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Duecento anni più tardi, quando noi stessi siamo la prova che il calcolo era giusto, non facciamo più programmi a così lungo termine, forse perché, in fondo, non siamo più capaci di credere davvero a una posterità possibile. La minaccia di una distruzione atomica è diventata quasi una specie di pretesto dentro di noi per liberaci del fastidioso pensiero del futuro. Non si cerca più di procurarsi la fama né per sé né per gli altri, ci si attiene al giorno per giorno, rifiutato l’arte e la parte non distruttiva della scienza, e provocando con ciò, nel piccolo, una distruzione pari a quella di cui la bomba è l’immagine su vasta scala. Se, inaspettatamente, il nostro tempo dovesse subire l’opposta sventura di essere ricordato fra duecento anni, lo sarebbe unicamente per quello strano, quasi storico zelo che ha messo nel farsi dimenticare. Il futuro è già cominciato, si dice, ma non è vero. Il futuro è già passato.
Thorkild Hansen
Arabia felix è un libro difficile da inserire in una categoria, cosa che spesso opprime gli scrittori dei cataloghi librari. Questa è un’opera che resiste ad una sua categorizzazione. Non è un romanzo, perché i personaggi non sono mai considerati dal loro personale punto di vista e il fatto stesso che si offra la ricostruzione di un fatto storico con tale dovizia di particolari è già di per sé un fatto peculiare. Per essere un libro di storia mancano le fonti e l’assetticità degli specialisti, nonostante la mole di studi a cui Hansen fa riferimento direttamente o indirettamente. Non è neppure un libro di sociologia o di storia della sociologia perché porta solo pochi dati. Allo stesso tempo, però, offre spaccati di vita quotidiana, di analisi psicologiche, sociologiche e, soprattutto, storiche. Ma, ancora, potrebbe anche essere un libro di filosofia, perché condensa in sé un’intera visione del mondo e, in particolare, di filosofia della storia. Ma non ci sono argomenti, non ci sono esplicite tesi, ipotesi e deduzioni.
Arabia felix è la storia di una delle più grandi spedizioni organizzate dalla corona danese. Fu pensata per scoprire importanti verità sul mondo arabo e sull’Arabia felice in particolare. Gli studiosi furono così scelti in base ad alcuni prerequisiti curricolari: linguistica (il danese Von Haven), botanica (lo svedese Forsskål), attitudine con la geografia e le misurazioni (lo sconosciuto agrimensore Niebur), pittura (l’incisore Baurenfeind, in assenza del fotografo bisognava aver pure delle immagini da quei luoghi lontani), medicina (Kramer) e alcuni attendenti. Non potevano essere scelte delle personalità più incompatibili. Se c’è chi crede che nel passato lo squallore dell’egoismo fine a se stesso indirizzato al soddisfacimento della pancia non ci fosse e sia una cosa recente, basterà sapere qualcosa su Von Haven per farsi un’idea della verità e scacciare via un pregiudizio dai nefasti effetti sul morale:
La nomina di Ström aveva suscitato il risentimento dell’altro studente inizialmente raccomandato (sic!) da Michaelis, il danese von Haven, che si sentì ingiustamente lasciato da parte. Appena seppe della decisione del re, scrisse immediatamente a Bernstorff per avvertirlo che quello Ström era in realtà terrorizzato all’idea di affrontare un viaggio simile. E si permetteva anche di render noto a sua Eccellenza che, nel caso in cui il suddetto Ström non arrivasse a sormontare le sue paure e rifiutasse l’offerta reale, egli stesso, Von Haven, avrebbe con immensa gioia dato la propria disponibilità a prendere il suo posto. Aveva sempre provato il desiderio di intraprendere un viaggio del genere e di misurarsi con i pericoli che potesse comportare.[1]
Insomma, uno studente modello… di quelli che sopravvivono alla sfida dei tempi, incapaci e cialtroni ma molto zelanti ad arraffare il pane del vicino. Raccomandazioni e sotterfugi, come instillare il dubbio sulle qualità degli altri, sono solo dei mezzi infantili, ma pericolosi, per degli esseri che occupano il mondo loro malgrado. E infatti Von Haven saprà ben sfruttare la nomina che gli verrà conferita. Riuscirà a entrare in conflitto con gli altri membri della spedizione, a non portare a termine alcuno scopo prefissato e a non fare alcuna scoperta rilevante. Sarà così misero da causare la reazione risentita dei suoi stessi referenti: una cosa assai difficile, a pensarci. Tutto ciò in una terra in cui bastava respirare e aprire gli occhi per trarre quanto necessario per le più importanti scoperte scientifiche. Ma non diciamo la fine che il destino gli riserverà. Questo lo deve scoprire il lettore.
Contraltare di Von Haven è il grande botanico Forsskål, ancora oggi ricordato per la profondità dei suoi studi. Così lo descrive Hansen con la sua consueta lucidità chirurgica:
Era difficile avere a che fare con Forsskål perché il suo rispetto per la verità veniva prima di qualsiasi altra cosa, anche del rispetto per ogni senso di umanità. Forsskål era testardo e litigioso, incapace di compromessi e di diplomazia; a chi aveva un’opinione diversa dalla sua diceva senza peli sulla lingua quel che pensava e se quelli insistevano, li annientava. Von Haven aveva insistito e aveva imparato a sue spese cosa voleva dire. Forsskål non perdonava. Pretendeva molto dagli altri perché da sé pretendeva moltissimo. Era senza requie. Spronato da un’infaticabile ambizione, si ammazzava di lavoro perché la verità potesse vincere. La verità non era né il bello né il bene. Forsskål era più preciso. La verità era la scienza e la giustizia e al loro servizio si era votato come naturalista e filosofo.[2]
L’altro grande protagonista della vicenda è Carsten Niebur, un uomo modesto, nato da famiglia poverissima, che fu in grado, grazie all’uso dell’astrolabio, di effettuare tra le più importanti misurazioni della storia della geografia moderna. Grande lavoratore, infaticabile, economo, intelligente ed elastico riuscirà a portare a termine gli scopi scientifici della missione, nonostante tutte le difficoltà di un viaggio così lungo e pericoloso.
Il libro narra la storia della spedizione dalla Danimarca all’Arabia felice e ritorno. Ma chi ritornerà e come non ci è dato dirlo, per questo libro di una bellezza sconfinata.
Arabia felix è senza dubbio uno dei libri più amari e, allo stesso tempo, più lucidi che siano mai stati scritti. Uno dei libri più veri, se ci passa il termine. Hansen è un illuminista disilluso, un illuminista che riconosce il ruolo della ragione e la frustrazione della sua incarnazione della storia: ci può essere pure la razionalità, ma non il progresso. La storia non è che polvere. Polvere di miseria, malattia, insanità e malessere. L’umanità di Hansen è dominata dagli istinti più grevi, dalle motivazioni più misere, sebbene trovino spazio anche personalità di rilievo.
Semplicemente, la storia che Hansen racconta è quella che viviamo tutti i giorni. Ogni giorno c’è un Von Haven in mezzo ai piedi, come è di natura altrettanto quotidiana la difficoltà di trovare una buona equipe di lavoro. La verità è che ci si odia con poco perché gli interessi conflittuali nascono dalle questioni più banali. Basta respirare e parlare e già scatta in noi l’istinto al rifiuto.
Hansen, dunque, è un illuminista postlitteram che contempla le rovine del mondo o, per meglio dire, lo contempla come allora lo contemplò l’Ecclesiaste.
Di polvere in polvere, di cenere in cenere. Niente di nuovo sotto il sole. Niente di nuovo come il filosofo che lotta per pubblicare e gli viene negata la possibilità. Salvo poi riconsiderarne l’importanza dopo la morte e adottare le sue idee. Niente di nuovo come il piccolo uomo che lavora operoso per i potenti che non hanno neppure il benemerito riguardo di ringraziarlo per le sue fatiche. Niente di nuovo come il prepotente che prima scalpita e poi perisce per la sua stessa mano, la mano dell’idiozia.
La storia, dunque, non è che una sequenza di fallimenti. Non c’è molto da salvare perché tutto è semplicemente un momento transitorio verso l’annichilimento: le raccolte di Forsskål andranno perdute, i testi di Von Haven valgono meno di quelli che non è riuscito a trovare, gli studi di Niebur saranno amabilmente ignorati una volta pubblicati. Non si tratta di persone che hanno avuto il successo immediato o dei posteri. O, per meglio dire, non si tratta di quelle persone che si ricordano per tutti i dettagli della loro vita, ma solo per quelli che fa piacere ricordare. Vedere per credere: chi fa una ricerca su Forsskål o Niebur scoprirà che la loro biografia è stata ripulita quel tanto che basta da tacere la loro realtà, la vera consistenza della vita sulla Terra.
Per questo Arabia felix è uno dei più grandi libri sulla storia che siano stati scritti. Perché è implacabile nel mostrare quello che tutti non siamo in grado di guardare, perché troppo mediocri, troppo intimoriti e troppo angosciati per riuscire a pensare come stanno le cose nella loro nuda essenza: siamo troppo impauriti e angosciati dalla vita per accettare la vita. Senza memoria, senza orpello, la storia di Hansen è come l’uomo politico senza i veli del suo pastrano: è un uomo debole, di cartone, come tutti gli altri. Perché siamo tutti fatti di cartone e ci si illude di avere una sostanza diversa dagli altri, solo perché fa comodo pensare di avere una ragione di sopraffare il vicino. E’ ovvio: noi siamo migliori di lui, quindi molto che a lui non è dovuto a noi si. Altrimenti è guerra aperta.
Ed è in questa sostanza metastorica che Hansen punta il dito. Punta il dito della razionalità per scoprire l’essenza della vita: sopraffazione, miseria senza nessun tipo di riscatto. Arabia felix è uno capolavori della prosa del XX secolo e, appunto per questo, la gente lo ignora: gente, quella grande di massa di numerosi individui senza volto che nessuno ha mai conosciuto ma che tanti usano per denotare ciò che non comprendono. Quella stessa gente che costituisce l’onda della storia il cui reflusso è sempre pagato dall’ondata successiva.
Ancora di più. Arabia felix è uno dei vertici della razionalità letteraria dell’Occidente.
Partiamo dalla ricerca della felicità, ma l’Arabia Felice non esiste. Esiste solo un paese che si chiama Yemen. Il paese a destra. Il paese a sud. E la felicità non si trova nello Yemen, vi si trova la morte, ma di quella ce n’è a sufficienza ovunque. Tutto si basa su un equivoco. Ci sono paesi in cui siamo stati felici, ma non ci sono paesi felici. Né a nord, né a sud. Né a destra, né a sinistra. Né lontano né vicino. Dobbiamo correggere questo errore di traduzione [l’autore si riferisce all’errore di traduzione dell’appellativo dell’Arabia felice], anche se così diventa tutto più difficile. Perché, se ci fosse qualcosa di vero, se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito. Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.[3]
Parole che solo un uomo razionale come il genio di Thorkild Hansen poteva scrivere. Le parole di un uomo che ha guardato la vita nella sua essenza e ha scoperto che non c’è davvero niente di nuovo sotto il sole, ma sempre quella polvere che torna in polvere dopo aver avuto solo il tempo di vivere il suo viaggio in un bastimento di solitudine, incomprensione e sopraffazione. Non è la storia di Von Haven, di Hansen. E’ la vita di tutti noi.
Thorkild Hansen
Arabia felix
Iperborea
Pagine: 433.
Euro: 16,50.
[1] Hansen T., (1962), Arabia felix, Iperborea, Milano, pp. 22-23.
[2] Ivi., Cit., p. 314.
[3] Ivi., Cit., pp. 350-351.
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