ampio e profondo, difficile da incapsulare, pena il soffocamento dell’anima che pervade il medesimo sistema di pensiero. Il filosofo in esame usa prevalentemente i termini “momento intellettivo astratto”, “momento razionale negativo o dialettico” e “momento razionale positivo o speculativo”. Secondo un certo approccio, tesi e antitesi si sintetizzano in un nucleo (sintesi), in cui peraltro le medesime conservano la propria identità, mentre in Schelling (1775-1864), la sintesi degli opposti nell’Assoluto determina la perdita della possibilità di distinguere i medesimi). Questa avvertenza può essere valida anche in riferimento all’approccio alla filosofia hegeliana in riferimento al diritto
Da queste notazioni si comprende come il diritto sia una componente essenziale del processo esistenziale dell’uomo e occorra enucleare le idee, che strutturano la prospettiva giuridica nel contesto esistenziale, anche per la delimitazione del foro interno dal foro esterno, vale a dire di ciò di cui si occupa la coscienza individuale e di ciò che attiene ai rapporti giuridico sociali della realtà esterna. In altri termini, il diritto ha un fondamento antropologico, con la conseguenza che occorre emanciparsi da un paradigma essenzialmente economico-meccanicistico, o da una impostazione in cui la norma è vista come esito di una mera espressione linguistica. L’antropologia del giuridico si connette all’individuazione di una ragione dell’agire umano e tale connotato antropologico non va interpretato in chiave etnica, ma in chiave esistenziale, anche come paradigma per una piena comprensione del concetto di “istituzione” (famiglia, Stato). In ogni caso, la realtà giuridica non va appiattita solo sulla mera analisi linguistica delle formule normative o sulla mera valutazione costi-benefici, collegata a una determinata impostazione di una disciplina di settore.
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Pagnotta, Il De legibus di Cicerone in chiave didattica: introduzione, sintesi, note di approfondimento, bibliografia, in http://www.tulliana.eu/documenti/pagnotta_legibus.pdf
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Università degli Studi di Udine Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Laurea specialistica in Relazioni Pubbliche delle Istituzioni. Corso di storia del pensiero politico e sociale contemporaneo (fino all’a.a. 2007-2008) Giacometti, “la filosofia politica di Kant”, http://www.platon.it/Saggi/La_filosofia_politica_di_Kant.pdf,
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