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Consigliamo Filosofia della mente e l’intervista al professor Silvano Tagliagambe
La teoria della mente di Chalmers in una delle sue formulazioni preliminari. Una lettura critica che ne enuclea gli aspetti teorici valutandone le premesse e, soprattutto, considerandone problematicamente le conclusioni speculative.
Introduzione
Per poter, dunque, attribuire all’uomo il suo posto nel sistema della natura vivente, e cosi caratterizzarlo, non rimane altro che dire che ha quel carattere che egli stesso si procura, in quanto sa perfezionarsi secondo fini liberamente assunti; onde egli come animale fornito di capacità di ragionare (animal rationabile) può farsi da sé un animale ragionevole (animal rationabile).
Immanuel Kant, Antropologia pragmatica, II, E
Numerose teorie filosofiche o scientifiche sulla coscienza si avvicendano oramai da anni sulla scena della ricerca contemporanea rivolta al mentale e, fin troppo spesso, alla celebrazione di questo massiccio sforzo intellettuale corrisponde la puntuale rassegnazione dinanzi al fallimento, reale o presunto, di ognuna di queste. Un accurato studio delle dottrine adesso disponibili non rende possibile che un giudizio ed uno solo in merito: non esiste al giorno d’oggi una teoria sulla coscienza realmente e totalmente preferibile alle altre. L’aporia della coscienza appare sempre più come un rebus di cui non si riescono ad interpretare le componenti simboliche, mutilazioni successive della sua unità la hanno lentamente ridotta al grado di mistero e predicata d’una forma fenomenica che la renderebbe impermeabile al pungolo della ricerca scientifica. In una selva di soluzioni più o meno soddisfacenti in relazione ad esigenze sempre più particolari non mi prefiggo certo di proporre una soluzione che metta tutti d’accordo e, almeno per ora , di proporre alcun ché. Il desiderio che da studente mi spinge a condurre una ricerca sulla coscienza e le teorie ad essa legate è soltanto quello di ottenerne chiarezza riguardo un problema che coinvolge innumerevoli aspetti dell’impegno intellettuale umano. Già Sellars nel suo saggio, La Filosofia e l’Immagine scientifica dell’Uomo, ci indica come obiettivo della filosofia quello di accordare l’immagine manifesta dell’uomo-nel-mondo con il suo corrispettivo scientifico, la sfida che la coscienza costituisce può essere ben accostata a quella che Sellars considera nel suo saggio, la nozione di persona si avvicina a quella di coscienza ed i tentativi di costruire un’immagine scientifica di quest’ultima, ancora latitante, possono rappresentare in modo particolarmente efficiente quel paradosso che l’autore aveva riconosciuto nel particolare processo che porta l’immagine manifesta a divenire scientifica a costo di perdere ciò che la rende tale, ovvero l’esistenza delle persone. Ecco come Sellars ci enuncia molto sinteticamente, come da suo stile, il problema :
“L’uomo è ciò che è perché concepisce se stesso come persona, ma quella sua stessa concezione di sé e del mondo si evolve fino a dar luogo ad una nuova immagine del mondo che non contempla al proprio interno nulla di simile alle persone”[1]
Non è difficile immaginarsi che da un’aporia di questo genere siano nati buona parte degli approcci anti-riduzionisti alla coscienza, tuttavia da essa può sorgere anche un’opzione che, rifuggendo l’aperta contraddizione, opta per una direzione semplicemente contraria rispetto alla soluzione non accettata. Se il riduzionismo non è accettabile perché comporterebbe la cancellazione di tutte quelle occorrenze che fanno della coscienza la coscienza e l’anti-riduzionismo non è percorribile perché di contro accetterebbe ciecamente il mistero che quest’ultima costituirebbe, allora non ci resta che rivolgerci verso una strategia non-riduzionista che possa costituire una reale e valida alternativa a quegli approcci che si sono rivelati come falsi o insoddisfacenti. Prendendo atto di quest’ultimo potenziale tragitto esplicativo, e convinto che una teoria controversa riveli molto dei problemi che le interessano anche e ,soprattutto, attraverso le molte critiche a cui può essere soggetta, nei paragrafi seguenti con l’analisi di una particolare teoria filosofica che si caratterizza, per l’appunto, come non-riduzionista, e che è stata proposta dal filosofo australiano David Chalmers. Quest’ultima non può certo dirsi una soluzione ortodossa al problema della coscienza e come vedremo si presta ad ogni sorta di critica, tuttavia essa conserva un approccio di notevole interesse ai problemi che la coscienza, soprattutto nella sua variante squisitamente fenomenica pone, e propone in sede conclusiva un ancor più stimolante speculazione riguardo una particolare nozione di informazione che, pur inadeguata a svolgere il ruolo che il filosofo australiano le affida, rappresenta un ottimo termine di paragone con le altre poche teorie che hanno fatto uso di un parametro del genere. In conclusione debbo ammettere che, ragioni quali il tempo e ,soprattutto, lo spazio a disposizione mi hanno permesso di adottare una formulazione preliminare di questa teoria riportata nell’articolo, Facing Up the Problem of Consciousness[2], che, pur non prendendo in considerazione tutti gli aspetti problematici relativi alla giustificazione del punto di vista in oggetto, riassume efficacemente le assunzioni preliminari e soprattutto le conclusioni speculative della teoria già nominata. [3]Inizialmente proporrò un
- Il mondo della mente cosciente
La teoria di David Chalmers oltre ad aver riscosso una certa attenzione da parte della platea di intellettuali interessati al problema, propone un approccio decisamente controverso al mentale ed al modo in cui esso si realizza nel mondo. Il suo rifiuto di una soluzione riduzionista, associato all’adozione di un approccio funzionalista di certo non può che attrarre l’attenzione. Eppure per sostenere che questo genere di proposta sia coerente, egli deve comunque portare delle giustificazioni convincenti e soprattutto un valido resoconto delle impressioni preliminari che supportano, almeno prima facie, la sua presa di posizione. Impressioni queste che, soprattutto nel caso di teorie che affrontano la coscienza[4], hanno origine da un’osservazione del mondo e dalle prime idealizazioni costruite su di queste. Non resta dunque che trarre, almeno in questo primo frangente, dalle premesse della teoria stessa le classificazioni che definirebbero il mondo, o lo spazio concettuale, da cui questa proposta teorica si dovrebbe articolare. In primo luogo dobbiamo notare che il mondo che il filosofo australiano ci presenta è un mondo in cui la coscienza è un fenomeno reale, di cui è necessaria una spiegazione e non eludibile tramite una semplice strategia scettica. La coscienza quindi esiste e di essa è possibile una spiegazione, ma quest’ultima non è di natura alternativa a quella scientifica, o comunque riferentesi ad un dominio ontologico altro rispetto a quello proprio del mondo in cui si realizza, bensi appartiene al medesimo dominio naturale che coinvolge le proprietà fisiche. La coscienza dunque sarà anch’essa una proprietà di un individuo sorta dalle proprietà fisiche di questo, sebbene indipendente da queste, e ad esse nomo logicamente legato[5]. Ma la coscienza come fenomeno del mentale non risponde univocamente ai tentativi di indagine che la interessano. I problemi che essa solleva, riconosce Chalmers, possono essere distinti in due differenti classi[6]: esiste un “problema facile della coscienza”, che coinvolge i contenuti prettamente psicologico-cognitivi del fenomeni ed a questo segue un “problema difficile della coscienza”, rivolto ai suoi contenuti prettamente qualitativo-fenomenici o, altrimenti detto, ai qualia. Nonostante la presente distinzione sia prettamente euristica, senza che da essa ne consegua l’esistenza di due differenti apparati di coscienza, essa comporta conseguenze notevoli per lo sviluppo della prospettiva teorica e merita dunque di essere considerata più attentamente. Volendo quindi definire in modo più specifico la coscienza cognitiva, nell’intenzione di cogliere le motivazioni della presente distinzione, si possono ascrivere ad essa le seguenti facoltà:
ü l’abilità di discriminare, categorizzare e reagire agli stimoli ambientali;
ü l’integrazione dell’informazione da parte di un sistema cognitivo;
ü la riportabilità degli stati mentali;
ü l’abilità di un sistema di accedere ai propri stati interni;
ü la concentrazione dell’attenzione;
ü il controllo deliberato del comportamento;
ü la differenza rispetto vigilanza e sonno.[7]
La coscienza cognitiva racchiuderebbe quindi in se tutti quei fenomeni, dicendolo con l’autore, “in cui confidiamo che i metodi delle scienze cognitive e della neuroscienza potranno avere successo”[8]. Sebbene lo scetticismo con cui è possibile accogliere un simile criterio sia del tutto legittimo, viste soprattutto le suo ovvie conseguenze, non ci resta che procedere con la componente fenomenica della coscienza; se, del resto, ora sappiamo che la sua controparte già citata ha buone chances di giungere ad una spiegazione soddisfacente, sarà questa a costituire il vero problema per una completa teoria sul mentale. La coscienza fenomenica, o esperienza cosciente [9]utilizzando la terminologia introdotta dall’autore, si qualifica innanzitutto come non riconducibile ad una spiegazione di ordine funzionale, o comune impermeabile alle metodologie proprie delle scienze cognitive o della neuroscienza. Non potrebbe dunque esistere una spiegazione funzionale della coscienza, oppure non esisterebbe una funzione cognitiva la cui spiegazione basterebbe ad esaurirne le caratteristiche. Il solo avvicendarsi di fenomeni funzionalmente e relazionalmente caratterizzabili non pare essere sufficiente a rendere conto della nostra ricchezza interiore. In tal caso sarebbe dunque necessario concentrare i nostri sforzi su quel “qualcosa in più” che ci renderebbe coscienti. Avendo infine delineato i punti cardine su cui le successive formulazioni andranno a dipanarsi, possiamo ora andare a definire con maggiore chiarezza l’originaria descrizione del mondo a cui sino ad ora il filosofo australiano ha fatto riferimento.
Questo sarà dunque :
- Un Mondo in cui la coscienza è un fenomeno realmente esistente;
- in cui l’esperienza cosciente è genuinamente indagabile secondo una strategia razionale;
- in cui la coscienza segue dalla base fisica condivisa;
- ed in cui la coscienza è un fatto ulteriore rispetto al fisico, pur rimanendo però un fenomeno naturale e non ontologicamente separato, e necessita quindi di un tipo di analisi genuinamente differente.
È in questo approccio germinale al problema ed alla propria cornice concettuale che si affermeranno le radicali differenze fra le offerte teoriche sul mentale. Confutare la prima premessa prefigurerà una strategia eliminativa rispetto all’esperienza cosciente. L’approccio sistematico alle successive premesse comporterà una progressiva declinazione verso il riconoscimento di uno status particolare dell’esperienza cosciente rispetto al sostrato in cui essa si realizza. Non ci rimane adesso che trovare quegli argomenti non superficiali che giustificherebbero queste prime implicazioni; quelle ulteriori idealizzazioni che ci condurrebbero sempre più prossimi ad una descrizione scientifica della coscienza e del mondo in cui essa, e come abbiamo visto una particolare concezione di essa, andrà a realizzarsi.
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La fondazione della mente cosciente
1. I primi passi verso una teoria fondamentale
Date le assunzioni preliminari passiamo ora alle giustificazioni loro necessarie. Chalmers, volendo proporre una teoria sulla coscienza non riduttiva che non si basi: né sulla sua eliminazione, né per ovvie ragioni sulla sua riducibilità al fisico e men che meno sulla rassegnazione che seguirebbe all’ammettere il mistero della coscienza, ha la necessità di affermare sin da subito la necessità di un fondamento[10] da utilizzare come solido punto di partenza per la proposta teorica in questione. La scelta ricade non a caso sull’esperienza cosciente, un correlato della coscienza tutto sommato assimilabile a quella che altri hanno denominato coscienza fenomenica, di fatto l’unico fenomeno della coscienza che costituisca un vero problema per le odierne teorie sul mentale. Tuttavia questa strategia non è esente da problemi, neppure in una fase cosi germinale. Assumere infatti come explanans l’explanandum stesso, oggetto della teoria, potrebbe sembrare a molti, me compreso, una strategia piuttosto sospetta[11], tuttavia l’autore replica a certe perplessità portando a sostegno della propria strategia alcuni esempi tratti dalla fisica teorica. Se difatti in fisica si possono assumere come fondamentali dei costrutti puramente teorici come la massa o lo spazio-tempo senza che si senta la necessità di indagarne poi l’effettiva corrispondenza alla realtà, allora non ci sarebbero ragioni per cui si dovrebbe respingere la sua posizione riguardo l’esperienza cosciente. L’ulteriore spiegazione dei fenomeni del mondo ha, spesso e volentieri, comportato l’espansione del nostro vocabolario ontologico e l’autore ne prende atto, portando però a sua difesa l’esempio di Maxwell e della sua teoria sull’elettromagnetismo [12]. L’assunzione da parte di quest’ultimo di entità teoriche quali la carica elettromagnetica e la forza elettromagnetica costituirebbe una chiara estensione del nostro vocabolario ontologico, necessaria per riuscire a manipolare un fenomeno prima impermeabile all’indagine scientifica. Una ulteriore definizione di quest’ultima formulazione potrebbe far notare che il caso portato ad esempio non prende come fondamentale l’oggetto stesso della propria teoria, ma enti collaterali ad esso legati. Si potrebbe però replicare a ciò sottolineando che l’esperienza cosciente potrebbe essere, parimenti, solo una delle caratteristiche connesse al fenomeno unitario della coscienza, anche se, per stessa ammissione dell’autore, questa caratteristica sarebbe proprio l’unica a necessitare di un approccio genuinamente differente nell’intenzione di ottenerne una spiegazione valida. Immagino, tutto sommato, che l’unica vera soluzione al dilemma sia quella di ammettere che una simile serie di problemi segue necessariamente ad ogni tentativo di introdurre figure ontologiche nuove all’interno di un panorama piuttosto affollato[13]. Tuttavia possiamo difendere in ultima analisi la prospettiva di Chalmers prendendo atto della presenza di una costante anche a fronte della multiformità delle teorie sul mentale e sulla coscienza in genere. L’intuizione che riguarda le nostre sensazioni concomitanti al mero contenuto cognitivo deve sostanzialmente essere assunta come fondamentale, almeno in partenza, da ogni teoria rivolta all’indagine del fenomeno cosciente. Sarà solo in sede conclusiva che si configurerà l’effettiva descrizione del mondo a cui la teoria in oggetto sarà pervenuta e sarà solo in quel momento che si realizzerà una reale distinzione, anche fondamentale, fra i vari approcci teorici disponibili. In sostanza quindi anche strategie teoriche del tutto divergenti condividono la medesima immagine manifesta di partenza, differendo solamente per la descrizione del mondo data nella loro sintesi. Ciò detto possiamo accettare la premessa del filosofo australiano senza scendere a eccessivi compromessi e concludere questo breve paragrafo con le sue stesse parole.
“Come noi spieghiamo fenomeni di alto livello a noi familiari che coinvolgono la massa attraverso il ricorso a principi più semplici coinvolgenti la massa ed altre entità, noi possiamo spiegare fenomeni di alto livello che coinvolgono l’esperienza cosciente nei termini di principi più semplici coinvolgenti l’esperienza ed altre entità.”[14]
2. Verso tre principi fondamentali
L’esperienza cosciente, assunta a fondamentale, oltre ad affermare la propria stessa natura assiomatica, troverebbe corrispondenza in leggi fondamentali che ne governano l’esistenza, oltre che, come vedremo in seguito, la coerenza con il sostrato fisico in cui si realizza. Tali nuovi principi “psicofisici” e leggi “psicofisiche“ fondamentali, dovranno quindi integrare quella collezione di leggi di natura[15] già resaci disponibile e cooperare con esse nell’intenzione di costruire una teoria completa e, soprattutto, non riduzionista della coscienza e della realtà. La priorità di una teoria della coscienza sarà dunque spiegarci come l’esperienza dipende dalle proprietà fisiche del mondo e non, come forse potevamo aspettarci, dirci perché la coscienza esiste. D’altra parte, come forse si poteva già intuire dalle considerazioni fatte poc’anzi, ciò è una conseguenza diretta dell’assunzione dell’esperienza cosciente a fondamento della teoria. L’esistenza di una proprietà, assiomaticamente definita come l’esperienza, separata per occorrenza dalle proprietà fisiche del mondo e non per determinazione ontologica, affermando ad ogni modo la propria “relativa” indipendenza non può dar luogo infatti che ad una forma di dualismo. Un dualismo che dovrà però essere sui generis sin dalle prime battute, dovendo, per necessità di coerenza interna, concentrarsi non tanto sulla demarcazione delle proprietà fisiche e mentali di questo mondo, ma a promuovere invece la chiusura di quella distanza che separa le due occorrenze attraverso l’ausilio di una strategia filo-scientifica e non riduttiva che accetti l’introduzione di principi “psicofisici”, o altrimenti detti ponte[16]. Chalmers individua almeno tre di questi principi: i primi due si sviluppano attorno alla corrispondenza di alto livello che sussiste fra l’esperienza cosciente e la coscienza cognitiva[17], mentre l’ultimo principio, portato come candidato ad essere un principio d’ordine foondamentale[18], dovrebbe invece stabilire una reale corrispondenza fondamentale non soltanto racchiusa nel dominio del mentale, ma estesa secondo coerenza alle proprietà fisiche da cui il mentale deriva. Non ci rimane ora che procedere con una disamina attenta di tali principi, dato che sarà proprio al peculiare natura di essi a definire in modo cosi chiaro la natura poco ortodossa della teoria in questione.
3. Il principio di coerenza strutturale
Il primo fra questi principi, battezzato Principio di coerenza strutturale, suggerisce sin da subito la propria carica speculativa stabilendo un legame di corrispondenza forte fra le strutture dell’esperienza cosciente e quelle della cognizione. La cognizione, o awareness, merita ora particolare attenzione perché è proprio grazie ad una attenta ridefinizione di questa che è possibile operare una simile inferenza. L’autore ci spinge infatti a ripensare la coscienza cognitiva secondo il particolare parametro che è quello della disponibilità dell’informazione per il controllo globale [19]. Secondo quest’ultimo ad una prima approssimazione possiamo stabilire che i contenuti della coscienza cognitiva siano quei contenuti direttamente accessibili per il controllo del comportamento da parte di un sistema centrale e potenzialmente riportabili da questo, perlomeno linguisticamente. Sebbene una soluzione simile non appaia apportare particolari novità alla semplice caratterizzazione di ordine funzionale dataci nelle prime battute, soltanto la successiva analogia fra i contenuti della cognizione e quelli dell’esperienza cosciente ci svela la portata della precisazione operata soltanto poche righe fa. Se infatti stabiliamo che l’esperienza cosciente occorre in tutti quei casi in un’informazione è direttamente disponibile per il controllo globale da parte cognitivo ed altrimenti, ecco allora che la conclusione che porta al principio di coerenza strutturale trova ora un’ottima ragion d’essere. In generale, almeno secondo Chalmers, noi potremo quindi affermare che “ogni informazione che è coscientemente esperita sarà al contempo cognitivamente rappresentata”[20], scovando quindi un principio psicofisico capace di suggerirci le strutture stesse dell’esperienza cosciente a partire dall’organizzazione strutturale di un fenomeno passibile di una ben più agevole analisi, ovvero la coscienza cognitiva, ma, dobbiamo notare, ancora insufficiente a fornire un nesso abbastanza forte da supportare leggi fondamentali ad una teoria sulla coscienza. Prima di concludere non ci rimane che apportare il nostro contributo critico alla soluzione propostaci. Innanzitutto non sarebbe illegittimo affermare che, sebbene vi siano casi sperimentali che verifichino questa soluzione, ve ne sono anche altrettanti che non evidenziano in modo altrettanto chiara una simile coerenza fra l’esperienza cosciente e la coscienza cognitiva. Se difatti il principio adottato fa propria l’eventualità in cui ad ogni contenuto fenomenico corrisponde un rappresentazione cognitiva e vice versa, allora basterà chiedersi se si danno casi in cui è possibile la presenza dell’uno senza che occorra anche l’altro. Casi di blindsight possono costituire un valido contro-esempio, ma oltre a questo possono essere aggiunte al novero anche: agnosie, aprassie, conseguenze da lesioni alla corteccia prefrontale[21], amnesie selettive e, perché no, anche la stessa esperienza onirica. Se qualsiasi caso sperimentale può quindi esser preso a sostegno di una simile ipotesi, allora, ciò dato, l’assunzione che ne fa l’autore ne risulterebbe piuttosto arbitraria, soprattutto a fronte del fatto che simili fenomeni ci appaiono ancora tutto fuorché chiari. Infine anche se il principio di coerenza strutturale dovesse sopravvivere a questo genere di critica, ne rimarrebbe comunque mutilato a tal punto da essere ridotto alla semplice definizione che Block ci consegna di coscienza d’accesso, ossia una mera funzione cognitiva che ci renda accessibile l’esperienza cosciente. In tal caso non avremmo più una corrispondenza biunivoca fra l’esperienza cosciente e la consapevolezza, ma solo una concorrenza che potremmo per lo più definire come accidentale. A tal punto tutto ciò ci basterebbe per poter opporre un netto rifiuto dinanzi a qualsiasi tentativo di restaurazione del principio di coerenza strutturale, tuttavia non ci rimane che sospendere la carica critica nell’intenzione di voler meglio comprendere la proposta teorica del filosofo australiano e procedere verso il secondo dei principi non fondamentali indicatoci.
4. Il principio di invarianza organizzativa[22]
Nell’ordine di costruire progressivamente una serie di requisiti ancora più stringenti la proposta dell’autore svela la vocazione funzionalista fino ad ora rimasta parzialmente sopita. Il principio sunnominato difatti afferma:
“Dati due sistemi dotati della stessa esatta organizzazione funzionale[23], questi avranno esperienze qualitativamente identiche.” [24]
Non soltanto quindi avremo una coerenza interna al singolo sistema cosciente fra la sua coscienza fenomenica ed il suo corrispettivo cognitivo, ma si realizzerà anche una coerenza fra la realizzazione funzionale che rende tale sistema cosciente e le esperienze coscienti provate da tutti quei sistemi identicamente realizzati. Nell’ordine di difendere la propria assunzione, Chalmers si trova ora nella posizione di dover affermare un principio che renda possibile l’applicazione del principio di coerenza strutturale in ambiti che travalichino il mero caso individuale. La semplice applicazione di questo principio non ci provoca particolare grattacapi, tutto sommato appare piuttosto plausibile che un simile stato di cose si possa realizzare senza incorrere in palesi contraddizioni. Malgrado ciò saranno, come vedremo, gli argomenti avanzati a supporto del principio d’invarianza a costituire particolare ragione di scetticismo proprio per il particolare uso che l’autore farà della categoria di plausibilità. Seguendo il percorso indicatoci dall’autore ci basterà supporre che il già nominato principio sia falso; in tal caso noi potremmo supporre come possibili,ad esempio: due sistemi funzionalmente isomorfici capaci di differenti esperienze coscienti, uno di questi cosciente mentre l’altro non lo è e via discorrendo. Detto ciò il filosofo ci suggerisce di supporre i seguenti scenari: uno in cui sia possibile sostituire gradualmente le componenti biologiche di un cervello con dei costrutti artificiali, fino a sostituirne in toto la componente biologica, mantenendone intatta l’organizzazione funzionale ed un secondo in cui a quell’intero processo si è sostituito un interruttore che realizza immediatamente quello che prima si sviluppava attraverso un passaggio graduale[25]. Se il principio d’invarianza fosse falso noi dovremmo dunque ammettere la possibilità di casi in cui l’esperienza cosciente cambi, o scompaia, a parità di organizzazione funzionale, costringendoci di conseguenza a ritenere possibili anche gli scenari sopra descritti e quindi a supporre un’esperienza cosciente fluttuante o intermittente davanti ai nostri occhi. Chalmers ci fa qui però notare che una simile fluttuazione o intermittenza sarebbe del tutto fittizia, essa non verrebbe affatto percepita dato che l’organizzazione funzionale è rimasta invariata durante tutto il processo e cosi lo sono stati conseguentemente gli stati funzionali e le disposizioni comportamentali ad essa dipendenti. Accettare questo stato di cose renderebbe quindi possibile supporre che gli stati fenomenici fluttuino o danzino dinanzi ai nostri occhi tutto il tempo, dando origine solo a stati temporanei di esperienza cosciente e lasciandoci invece preda di esperienze coscienti erronee a fasi alterne. Inutile dire che la conclusione a cui il filosofo australiano giunge è che una prospettiva del genere subito si configura come ben poco plausibile, soprattutto se confrontata con alternativa del principio d’invarianza. La critica del caso però non si cruccia qui della conclusione a cui è giunto il filosofo, ma deve far notare che purtroppo questa è anche l’unica ragione portata a sostegno della tesi. La plausibilità da sola non può certo supportare il peso di un nuovo postulato, specialmente se si eleva quest’ultimo a principio, anche se non fondamentale, della teoria che si sta costruendo. Neppure considerando la plausibilità in senso forte, ovvero come un tipo di concepibilità ideale basata sulla propria verità a priori[26], si può portare avanti un argomento del genere visto che anche le alternative portate possono essere definite come logicamente possibili. Addurre infine che alla presenza di quest’ultima corrisponda una impossibilità nomologica o empirica è del tutto inutile, vista soprattutto che per garantire la possibilità nomologica dei casi supposti dal principio d’invarianza dovremmo supporre questo stesso come parte del corredo di leggi che li realizzerebbero. Tutto sommato il criterio oggetto di questo paragrafo non può certo dirsi come contraddittorio o incoerente, ma ciò non impone che venga assunto a principio fondamentale, di questo si potrà certo dire che sia plausibile, certamente non che sia cogente.
- 3. La teoria del doppio aspetto dell’informazione
Avendoci già avvertito riguardo il fatto che i principi sopra elencati, manipolando nozioni come “vigilanza” e “organizzazione”, costituirebbero descrizioni di livello ancora troppo alto per poter efficacemente costituire il corpo di una teoria fondamentale dell’esperienza cosciente, l’autore ci ha in parte rovinato il finale.[27]Quello che del resto potevamo aspettarci è che questi necessiti a questo punto, dopo aver postulato due principi che amministrerebbero la coerenza interna ed esterna dell’esperienza cosciente, di un vero e proprio principio costituente sostanziale della propria teoria. Sebbene la chiosa sembri da subito piuttosto scontata, il filosofo australiano ci riserva delle sorprese. Questi, rifiutando il riduzionismo ed il materialismo, è costretto sin da subito a rifiutare qualsiasi correlato fisico dell’esperienza cosciente come “basic principle” ma, sta qui la novità, la sua scelta non ricade su stati funzionali o computazionali, ma bensi su un tipo particolare di nozione di informazione costruita attorno a alla teoria di Shannon (1948)[28]. Facendo quindi sue le nozioni di “information state” e “informations space”[29] il filosofo australiano traduce quello che Shannon aveva originariamente definito come una semplice astrazione in una descrizione del mondo realmente esistente. Egli ci fa notare infatti che una simile organizzazione dell’informazione può esser rivista anche nella realizzazione fisica del nostro mondo, se infatti noi già abbiamo assunto che l’esperienza cosciente si sviluppa in coerenza con la cognizione soggiacente, allora noi possiamo a questo punto concluderne che sia l’informazione fenomenica che quella cognitiva condividano il medesimo “information space” e da qui aver le basi muoverci verso un’ipotesi naturale[30] che farebbe dell’informazione una nozione biunivoca, dotata al contempo di un aspetto fisico e di un aspetto fenomenico.
“Questo assume la forma di un principio fondamentale che potrebbe indicare e spiegare l’emergenza dell’esperienza cosciente dal fisico. L’esperienza ne deriva in virtù del fatto che è uno degli aspetti dell’informazione, quando l’altro aspetto si trova ad essere incarnato nei processi fisici.”[31]
Attraverso quest’ultima desunzione il funzionalismo non riduzionista si completa e può infine esprimere per esteso la propria carica esplicativa. Dati i tre principi, i primi due ricordiamo non fondamentali, possiamo, forti della ambiguità dell’informazione, sin da ora delineare il “tragitto” epistemico che la spiegazione percorre :
In primis il principio di coerenza ci permette di restringere un “information space” in cui sia l’informazione fenomenica che quella fisica possano realizzarsi coerentemente all’interno del medesimo sistema cognitivo definendo, grazie alla natura duplice dell’informazione, non soltanto in modo astratto le relazioni causali in gioco ma anche descrivendo efficacemente il mondo fisicamente realizzato;
In secondo luogo dobbiamo considerare l’apporto del principio di invarianzache estende il precedente “information space” oltre il dominio del singolo sistema cognitivo. Essendo l’informazione un principio di organizzazione par excellence, questa ci permetterebbe di stabilire una struttura fondamentale a cui corrisponda l’emergenza dell’esperienza cosciente, una struttura in cui sia l’esperienza fisica che quella fenomenica si possano realizzare in coerenza. Data questa struttura fondamentale non resterà che applicarvi il principio di invarianza ed otterremo il trait d’union fra i diversi sistemi cognitivi e quelle esperienza coscienti che prima per ignoranza si sarebbero considerate come misteriose date le loro caratteristiche eminentemente soggettive.
Messi di fronte a ciò , oltre ad un certo grado di suggestione, non rimarrebbe che essere entusiasti delle possibilità che un simile approccio teorico pare offrirci. Tuttavia sono molte le domande che ora sorgono, soprattutto dato il fatto che proprio l’ultima assunzione a fondamento dell’autore è proprio una nozione vaga come può esserlo quella di informazione. Difatti l’assunzione di questo come principio fondamentale dell’intero impianto teorico rischia di avere lo stesso sapore dell’iniziale assunzione a fondamento dell’esperienza cosciente. Nuovamente il filosofo australiano muove il proprio ragionamento da dei postulati che invero dovrebbero essere le conclusioni stesse della propria teoria, in più aggiunge a tali postulati uno status di fondamento che li rende assiomi prima ancora che li si possa indagare a fondo. Il risultato è una collezione di principi sostenuti dal solo termine di plausibilità, tradottosi dal principio di coerenza strutturale sino alle ultime supposizioni riguardo l’informazione, e apparentemente limitati soltanto da altrettanto vaghe nozioni come quella di semplicità, eleganza e “bellezza”.[32]La costruzione di una “cintura protettiva”[33]formata dalla coerenza interna dei due principi non fondamentali non può garantire la correttezza del nucleo teorico, formato dall’informazione intesa a postulato, specialmente quando tale cintura protettiva, come abbiamo visto, può si resistere ad un genere di critica endogeno ma deve per forza rivedere la propria carica speculativa una volta messo a confronto con una critica esogena che parte da soluzioni già esterne all’approccio teorico in uso. Se ciò inoltre non fosse sufficiente a far scemare l’iniziale suggestione, basterà osservare più da presso le conseguenze che l’assunzione conclusiva avrebbe se assunta come descrizione valida del mondo. Il panpsichismo sarebbe solo il più lampante dei problemi, quest’ultimo deriva da un uso della nozione di informazione particolarmente estraneo al contesto in cui era stato originariamente formulato, in quale semplicemente non può che dar luogo ad evidenti asimmetrie una volta che lo si adotta a principio teorico fondamentale. Il riferimento stesso all’informazione come principio d’organizzazione rende ancora più evidente la contraddizione fra la natura della nozione e l’uso che ne è stato fatto. Pur ammettendo che esso lo sia, rima ne da considerare il fatto che l’informazione si “organizza” soltanto in presenza di qualcosa, o qualcuno, che possa riconoscerla come tale. L’organizzazione sarebbe conseguente all’osservazione o comunque all’interpretazione del contenuto informativo e non potrebbe portare ad un “it from bit”, come invece sosteneva Wheeler (1990) attraverso un efficace slogan. Ciò detto ne seguirebbe che per mantenere l’assetto generale della teoria, oltre a dover rinunciare alla natura fondamentale dell’ambiguità dell’informazione, si renderebbe necessario stabilire quando una certa organizzazione da origine ad informazione, dovremmo quindi stabilire nuove regole di sopravvenienza che definiscano il principio, non basilare o fondamentale a questo punto, da cui anche l’esperienza trae le proprie regole di sopravvenienza dal fisico, col risultato di aver ottenuto una teoria tutt’altro che semplice ed elegante. Infine, prendendo atto di quest’ultima controindicazione, resta da annotare che anche volendo superare il panpsichismo la supposizione di un’aspetto fenomenico dell’informazione non garantisce che alla presenza ed all’analisi di quest’ultimo corrisponda sempre un’esperienza cosciente. Chalmers suggerisce che si potrebbe operare una demarcazione fra l’informazione fenomenica utile e quella invece inefficace alla formazione di un’esperienza cosciente, tuttavia ciò nuovamente si baserebbe sul principio di coerenza strutturale per restringere l’”information space”da cui attingere quel certo tipo di dato. Nuovamente il Funzionalismo non riduzionista tende a fare dei propri postulati le proprie conclusioni e vice-versa, la plausibilità più volte invocata è anche una delle principali ragioni per cui questo approccio si rivela cosi debole di fronte a critiche estranee alla mera valutazione di coerenza interna, ma tuttavia è proprio quest’ultima a salvarla da un critica cruciale che possa, pur falsificandone parzialmente le giustificazioni realmente stroncarne i presupposti e le conclusioni speculative.
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Considerazione finali
In sintesi, potremo affermare che le debolezze individuali riscontrate in relazione ai singoli postulati della teoria in oggetto concorrono a costruire una struttura decisamente poco stabile e spesso sorretta soltanto dalla semplice predicazione di diversità rispetto a soluzioni più ortodosse ma già invalidate. Non ci rimane che il dubbio relativo alla natura ancora approssimativa in cui la teoria in oggetto si trova nell’articolo da noi affrontato, tuttavia, come ho già spiegato in apertura, pur mancandovi alcune giustificazioni addotte in pubblicazioni successive e più dettagliate, possiamo ritrovare in esso buona parte delle conseguenze e delle implicazioni necessarie ad una critica equa della teoria in questione. Proprio in questo articolo possiamo ritrovare quella dichiarazione d’intenti che ci svela le aspirazioni che Chalmers già serbava per la sua prospettiva, egli lo enuncia in una sintesi efficiente e mi pare dunque il caso di riportare esattamente le sue parole.
“L’articolazione teorica che ne risulterà non potrà quindi che ricalcare la forma di una teoria fisica, con poche entità fondamentali obbedienti a leggi semplici.”[34]
Si potrebbe però aggiungere adesso, forse con un pizzico di malizia, che la realtà delle cose non corrisponde, spesso e volentieri, con gli intenti che l’autore si era stabilito. Abbiamo infatti visto che i principi postulati debbono spesso essere pesantemente rivisti a fronte di evidenze empiriche o mancanza di sufficienti restrizioni teoriche, perdendone infine in semplicità ed eleganza. Inoltre la semplice corrispondenza al modello fisico[35], oltre a non garantire la correttezza degli enunciati della teoria[36], potrebbe legittimare in modo soltanto surrettizio l’ausilio di principi e leggi fondamentali di certo rispondenti a criteri di semplicità, ma che una volta considerati nell’ottica di una descrizione del mondo, costituiscono una considerevole manipolazione metafisica oltre che ontologica in quei limiti del mondo che anche Wittgenstein considerava soltanto passibili di illustrazione e mai candidati validi per una strategia fondativa. Se infatti il numero dei principi qui utilizzati è forse in numero minore rispetto a quello di altre proposte, è importante tener conto però anche della portata metafisica che certi principi si porterebbero appresso. Ciò detto, nonostante le molte critiche rivolte alla soluzione indicataci dall’autore de “La mente cosciente” non dobbiamo però supporre, come invece molti critici hanno fatto, che l’intero impianto teorico sia effettivamente da rifiutare senza possibilità d’appello. È inutile far notare infatti che la premessa che ha dato impulso a questa proposta conserva ancora tutta la propria validità e, nonostante si debba aggiungere che all’interno di un panorama come quello delle teorie sul mentale ciò non sia del tutto dirimente[37], soprattutto il proprio carico di suggestione. Inoltre le soluzioni speculative che questa teoria avanza in corso d’opera costituiscono certamente dei casi di indubbio interesse. Se infatti non ci è possibile assumere i tre principi nella loro definizione più stringente, allora non ci resterà che elaborarne delle versioni indebolite che possano accordarsi sia con le evidenze empiriche che non le limitazioni dettate dalla coerenza interna. La regola del “divide et impera”[38]si rivelerebbe provvidenziale anche in questo caso, soprattutto considerando l’ultima porzione della proposta di Chalmers, quella che si riferisce alla nozione di informazione. Non solo molte infatti gli approcci alla coscienza o all mentale che hanno fatto di quest’ultima la chiave della loro spiegazione, e queste poche si riferiscono spesso ad indirizzi di stampo prettamente riduzionistico. Non nego che sarebbe stimolante condurre una debita analisi delle analogie che si potrebbero ritrovare tra i due differenti tipi di strategia a fronte d’un medesimo strumento esplicativo e, del resto, l’analogia esistente fra le fonti di Chalmers e quelle di un altro filosofo della mente, Fred Dretske, mi suggeriscono già una via in tal direzione. Mi nasconderò però nuovamente dietro le medesime scuse addotte nell’introduzione, riservandomi il diritto di affrontare l’argomento solo in futuro, del resto avevo già chiarito che l’intento di questo articolo fosse solo quello di sopperire alle mie personali lacune e posso solo sperare, per concludere, che questo non rimanga l’unico obiettivo raggiungibile.
Bibliografia
- Alfredo Paternoster, Introduzione alla Filosofia della Mente, Laterza Editore;
- Di Francesco, La Coscienza, Laterza Editore;
- David Chalmers, Facing Up the Problem of Consciousness, in Explaining Consciousness, Shear Editore;
- John Searle, Il Mistero della Coscienza, Raffaello Cortina Editore;
- Mauro Dorato, Cosa c’entra l’Anima con gli Atomi, Laterza Editore
- Telmo Pievani, L’Evoluzione della Mente;
- Vincenzo Fano, Comprendere la Scienza;
[1] Wilfrid Sellars, La Filosofia e l’Immagine scientifica dell’Uomo, pp. 14-15
[2] Originariamente pubblicato nel Journal of Consciousness Studies, 2, No.3(1995), pp. 200-219
[3] Gli argomenti trattati in questo articolo sono infatti esposti con maggior dovizia di particolari nel saggio del 1996, La Mente Cosciente.
[4] E che coinvolgono quindi non soltanto il mondo intesi nella semplice accezione di realtà esterno ma anche il punto di vista da cui il mondo si rende evidente alla mente umana.
[5] Soluzione che in seguito Chalmers battezzerà Dualismo Naturalista. Vedi La Mente Cosciente, pp. 123-171
[6] Distinzione simile a quella operata da Block fra coscienza qualitativa e coscienza d’accesso.
[7] Vedi David Chalmers, Facing Up the problem of consciousness, p. 2
(Ho cosi tradotto tutte le citazioni originariamente in lingua inglese)
[8] Ibidem.
[9] Originariamente “conscious experience”.
[10] Tutto sommato assimilabile in questo caso ad assioma
[11] Soprattutto visto il fatto che una teoria sulla coscienza dovrebbe anche spiegare le ragioni per cui dovremmo assumere questa come un fenomeno realmente esistente, secondo i termini indicatici dalla teoria stessa.
[12] David Chalmers, Facing up the problem of consciousness, p. 11
[13] Una strategia che pare scandalizzare più i filosofi che gli scienziati stessi. Non sarebbe forse cosi peregrino sottolineare i retaggi neopositivisti, legittimi seppur forse troppo restrittivi, che possono soggiacere ad un simile atteggiamento critico.
[14] Ivi, p. 12
[15] Costituenti per l’autore un sistema comunque chiuso.
[16] Un’intuizione, acerba e forse errata, mi porterebbe ad avvicinare questo genere di principi alle leggi di corrispondenza già proposte dal verificazionismo neopositivista. Se ciò si dimostrasse veritiero anche i principi psicofisici evocati da Chalmers dovrebbero rispondere delle medesime difficoltà. Mi riserverò comunque il lusso di non dare qui alcuna conclusione, il problema necessità infatti di un ben altro livello di sofisticazione per poter essere adeguatamente trattato.
[17] O awareness, già intesa come unicamente derivata dall’organizzazione funzionale.
[18] In origine basic principle.
[19]O availability for global control. Vedi nozione di global workspace proposta da Bernard Baars nel suo libro A cognitive Theory of Consciousness (1988).
[20] Ivi p.16
[21] A tal proposito si vedano gli studi evoluzionistici di Hauser sullo sviluppo della morale umana.
[22] In origine, “principle of organizational invariance”.
[23] Da “fine-grained functional organization”.
[24] Ivi, p.18
[25] Argomenti trattati in modo più approfondito ne “La mente cosciente”, rispettivamente : fading qualia e dancing qualia.
[26] Questa difficoltà della teoria di Chalmers si riflette dalla sua particolare idea di concepibilità, egli fa uso difatti di quest’ultima per inferire la possibilità di uno stato di cose fattuale. Vedi David Chalmers, Does conceivability entails possibility, per un approfondimento.
[27] Cosa che, possiamo umoristicamente notare, tende ad accadere con una certa frequenza nella quasi totalità delle pubblicazioni filosofiche. Dennett sfugge spesso a questa tradizione, difatti i suoi testi vengono altrettanto spesso criticati come ambigui, faziosi oppure semplicemente “troppo” persuasivi.
[28] Claude E. Shannon: A mathematical theory of Communication, Bell system Technical Journal, vol . 27, lug. e ott. 1948
[29] Rispettivamente, uno stato di informazione, come ad esempio 0 od 1definiscono un differenza di sta, che stabilisce una differenza e lo spazio ideale che si costruisce attraverso le relazioni di diversità che coinvolgono le singole informazioni, o elementi.
[30]Da “This lead to a natural hypothesis”. Vorrei sottolineare come forse in questo caso l’uso del termine ricalchi una certa accezione metafisica, una volontà speculativa tendente a ridefinire i limiti del mondo, dicendolo con Wittgenstein ne deriverebbe un vero e proprio enunciato filosofico..
[31] Ivi, p.20
[32] Sebbene questi criteri siano effettivamente utilizzati, in modo più che diffuso, per valutare la bontà di una teoria scientifica, si dovrebbe innanzitutto dare precedenza ad altri termini di paragone come: l’ancoraggio all’esperienza, la coerenza interna ( garantita in questo caso ), l’efficienza rispetto alla previsione e via discorrendo.
[33] Vedi Lakatos
[34] Ivi, p.13
[35] In termini piuttosto generali, dovremmo precisare.
[36] Che anzi secondo alcuni non potrebbero che garantirne l’eventuale falsità.
[37] Dato che questo campo è tutt’ora costituito solo da teorie possibili e non da spiegazioni valide del problema affrontato.
[38] Di cui Vincenzo Fano, nel suo Comprendere la Scienza, ci da una ulteriore ridefinizione nei termini d’un principio utile allo sviluppo della scienza e delle sue teorie.
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