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Il progetto politico kantiano presentato in Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant si struttura in due parti (Parte prima, che contiene gli articoli preliminari per la pace perpetua tra gli stati; Parte seconda, che contiene gli articoli definitivi per la pace perpetua tra gli stati), con due supplementi (Primo supplemento. Della garanzia della pace perpetua; Secondo supplemento. Articolo segreto per la pace perpetua) e due appendici (Appendice (I). Sulla discordanza tra morale e politica riguardo alla pace perpetua; Appendice (II). Dell’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico). Non si tratta di un’opera monumentale ma di un lavoro sintetico sui principi di organizzazione intrastatale e interstatale che siano in grado di costituire una comunità reale di stati uniti sotto un unico diritto internazionale e cosmopolita con lo scopo ultimo di pervenire ad una pace perpetua.
Lo scopo intrinseco del lavoro è quello di stabilire i fondamenti di una filosofia del diritto internazionale che sia in grado di garantire la coesistenza pacifica tra i vari stati. Questa finalità ultima, che si fonda sul riconoscimento della congiunzione tra azione politica e azione politica morale intesa in senso kantiano: “La vera politica non può fare alcun progresso senza prima aver reso omaggio alla morale…”,[1] è indicata non soltanto dalla struttura generale dell’opera ma soprattutto da quello che è l’ideale dichiarato: “In questo modo la natura garantisce con il meccanismo stesso delle inclinazioni umane la pace perpetua, con una sicurezza che, certo, non è sufficiente a predirne l’avvento (in teoria), ma che tuttavia basta in pratica a imporci il dovere di adoperarci a questo scopo (che non è semplicemente chimerico)”.[2] Il punto è centrale e sarà bene focalizzarlo sin da questo momento. L’argomento si può riassumere: se la pace perpetua è possibile, allora abbiamo il dovere di cercare di realizzarla. La pace perpetua è possibile, dunque dobbiamo realizzarla. La pace perpetua non è semplicemente una finalità politica, ma è prevista dalla formulazione stessa di un imperativo morale in senso kantiano. Questa è senza dubbio l’idea centrale dell’opera, la linea guida, perché da essa trae ragione tutto lo sforzo ulteriore di delineare una teoria strettamente politica, nella doppia declinazione di una filosofia politica e di una filosofia del diritto.
Lo scopo estrinseco del lavoro è quello di fornire un’immagine ai politici che possano trarre ispirazione per le loro scelte. Questa seconda finalità supplementare dell’opera potrebbe essere messa in discussione, se non vengono fornite due motivazioni. La prima è data da Kant nella sua postilla iniziale:
L’autore del presente saggio pone, tuttavia, una condizione: dal momento che il politico pratico vuole guardare dall’alto in basso, con grande presunzione, al politico teorico come ad un accademico che con le sue idee inconsistenti non reca alcun pericolo allo stato (il quale deve reggersi sui principi di esperienza), e che perciò si può lasciare libero di tirare contro tutti i suoi colpi senza che l’uomo di stato pratico del mondo se ne curi, così, anche in caso di conflitto fra i due, quest’ultimo deve assumere un comportamento conseguente verso il politico teorico e non sospettare un pericolo per lo stato contro le opinioni da questi affidate alla buona sorte ed espresse pubblicamente.[3]
Non si capirebbe perché questo argomento, definito ʽclausola salvatoriaʼ da Kant, sia necessario se non perché l’autore si aspetta che il ʽpolitico praticoʼ lo possa leggere e, almeno in potenza, travisare o usare contro l’autore stesso. Inoltre è evidente che Kant lascia intendere che il politico pratico debba tener conto di quanto gli vien detto dal politico teorico (egli, vien detto, “deve assumere un comportamento conseguente”) proprio perché il politico teorico intende fare il bene dello stato almeno altrettanto del politico pratico (per questo si veda il paragrafo di questo saggio 6. Il ruolo del filosofo all’interno del progetto della pace perpetua).
V’è una seconda motivazione per la difesa dello ʽscopo estrinsecoʼ sopra definito: Kant sostiene che in genere i politici non hanno il tempo materiale per porsi problemi filosofici anche moralmente rilevanti e, in quanto tali, fondamentali anche da un punto di vista politico, per questa ragione i filosofi devono essere lasciati liberi di professare la loro opinione, proprio perché solo in questo modo può instaurarsi un circolo virtuoso tra filosofia e politica (su questo si avrà da parlare più sotto). Per tutto quanto appena detto, è evidente che Kant è ben consapevole di fornire un ideale politico concreto, nel quale confida realmente e che crede realizzabile. Da grande filosofo, Kant sa bene che per avere una chance di esser preso sul serio dal mondo della politica deve anche dimostrare che la pace perpetua non è solo un ideale filosofico astratto ma una possibilità reale (in questo senso, la definizione di ʽprogetto filosoficoʼ e non di ʽprogetto politicoʼ presente nel sottotitolo dell’opera potrebbe ancora rientrare nell’approccio prudenziale di Kant).
Per raggiungere i due scopi prefissati, Kant si avvale di uno stile argomentativo piuttosto lineare, per quanto non sempre semplice. Inoltre, la dimensione stringata dell’opera potrebbe essere dovuta alle motivazioni propriamente pratiche del lavoro. In questa dimensione, Kant si avvale soprattutto di argomentazioni di filosofia politica e, al più, di filosofia del diritto proprio perché ha in mente un destinatario ben preciso: il politico pratico più ancora che il filosofo del diritto o gli amministratori della giustizia.
[1] Kant I., (1795), Per la pace perpetua, Rizzoli, Milano, p. 94.
[2] Ivi., Cit., p.79.
[3] Ivi., Cit., p. 47.
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