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Secondo i Veda non solo c’è poca vita spirituale in assenza di fede, ma, più fondamentalmente, senza fede manca la stessa possibilità di una vita umana autentica. Giungiamo dunque ad occuparci del terzo e ultimo modo in cui emerge la vita, a livello interiore o spirituale. Il perno attorno al quale gira la nascita della vita interiore è la figura della fede.
Per il pensiero vedico la fede è meno l’assoluta e dogmatica convinzione nella verità di alcune affermazioni, e più una sorta di fondamento. La fede è la condizione necessaria affinché le parole e le cose possano avere per noi un significato. Come condizione necessaria al significato, essa viene prima della stessa possibilità non solo di indicare qualcosa come vero o falso, ma di poter parlare di verità e falsità. La fede, per tanto, è il fondamento del pensiero, della conoscenza, e dell’azione. La stessa morale non sarebbe possibile senza la fede.
Siamo di fronte a qualcosa che onnipervade la vita dell’uomo. Più che avere o non avere fede, l’uomo possiede la fede per gradi, e quasi mai la possiede al grado più alto. Pensiamo correttamente quando pensiamo alla fede come qualcosa che pervade ora questo ora quel momento della vita. Tutti, in ogni momento, possediamo almeno un certo grado di fede, proprio in virtù del fatto che essa è il nostro stesso fondamento. Come fonda l’uomo, la fede fonda e caratterizza l’uomo che crede.
Dell’uomo vedico, la fede pervade soprattutto i momenti e gli atti di culto. Senza la fede mancherebbe lo stesso orizzonte di senso all’interno del quale pensare e compiere il sacrificio. D’altra parte, come sarebbe possibile concepire, senza la fede, che un atto all’apparenza meccanico è in verità al tempo stesso qualcosa di profondamente diverso da sé e per la stessa ragione fondamentalmente sé stesso, che un atto all’apparenza insignificante è in verità dotato di un particolare significato?
Se la fede è fondamento, possibilità e significato dell’atto sacrificale, il quale a sua volta è atto fondativo per la vita dell’uomo vedico, allora la fede è sfondo inevitabile ad ogni autentico atto umano, che sia generativo o che non lo sia. La fede permette la vita e la restituisce costantemente. La figura della ‘fede’ ricorda quella del “divino Vivificatore”, da cui prendemmo le mosse all’inizio della nostra trattazione. La fede vivifica l’atto e l’uomo spirituale, la vita interiore e l’atto di culto. La fede, restituendo alle cose, alle persone, alle azioni, e ai pensieri il loro significato per noi, permette la magia della trasformazione, vivifica la realtà e accorda la costruzione attiva per mezzo di segni, simboli e atti sacri della magia propria del rito di culto.
Ma cerchiamo di approfondire questi concetti con l’aiuto dei testi. Nel passo X,151 del Rg-veda, leggiamo che è la fede ad accendere il fuoco sacrificale. Il rapporto tra fede e sacrificio è strettissimo. Senza la prima il secondo non può esistere. L’uomo dei Veda invoca direttamente la Fede per ricevere fede (Oh Fede, donaci la Fede!). Chi altro invocare, quando ne va dell’esistenza e dell’efficacia stessa del contesto sacro dell’invocazione? La fede, evidentemente, come tutti gli uomini di Dio sanno, determina la stessa possibilità dell’esperienza religiosa e spirituale. Così per i Veda. Non tanto l’avere fede piuttosto che il non averla, quanto l’essere nella fede e nella fede essere possibili. La fede è donatrice di vita. La fede è possibilità, intenzione, volontà pura ed assoluta, dono d’apertura, goccia di sperma, germe di vita e preghiera alla vita:
Benedite la Fede, colei che dà. / Benedite colui che vuole, ma non ha. / Benedite colui che dona la sua adorazione senza riserve. / Benedite questo canto che io intono.
In questo passo e nel passo III,9,21 della Brhadaranyaka-Upanisad viene detto, in più, che la fede è un tipo speciale di intenzione, ovvero è l’intenzione del cuore. Con ciò si intende dire che il presupposto della fede è un atto emotivo, d’amore, un atto profuso dalla sensibilità e dal sentimento dell’uomo. Per questo la fede porta al dono, all’offerta e alla bontà gratuita. Perché essa stessa poggia sul cardine dell’amore. Il passo VII, 19-20 delle Chandogya-Upanisad introduce un passaggio non affatto scontato, anche se qualcuno l’avrà trovato sviluppato all’interno di altre tradizioni di pensiero. Di ciò tuttavia non parleremo, poiché, ricordiamo, l’esigenza di una trattazione analitica ed essenziale ci ha imposto l’esclusione della comparazione tra il pensiero vedico e le altre tradizioni religiose, spirituali o filosofiche.
Andiamo avanti. Nella Chandogya-Upanisad la fede è definita, in termini molto chiari, una condizione necessaria al pensiero: non c’è pensiero senza fede. Se desideriamo pensare dovremmo prima desiderare di avere fede. Ma desiderare è ancora nulla. Si tratta, più gravemente, di “perseverare” nell’avere fede. Si tratta, dunque, di formare l’abitudine alla fede, che non sarà e dovrà essere solamente un’abitudine di pensiero, ma anche e soprattutto un’abitudine d’azione. Agire con fede, adorare, sacrificare, e operare il bene attraverso e nel fondamento della fede.
L’abitudine pratica della fede richiede costanza ed impegno. L’acquisto stesso della fede non è gratuito, ma richiede un iniziale momento di sacrificio e dono (Katha-upanisad I,1-2). Richiede che ci si spogli da ciò che si possiede. Acquistare fede significa iniziare a vivere, e vivendo pensare, e vivendo da pensanti, amare e operare il bene. Ecco delinarsi la figura di colui che conosce, ovvero del conoscitore dei Veda. È attraverso la fede che, dopo aver imparato a pensare, si può conoscere. Il brahman, il testo sacro, non è conoscibile fuori dai confini di senso tracciati dalla fede. La conoscenza ultima, la conoscenza vera, la conoscenza del sacro, la saggezza dei Veda, nonché la sua nascita, presuppone la fede. Dalla vita proviene la fede, e a partire dalla fede la vita può estrinsecarsi nelle sue forme, materiali e immateriali, come cosa e come pensiero (Prasna-upanisad VI,4).
Eppure, la conoscenza non è fine a sé stessa, non rappresenta l’ultima meta. La conoscenza è un mezzo per il bene, per la felicità, per la pace (para santi o pace suprema) e per l’acquietamento del dubbio che gradualmente porta all’equilibrio e al corretto movimento entro il quale la vita può crescere. Così è scritto nella Bhagavad-gita (IV,39-40). Il dubbio distrugge l’uomo. Il passo IX,3 della Bhagavad-gita aiuta a chiarire questo punto:
Gli uomini, o Arjuna, che non hanno fede / in questa Via di Verità (dharma) / non ottengono me, ma ritornano / al cammino della morte che ricorre in eterno.
Esattamente, al cammino della morte. Ma il cammino della morte è il cammino della vita che costantemente esaurisce sé stessa nella morte. La condanna a morte è condanna a vita. Questo è ciò a cui va pericolosamente incontro chi vive nel dubbio e non raggiunge la pace della fede. Al fine di evitare la reincarnazione, il ripasso di sofferenza e morte, occorre già in vita dimenticare la morte, o forse, il che è lo stesso, già morire. Abbi dunque fede nell’ordine del Tutto. Avvicina, accetta e conosci il dharma, l’ordine cosmico. Il Tutto, ancora una volta, entra nel singolo. La fede compone e caratterizza la posizione dell’uomo. Tanto più l’uomo avrà fede tanto più egli sarà conforme all’ordine di tutte le cose; tanto meno l’uomo vivrà nella fede, tanto più vivrà nel dubbio, nel disordine e nell’estraneità all’ordinamento generale, tanto più vivrà nella dimensione impura dell’inesistenza e della vita come morte.
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