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L’isola del tesoro è un romanzo di Robert Luis Stevenson, edito nel 1883. Esso occupa un posto unico all’interno dei classici della narrativa di ogni tempo e di ogni società. Ben al di là di un semplice romanzo d’avventure per ragazzi, esso rientra all’interno di quei lavori che, grazie al genio di uno solo, hanno nobilitato tutta l’umanità.
L’isola del tesoro è la storia di Jim Hawkins, un giovane ragazzo, figlio di una coppia di albergatori. Le vicende del giovane Jim iniziano quando arriva alla locanda, l’Admiral Benbow, un uomo contraddistinto da un grande abbronzatura e una cicatrice. Egli si chiamava Billy Bones, ed era un vecchio lupo di mare, dai modi di fare piuttosto bruschi e, talvolta, violenti. Billy è un pessimo bevitore, sia perché ingurgita di continuo grandi quantità di liquore, sia perché i suoi modi dopo ogni bevuta divengono ancora meno affettati. Dopo qualche tempo, il padre di Jim si sente male. Contemporaneamente la vita all’Admiral Benbow sarà ancora più movimentata per l’arrivo di alcuni personaggi, primo dei quali Cane Nero. Ma è l’arrivo di un oscuro viandante a dare inizio alle tribolazioni di Jim: il cieco, storpio e vecchio Pew. Costui doveva vedere assolutamente Billy Bones perché doveva consegnargli qualcosa, che si scoprirà, poi, che era un marchio di condanna per Billy. Jim non fa in tempo ad assorbire il lutto del padre, che subito è costretto a fuggire dalla locanda, sua casa. Billy Bones consegna in punto di morte un pacchetto a Jim, intimandogli di tenerlo nascosto.
Billy non fa in tempo ad attendere l’arrivo dei suoi vecchi compagni, che muore, stroncato dalle conseguenze della sua vita irregolare e delle sue grandi bevute. La madre di Jim e Jim, ben sapendo che sarebbero presto giunti i pirati per trovare quel che Billy aveva lasciato loro, chiedono aiuto ai compaesani, senza trovare nessuno disposto a dare loro una mano: una testimonianza interessante della ben nota cooperazione del mondo rurale preindustriale. Soli al mondo, Jim e la madre cercano di fuggire e mettersi in salvo. Sarebbero stati ben presto presi se non fosse giunto al galoppo il medico e guardia della contea, il dottor Livesey, mandato a chiamare dagli abitanti del paese. Livesey prende con sé Jim e, insieme, raggiungono la casa del signor Trelawney. Livesey e Trelawney già avevano intuito cosa poteva contenere il pacchetto di Jim: la mappa del tesoro del pirata Flint. Decidono di andare a scovare il tesoro: Trelawney è l’armatore della barca e finanziatore della spedizione, Livesey il medico, Smollett il capitano, Jim il mozzo. La ciurma è composta da alcuni marinai che non piacciono molto al capitano Smollett, il quale si lamenta veementemente con Trelawney del fatto di non essersi potuto scegliere i marinai, scelta che gli sarebbe spettata in qualità di comandante. E non aveva torto. Tra la ciurma, in realtà, stava gran parte della feccia che accompagnava Flint nelle sue scorribande. Tutti erano pericolosissimi, a iniziare da Hands. Ma, più di tutti, il più astuto, malvagio e sobillatore era il cuoco di bordo, Long John Silver.
Silver era uno dei pochi in grado da far tremare di paura lo stesso Flint, che non avrebbe ceduto lo sguardo e il passo a Satana in persona. Silver è un personaggio mefistofelico, oscuro e lucente, capace di cambiare continuamente bandiera, addirittura anticipando il vento e la corrente. L’ammutinamento avviene nel momento esatto in cui l’Hispaniola, la barca, giunge all’isola del tesoro. Ma, grazie a Jim, che scopre i raggiri di Silver in modo inaspettato, i marinai fedeli a Trelawney riescono a salvare se stessi e una parte degli equipaggiamenti e portarli a terra. I pirati prendono possesso di una zona malsana dell’isola, quella direttamente di fronte a dove avevano ormeggiato la barca. Trewlawney e gli altri giungono al fortino costruito a suo tempo da Flint in una posizione strategica: era irraggiungibile dal cannone dell’Hispaniola ed era facilmente difendibile, anche in condizione di grande svantaggio numerico. Jim Hawkins, sceso insieme ai pirati con una scusa, scappa e scopre l’esistenza di un abitante dell’isola, il vecchio pirata abbandonato, Ben Gun, personaggio rabbonito dalla lunga presenza sull’isola, ormai deciso a evitare di rientrare all’interno della pirateria. Nel frattempo, i pirati tentano un assalto al fortino, senza successo.
Nel frattempo, Jim prende accordi con Ben Gun, il quale ha ben compreso la situazione e lo consiglia per il meglio, in modo da potersi fare accettare all’interno del gruppo di Livesey e Trewlaney. Jim, dunque, finisce per convincere Livesey della bontà di quello strano personaggio, bontà d’indole che non assicura anche la lucidità di intelletto. Durante la battaglia tra gli ammutinati e gli altri, Jim scappa e recide il cavo che lega l’Hispaniola all’ancora, in modo tale da costringere i pirati a considerare sempre più precaria la loro situazione. Consapevole di questa situazione, privi di una barca con cui tornare indietro e ben consapevole del fatto che un nuovo vascello sarebbe giunto dopo due mesi a portare aiuto al capitano, al medico e all’armatore, Long John Silver tenta una mediazione con Trewlaney e Livesey. Jim, nel frattempo, riesce a portare in salvo la barca, raggiungendola dopo lunghi sforzi grazie alla precaria canoa costruita da Ben Gun. Durante il salvataggio dell’Hispaniola Jim Hawkins uccide il pirata Hands, per salvare la sua stessa vita e non prima di essere stato colpito di striscio dal pugnale del temibile pirata. Long John Silver è, ormai, preso da due fuochi: da un lato è costretto a prendere atto della difficoltà della sua posizione, da un altro i suoi compagni lo ritengono sempre più il principale fautore della loro disfatta.
Jim torna al fortino e scopre, con sgomento, che è ormai controllato dai pirati. Sgomento che aumenta per via dell’incertezza: i suoi compagni erano morti? Long John vede in Jim la sua salvezza, o l’unica sua speranza. Decide di usarlo per poter trattare con Livesey e i suoi, i quali si erano ritirati dal fortino con oscure intenzioni. Quando Jim e Livesey si parlano, la sorte dei pirati è chiaramente segnata. E lo sgomento maggiore arriverà loro quando scopriranno che il tesoro era stato precedentemente disseppellito! La fine, per quanto molto nota, la lasciamo a chi ha la fortuna di poterla scoprire per la prima volta.
L’isola del tesoro è uno dei capolavori della narrativa di ogni tempo, scritto da uno dei più grandi scrittori di sempre. Jim Hawkins è il giovane uomo che viene iniziato ai problemi della vita ma che rimane ancora all’interno della magia della giovinezza. Stevenson riesce a tradurre in lettere quella sensazione interna a tanti ragazzi che, nell’età felice, si immaginano sempre al centro delle vicende umane, all’interno delle quali giocano un ruolo di primo piano, decisivo. Hawkins è il ragazzo che immagina sé come l’eroe buono e lo diventa mediante azioni fortunose e coraggiose, dense di generosità e festoso senso di vita che vive pienamente se stessa. Ciò non toglie che egli sia in grado di temere per la sua vita, di avere un senso di paura immaginifico, come quello di tanti ragazzi. Ma la sua vittoria è sempre felice, in grado di portare il meglio per sé e per gli altri. Degli altri personaggi, soltanto Long John Silver ha un carattere peculiare e definito ma, prima di poterne parlare, sarà bene introdurre la metafora dominante nel romanzo: i pirati e l’ordine pubblico. I pirati sono tumultuosi, paurosi, temerari, passionali, emotivi, continuamente dominati dagli istinti più primordiali. Sono facinorosi, abituati a trovare accordi e ancora più avvezzi a disfarli. Essi sembrano rappresentare quel mondo in cui la civiltà è labile, cioè la base di ogni società civile propriamente intesa.
Ogni società complessa porta dentro di sé il residuo della violenza della bestia, della disorganizzazione e disorganicità degli esseri abbandonati a sé stessi. Così, i pirati sono bestiali e violenti, eppure costituiscono il nocciolo duro che pulsa dentro la società e contro la quale la società civile si scaglia per cercare di dare un fondamento ordinato a sé stessa. La ciurma disorganizzata e violenta non è altro se non quel sostrato umano che non si piega a nessun ordine e che non segue nessuna strada, anche quando cerca di dare sfogo all’egoismo, egoismo che non si traduce mai in guadagno, ma solo in un momento di soddisfazione narcisistica, infantile e sensuale: tutti i pirati descritti (con l’importante eccezione di Silver) dilapidano tutti i loro averi (Billy Bones, Pew, Ben Gun…), perché vogliono consumare tutto nel momento, non sono in grado di pianificare e odiano qualunque genere di restrizione.
Il contraltare della marmaglia violenta, brutale e così vitale è offerta dai borghesi e dagli “uomini di stato”: Trelawney, Livesey e Smollett. Smollett, il capitano saggio e burbero, rappresenta lo stato costituito, le regole sociali che, per quanto possano non piacere, sono da rispettare per il bene di tutti, bene che non sarà mai comprensibile per il pirata che, per definizione, è incapace di considerare il bene comune. Trelawney è colui che da sostanza alla legge: egli è il suo braccio violento, quello a cui tocca fare il lavoro sporco: eliminare, uccidere (ma non assassinare) i pirati. Quando la società riconosce un corpo esterno, cioè un corpo fisico e pulsante, vitale ma che non si inserisce come un guanto dentro il suo modo di operare, deve eliminarlo e questo lo si deve fare nel modo migliore possibile, possibilmente senza spargimento di sangue. Il dottor Livesey, in fine, rappresenta l’elemento sociale positivo, che produce il bene comune anche quando è contrario al suo personale tornaconto: egli cura i pirati perché lo ritiene giusto, a prescindere dal fatto che se lui fosse stato male, nessuno dei pirati lo avrebbe aiutato. Non solo, Livesey sa benissimo che aiutare i pirati è un male per loro, perché quando staranno meglio non saranno certo riconoscenti. Ma lo fa lo stesso, perché la società tende a riconoscere un valore all’essere umano, a prescindere dallo stato di interesse specifico. La società è umanitaria, l’uomo non è umanitario.
La doppia essenza della vita umana, nel suo perenne stato di conflitto tra ordine sociale e disordine naturale, tra violenza, amore per il sangue e la legge e amore per l’ordine, è rappresentata a Long John Silver, il più ambiguo tra i personaggi: egli segue solo la convenienza, egli è la sublimazione del pirata all’interno della società. Non è più la nuda pura bestia, ma è l’uomo che sa di esserlo e vuole prevaricare gli altri con mezzi più sottili, mezzi che non disdegnano né la società né l’ordine ma sfruttano sia la società che l’ordine se ciò può essere vantaggioso. Silver gioca continuamente tra i pirati e gli organizzati, in modo tale da cercare di sfruttare sempre le opportunità migliori e più fruttuose. Egli sa usare la violenza del pirata, ma sa essere un buon ragioniere delle proprie finanze. Egli può essere brutale come una bestia feroce, ma sa essere gentile al momento giusto. Egli può avere gli occhi dell’assassino, e rivolgere sguardi amorevoli all’occorrenza: egli è la via di mezzo, il punto di medietà tra l’uomo sociale e l’uomo feroce. Egli è l’essenza pura di quello che ha comportato l’avvento della società a coloro i quali non la capiscono, ma sanno che con essa devono scendere a compromessi. Long John avrebbe capito benissimo che rubare può essere sconveniente. Ma anche conveniente. E questo si gioca sul momento, non sul principio. E’ pur sempre un egoista, ma ha imparato, a suon di legnate, che si può essere migliori egoisti se si sa stare al proprio posto. Questo è il riassunto del suo personaggio e lo lasciamo in chiusura all’analisi perché ci è impossibile sostituirci all’autore e al suo genio unico:
Ma se fossi sicuro che delirassero, come sono certo che almeno uno di loro è prostrato dalla febbre, abbandonerei questo campo, e, a qualsiasi rischio della vita, porterei loro il soccorso della mia professione. [dice Livesey]
– Vi chiedo scusa, signore, ma avreste torto marcio, – rispose Silver. – Ci lascereste sicuramente la vostra preziosa vita. Io sto dalla parte vostra, adesso, in tutto e per tutto, e non vorrei vedere il nostro partito indebolirsi, privo di voi, sapendo, come so, quanto vi devo. Ma quegli uomini laggiù non saprebbero mantenere la loro parola: no, nemmeno se lo volessero, e, peggio ancora, non potrebbero credere che manterreste la vostra.
– Già, – disse il dottore. – Siete voi quello che mantiene la parola, si sa.[1]
Tutti gli uomini, dunque, si ritrovano uniti all’interno di quell’unico vascello e di quell’unica isola. Questo perché, in fondo, tutti vogliono trovare il proprio tesoro, e per farlo sanno che non possono fare a meno l’uno dell’altro. La storia dell’umanità, in fondo, è tutta qui: la ricerca di un tesoro di cui si sa poco o nulla, ma che è l’unica cosa che valga la pena di essere cercata. Anche quando questo implica rispettare delle regole o accettare di dover avere a che fare con la violenta torma umana.
La prosa di Stevenson è talmente scorrevole da farsi passare sotto silenzio. Eppure è così precisa, così ricca da essere di per sé considerevole, sotto il piano stilistico. Egli è uno scrittore pulito, in grado di tracciare un’intera visione del mondo in due parole, che appaiono così semplici da risultare facili, errore nel quale in molti sono caduti. Stevenson, invece, è un genio nobile, capace di trasformare l’interiorità del lettore mediante le sue parole, trasportandolo nelle strade che vuole lui, con i sentimenti che egli predilige e desidera. Stevenson, uno dei più grandi scrittori della storia insieme a Guy de Maupassant, con il quale condivide la prosa ma non la visione del mondo.
ROBERT LUIS STEVENSON
L’ISOLA DEL TESORO
EINAUDI
PAG.: 238
EURO: 8,50
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