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Consigliamo Cicerone e Percorso di letteratura latina
Vita
Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova in Spagna molto probabilmente il 4 a.C. da una famiglia equestre benestante: il padre era Seneca il Vecchio. Ebbe modo di crescere in un ambiente stimolante e fu predisposto allo studio. Cordova era una città di tradizioni repubblicane: si era infatti schierata al fianco di Pompeo al tempo delle guerre civili ed era infatti terra di asilo per molti repubblicani ostili alla dittatura di Caio Giulio Cesare. In vista della carriera politica e retorica che avrebbe sostenuto, la famiglia si trasferì presto in Roma, così da poter essere educato nelle migliori scuole di retorica: i suoi maestri di matrice stoica furono Attalo e Papirio Fabiano.
Prima di iniziare l’attività forense nel 31 d.C. intraprese diversi viaggi per ampliare le sue conoscenze, specialmente in Egitto, dove seguì uno zio prefetto.
Dotato di grandi capacità oratorie, Caligola, geloso di queste, decretò la sua condanna a morte: venne però salvato probabilmente da un amante dell’imperatore stesso. Più avanti, però, durante il principato di Claudio, venne esiliato nel 41 d.C. con l’accusa di adulterio con la connivenza di Giulia Livilla sorella di Caligola e figlia di Germanico: naturalmente era tutta una messinscena. Seneca venne allontanato per le sue doti propagandistiche e oratorie che portavano in minoranza l’imperatore.
Rimasto ben otto anni nell’allora selvaggia Corsica, Agrippina fece in modo di ottenere da Claudio il perdono di Seneca che divenne così l’educatore assieme ad Afranio Burro del figlio minore e prediletto di Agrippina: il futuro imperatore Nerone.
Seneca accompagnò l’ascesa al potere del giovane imperatore diventando di fatto il reggente e principale fautore delle scelte dell’imperatore. Questo periodo divenne il cosiddetto “buon governo” di Nerone fino a quando nel 62 d.C. Seneca, vista la perdita di fiducia da parte dell’imperatore, si ritirò gradualmente alla vita privata, dedicandosi agli studi.
Nell’aprile del 65 d.C. Seneca venne coinvolto nella celebre congiura di Pisone , senza però esserne realmente partecipe: condannato a morte da Nerone, Seneca si suicidò prima che potessero prenderlo i suoi esecutori. Questa notizia ci viene tramandata da un celebre racconto di Tacito negli Annales XV 62-64.
Le opere e gli orientamenti filosofici
Seneca ha dato prova di sé in una vastissima produzione letteraria, la quale ci è giunta quasi interamente: la maggior parte di queste opere, come vedremo, è di stampo filosofico. Alcune di queste vennero raggruppate in un unico volume nei cosiddetti Dialogi dove sono presenti dei trattati etici e psicologici come ad esempio il Ad Lucilium de providentia o ancora Ad Serenum de con stantia sapientis. Le opere qui contenute sono consigli e esortazioni nei confronti di amici. Altre opere filosofiche sono i setti libri del De beneficiis, indirizzati principalmente all’allievo Nerone, e i venti libri dove sono comprese le 124 Epistulae morales ad Lucilium.
Abbiamo trattati naturalistici come il Naturales quaestiones e inoltre nove tragedie di tipo cothurnatae, vale a dire, come abbiamo visto, di argomento greco. Scrisse anche satire come il Ludus de morte Claudii più noto col nome di Apokolokyntosis.
I Dialogi, come la maggioranza delle opere di Seneca, è di difficile datazione. È un opera in cui, come abbiamo accennato, Seneca sperimenta il genere dei consigli morali nei confronti degli amici: il cosiddetto genere della consolatio. Questo genere si costruisce attorno ai temi filosofici cari agli stoici, dove alla base dell’argomentazione sta la morale e l’etica: la consolatio era presente negli scritti filosofici greci da cui Seneca prende spunto. I temi più cari sono senz’altro la fugacità del tempo, la precarietà della vita e dunque la morte come destino inevitabile dell’uomo. Altra opinione avevano i letterati e filosofi epicurei. La particolarità è che i Dialogi risultano essere una vera e propria raccolta di operette morali distaccate le une dalle altre ma accomunate da un unico tema comune.
Il De vita beata, dialogo scritto probabilmente nel 58 d.C., è un opera che tratta i temi legati al problema della felicità e del ruolo che all’interno di essa possono avere agi e ricchezze. Scritto forse per contrastare le voci di Tacito che negli Annales (XIII 42) criticava Seneca di essere arrivato a quella posizione sociale e di “rango letterario” solo grazie alle ricchezze della famiglia; lo accusava di incoerenze di fronte ai principi che andava esprimendo nelle sue opere moralistiche. Seneca risponde che la via della felicità sta nella virtù piuttosto che in altro, e ancora sostiene che se le ricchezze aiutano e non ostacolano la felicità nella virtù, non possono essere nocive ma benefiche. Infatti nemo sapientiam paupertate damnavit vale a dire “nessuno ha condannato la saggezza alla povertà”. La bravura del buon sapiente benestante è di non farsi trascinare dagli agi nell’inattività o nella lussuria, ma di riuscire a mantenere una giusta via di mezzo, nel quale gestire il raggiungimento esistenziale attraverso la virtù.
Altri tre importanti Dialogi senechiani sono senz’altro la trilogia dedicata e rivolta all’amico Sereno, il quale abbandona la via epicurea per avvicinarsi alla saggezza stoica. Il De constantia sapientis tratta riguardo l’imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità della vita. Il De tranquillitate animi, l’unico dialogo scritto realmente sotto forma di dialogo, è uno degli vertici della produzione di Seneca. Infatti tratta del ruolo del saggio nell’attività politica: egli cerca una mediazione fra l’otium e il negotium e, secondo Seneca, il buon saggio deve sottrarsi in egual misura sia dal tedio di una vita solitaria, sia agli obblighi di una vita cittadina arrancante, cercando di giovare agli altri con la propria serenità dell’animo che sia con l’impegno pubblico o con l’uso della parola stessa.
Nel De otio, scritto nel 62 d.C., elabora l’idea, prima rifiutata, secondo cui bisogna perseguire una vita appartata, quando il saggio è messo in condizioni di non poter intervenire proficuamente nell’agone sociale: quando la situazione politica viene compromessa dagli agenti esterni tanto che un saggio non può giovare agli altri, è giusto che quest’ultimo si ritiri in una vita appartata che, come dice Seneca, ha i suoi tanti pregi.
Infine gli ultimi due Dialogi da trattare sono senz’altro il De Brevitatae vitae e il De providentia. Nel primo dialogo si parla, come spiega il titolo stesso, della brevità della vita e della fugacità del tempo: “ma perché la vita ci appare così breve?” Si chiede Seneca. Senz’altro perché non siamo in grado di afferrare l’essenza di essa e non siamo in grado di distogliere la mente dalle cose futili: questo sarebbe un tema molto importante, a nostro avviso, da trattare fin dalle scuole primarie perché in questi tempi così travagliati, come lo erano quelli di Seneca, dobbiamo ritrovare uno stile di vita più virtuoso, più saggio, più intelligente, già così condizionato dall’informatica deteriore e anche, sì, purtroppo da un educazione verso i più giovani sempre più approssimativa che si mostra a noi in così tanti modi da non abbisognare alcun riferimento bibliografico o ipertestuale per sostenere questa tesi.
Nel De providentia parla del rapporto che sussiste fra il progetto che la provvidenza (vista quasi come una divinità, totalmente in contrasto con la visione epicurea che sosteneva la tesi dell’indifferenza divina) ha per ognuno di noi e la sconcertante realtà della sorte che sembra spesso premiare i cattivi a scapito dei buoni e dei più sfortunati. Il sapiens stoico, secondo Seneca, si deve adattare in modo saggio e razionale, al disegno provvidenziale a lui assegnatogli, senza farne una questione di “buoni o cattivi”.
Abbiamo analizzato i Dialogi. Una raccolta di operette morali col tema fondamentale del tempo. Approfondiamo anche le altre opere di Seneca. I Naturalium quaestionum libri sono l’unica opera di carattere scientifico che ci è sgiunta: vengono trattati i fenomeni atmosferici e quelli astronomici, dai terremoti alle comete. Seneca sicuramente si rifece alle fonti di Posidonio (naturalista e filosofo stoico), ma non riuscì a scrivere un’opera organica fra indagine e ricerca morale.
Il De Clementia (55-56 d.C.) opera dedicata al giovane Nerone, è il testo in cui maggiormente affronta il problema di come deve essere un buon sovrano: sarà questo testo quello che diventerà di fatto il programma politico neroniano stilato secondo le idee del suo precettore. Da ricordare come Nerone fosse l’imperatore, come Seneca di fatto influenzasse in modo decisivo le sue scelte politiche, ci sia consentito rimandare ad un lavoro precedente. Per Seneca il potere di un unico uomo, un monarca per esempio, era la miglior forma di governo: era questo il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, dove la figura del princeps rappresentasse tutti i popoli dell’impero. Restaurare la libertas repubblicana era oramai utopia e in parte cozzava anche coi principi del buon saggio stoico: la libertas repubblicana implicava delle conseguenze nell’attività politica che un impero così vasto non poteva assumersi o, comunque, non secondo Seneca. Il buon sovrano deve essere illuminato dalla ragione e solo in questo modo potrà avere la meglio su tutto e tutti: la clementia di cui parla Seneca, è intesa non come misericordia e generosità, ma è la virtù che il sovrano dovrà esprimere nei confronti dei suoi sudditi, per ottenere da questi consenso e dedizione. In questo potremmo ravvisare una forma di dispotismo illuminato simile a quella che gli illuministi proporranno in seguito.
Il De beneficiis (64 d.C.) è un trattato che spiega la natura morale individuale e della modalità degli atti di beneficenza. E ancora del legame che si deve creare fra benefattore e beneficato: forti sono le allusioni verso Nerone, il quale trattò, dopo il discredito gettato su Seneca, il suo precettore in modo sleale e ingrato.
Le Epistolae ad Lucilium sono quella serie di lettere, la cui stesura ha reso Seneca ancora più famoso e degno rappresentante della corrente stoica. Scritte successivamente al suo ritiro dalla vita politica, in queste lettere egli tratta fondamentalmente della coscienza individuale. Sono una serie di lettere di varia dimensione (si va da poche righe alla dimensione di un trattato) e di vario argomento indirizzante dunque all’amico Lucilio. Quest’ultimo era un amico di Seneca di origini modeste: più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, dopo essere entrato a far parte del rango equestre, si dedicò allo studio e ad attività culturali, era infatti egli stesso un poeta e uno scrittore. Non è ancora ben chiaro agli studiosi, se quest’opera sia realmente un epistolario o semplicemente una raccolta formulata da Seneca: tuttavia, nella raccolta c’è anche qualche lettera di risposta di Lucilio o che, per lo meno, così potrebbero apparire. In ogni caso l’opera si presenta come un unicum nel panorama letterario antico. Seneca era consapevole e orgoglioso di creare un genere nuovo a Roma, e si rifaceva al modello di Platone e soprattutto di Epicuro.
Come sappiamo, di Cicerone ci è stata conservata una raccolta di lettere, ma dissimile da quella di Seneca, cioè il risultato di un’attività consapevole e costruita: infatti, lo stoico si proponeva di realizzare in una sola opera quel rapporto di formazione e crescita spirituale che Seneca appunto instaura con Lucilio.
Attraverso il colloquium Seneca cerca la via verso la sapientia. L’opera è composta da frasi incisive che illustrano e scandiscono la vita. In più momenti Seneca ricerca nella vita quotidiana la pratica della filosofia, idea comune a quasi tutta la storia della filosofia antica. Gli argomenti principali trattati nelle lettere sono dunque la via che il saggio deve intraprendere per la “felicità” o meglio per contrastare il disegno provvidenziale che può essere negativo o positivo, ma che il buon saggio deve vivere con discrepanza. Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata verso il raccoglimento e la meditazione. Il saggio stoico è infine indipendente dal mondo e guarda con indifferenza alla morte verso la quale la mente deve guardare con serenità.
Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è riservato alle tragedie: ne compose nove, tutti a soggetto mitologico greco. Non abbiamo a disposizione molte informazioni riguardo ad esse, come ad esempio venissero rappresentate o sulla data stessa della composizione. L’Hercules furens, le Troades, le Phoenissae, la Medea, la Phaedra, l’Oedipus, l’Agamennon, il Thysestes e l’Hercules Oatetus sono le nove tragedie pervenuteci di Seneca: esse sono tutte modellate e ispirate ai modelli dei grandi tragediografi greci del V secolo a.C. come Eschilo, Sofocle e Euripide, la cui grandezza è fruibile nei teatri contemporanei.[1] Come detto non sappiamo di preciso la “destinazione d’uso” di queste tragedie, ma gli studioso tendono a supporre, visto la moda del periodo di fare letture pubbliche e visti certi atteggiamenti stilistici all’interno delle tragedie, che queste rappresentazioni fossero legate ad una lettura non scenica. Attraverso la tragedia, Seneca poteva ben rappresentare i suoi temi stoici: ad esempio, attraverso la figura del forte Ercole poteva spiegar bene come l’uomo forte supera le prove della vita per arrivare a una posizione di libertà. Il logos, a cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, viene ripetutamente sconfitto (e da qui la nascita della tragedia senechiana) e la tragedia è sia della psiche umana, sia del mondo intero. Il conflitto fra il bene e il male assume una portata di livello cosmico.
Infine, sembra che Seneca compose anche una decima tragedia, l’Octavia, ma non ne abbiamo certezza riguardo la sua autenticità.
Per concludere il nostro discorso su Seneca dobbiamo parlare dell’Apokolokyntosis opera intitolata altrimenti Ludus de morte Claudii. Quest’opera all’interno del panorama letterario di Seneca è assolutamente un eccezione in quanto si tratterebbe di un elogio funebre di Claudio in tono satirico. Infatti il primo titolo citato deriverebbe dalla kolòkynta, vale a dire “la zucca”, e indicherebbe la stupidità: quest’opera è dunque la parodia della divinizzazione di Claudio (decretata dal Senato dopo la sua morte). È un testo in cui Seneca divinizza una zucca, con ogni riferimento (non casuale) alla sua disistima verso l’imperatore Claudio. Quest’opera rientra all’interno del genere della satira menippea.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Pili W., I grandi geografi che hanno fatto la storia dall’anno zero a oggi, www.scuolafilosofica.com, 2013.
Pili W., Oratoria e storiografia in epoca della Roma arcaica: Ennio, Catone e altre figure, www.scuolafilosofica.com, 2013.
Pili W., Origini della letteratura latina: il teatro romano arcaico e la figura di Livio Andronico, www.scuolafilosofica.com, 2013.
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Pili W., Storia romana parte III: da Augusto a Costantino, www.scuolafilosofica.com, 2012.
[1] Fin tanto che non si decideranno ad abolirli.
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