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Don Chisciotte della Mancia – Miguel de Cervantes

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Fate in modo che, leggendo la vostra storia, il malinconico si senta invitato a ridere, l’allegro lo diventi ancora di più, l’ignorante non se ne stufi, e chi è colto ne apprezzi la trama, il serio non la disprezzi, né il saggio manchi di lodarla.[1]

Miguel de Cervantes

Don Chisciotte della Mancia è considerato il primo romanzo della storia della letteratura occidentale. Il libro, diviso in due parti, narra le vicende del cavaliere errante, Don Chisciotte, e del suo scudiero, Sancio Panza. La trama del romanzo si impernia attorno ai due personaggi, entrambi inscindibili e centrali.

La storia del Don Chisciotte della Mancia (da ora solo Don Chisciotte) prende avvio dalla follia di un possidente, un piccolo proprietario, che non si chiamava Chisciotte: “Pare che di cognome facesse Chisciada o Chesada, ma non c’è accordo fra gli autori che se ne occupano, e altre verosimili congetture lo darebbero per Chisciana. La cosa, a dire il vero, ha poca importanza…”[2] Egli era un cavaliere con non troppi averi. Il signor Chisciotte aveva letto moltissimi libri sulla cavalleria errante, sia i celebri che i meno celebri, e aveva tratto tante suggestioni da renderlo incapace di credere che i libri di cavalleria fossero solo finzioni. Dal principio, dunque, iniziò a congetturare sulla realtà di quelle storie, pensandole reali, poi passò a credere che anche nel suo presente esistessero tutte quelle bizzarre figure che sussistevano nelle storie e leggende della cavalleria errante: giganti, fate, maghi, incantatori, donzelle da amare, grandi principesse, draghi e via dicendo. “Il suddetto cavaliere, nei suoi momenti d’ozio (che prendevano la maggior parte dell’anno), si dedicava alla lettura di romanzi cavallereschi, con tanta intensità e piacere che trascurare quasi del tutto la caccia e anche l’amministrazione dei propri beni…”[3] Ciò fino a quando non decide di entrare anch’egli nell’onorevolissimo mondo della cavalleria errante: “Alla fine, ormai del tutto fuori di sé, maturò la più strampalata idea che potesse nascere nella mente di un pazzo: per accrescere la sua reputazione e servire la patria, gli sembrò conveniente e necessario farsi cavaliere errante e andare per il mondo, cavalcando in armi e cercando avventure. Si sarebbe cimentato nelle stesse imprese dei cavalieri dei suoi libri, riparando ogni genere di ingiustizie, affrontando difficoltà e pericoli che, una volta superati, gli avrebbero conferito onore e fama per l’eternità”.[4]

Da qui ha inizio la grande avventura di Don Chisciotte della Mancia (della Mancia perché da lì proveniva). Don Chisciotte era meticoloso e sistematico, nella sua follia: egli assume un corpus di regole, desunte da tutti i libri di cavalleria letti, in base alle quali prendere decisioni e leggere la realtà. Per prima cosa, gli serviva una dama da amare, perché ogni cavaliere errante ne aveva una da cui dipendere e il cui amore, sempre e comunque rifiutato se non dopo una lunga sequenza di gesta, gli serve da stimolo e passione. L’amore della dama è superiore a quello che il cavaliere ha nei confronti di Dio, il che conduce a interessanti questioni morali, dibattute all’interno del Don Chisciotte. Pur non essendosi mai innamorato realmente di nessuna, e avendo frequentato ben poche donne e ben poco del mondo conosciuto, la fantasia spinse Don Chisciotte a prendere in considerazione come suo amore una ragazza di campagna che rinominò “Dulcinea del Toboso”. Il nome “Dulcinea” era stato scelto tra una discreta varietà di alternative, questo perché Don Chisciotte teneva che le sue gesta nel futuro narrate, rispettassero dei canoni musicali che potessero ben sposarsi con le parole della poesia. Dulcinea, quindi, era una via di mezzo tra una persona reale e una persona immaginaria: esisteva realmente la persona su cui Don Chisciotte fantasticava, ma non era né bella né particolarmente brillante, ma aveva “una mano speciale per salare il maiale”, come ci vien detto.

Per partire, però, aveva bisogno di un fedele compagno di viaggi, capace di sopportare pesi, fatiche e privazioni: aveva bisogno di un destriero forte e vigoroso. La sua scelta ricadde su un debole cavallo, pelle e ossa, che soprannominò “Ronzinante”, perché Ronzino, ma il primo (dunque: ante), sicché il “primo dei ronzini” fu chiamato “Ronzinante”. Dopo una prima avventura, finita piuttosto male, tornato a casa, Don Chisciotte si ricordò che nessun cavaliere errante andava in giro senza un prode scudiero, capace di seguirlo in ogni dove e di servirlo in ogni modo, pur sempre nei limiti delle regole convenute per gli scudieri. Riuscì a convincere un popolano arguto, per quanto totalmente ignorante, e, per ciò, incline a credere praticamente tutto quello che il folle padrone gli raccontava: costui era Sancio Panza. Sancio Panza, da buon uomo di popolo, rustico e concreto, non si fece convincere senza la speranza di guadagnare qualcosa: niente meno che un’isola da governare. Don Chisciotte, infatti, gli aveva raccontato che tutti i cavalieri erranti, che prima o poi ottengono grandi possessi e onori, affrancavano i loro scudieri con grande vantaggio di questi ultimi.

Iniziano così le avventure di Don Chisciotte e Sancio Panza. Da principio il Don incontra i temuti “mulini a vento”, che la sua mente interpreta come entità gigantesche da abbattere, ovverosia dei giganti. Fin da quel momento Sancio si rende conto che il suo padrone non ragiona nel modo dovuto, ma Don Chisciotte è irremovibile e si lancia alla carica dei mulini. Questa vicenda, che per la verità prende assai poco, è solo la più celebre (forse perché la prima e perché pochi terminano la lettura del voluminoso tomo). Finiscono poi in una locanda, che Don Chisciotte interpreta come un castello, e accadono altri episodi curiosi. Ma la fantasia di Don Chisciotte è sistematica nell’associare a entità reali entità fittizie la cui giustificazione risiede nella presenza di potenti incantatori che lo ingannano sistematicamente. Costui, infatti, sarebbe vittima di geni maligni che lo traviano continuamente e continuamente lo conducono a scelte discutibili. Ma non è questo il caso della volta che Don Chisciotte, male assistito dalla ricerca di avventure, scambia un gregge di capre per un grande e valoroso esercito.

Eppure la saggezza di Don Chisciotte è grande, quanto il cuore del suo valente scudiero, ed egli mette in pratica continuamente la sua ragione in eruditi e intelligenti discorsi che, altrimenti, si sarebbe detti partoriti da una mente illuminata. Così la pazzia di Don Chisciotte è selettiva, specifica per tutte le faccende e entità che possono rientrare anche molto alla lontana all’interno del regno della cavalleria.

Nel frattempo, al suo paese, la governante e la nipote di Don Chisciotte piangono per l’avvenuta disgrazia. Un uomo così assennato, buono e generoso ha volto la sua mente al peggio e non si trova una cura. Il curato e il barbiere, anche loro buoni lettori dei libri di cavalleria errante, prima distruggono i libri del Don, salvandone solo alcuni e portandoseli via, e poi cercano stratagemmi per riportare Don Chisciotte a casa, sperando in una sua futura guarigione. Nel frattempo, nipote e governante, tra un urlo e un pianto, bruciano i libri e si disperano, sperando che la medicina o i miracoli riportino Don Chisciotte a casa. Ma non sarà né l’una né l’altra cosa.

Don Chisciotte decide di imitare la follia di un cavaliere errante, il migliore di tutti, perché è dall’imitazione del più grande modello che si determinano i risultati migliori. Ma, appunto, egli vuole superare in grandezza il suo maestro e vuole impazzire coscientemente proprio per dar ancora più lustro alla sua follia:

“Non ti ho appena detto” rispose Don Chisciotte, “che voglio imitare Amadigi facendo qui il disperato, il pazzo, e anche il furioso per imitare, allo stesso tempo, il valoro Orlando, quando scoprì presso una fonte i segni lasciati da Angelica la bella che si era intrattenuta con Medoro, e per questo dispiacere impazzì, sradicò gli alberi, intorbidò le fonti (…) e fece ancora mille e mille stranezze, degne di eterna fama? Però, dato che non voglio imitare Orlando, o Roldano o Rotolando che dir si voglia, in tutte le pazzie che fece, disse e pensò, farò una sintesi di quelle che mi sembrano le più essenziali. Ma è anche possibile che mi limiti alla sola imitazione di Amadigi, il quale, senza fare pazzie e danni, ma solo con lamenti e pianti, raggiunse più notorietà di chiunque altro”.

“Mi sembra”, disse Sancio, “che quei cavalieri furono provocati ed ebbero buone ragioni per fare follie e penitenze; ma vostra signoria che motivo ha per impazzire? (…)”.

“E qui è il punto”, rispose Don Chisciotte, “qui sta la finezza del mio proposito; che un cavaliere errante impazzisca avendone motivo, salute e grazie: il bello sta nel dar fuori di matto così per niente, e far pensare alla mia dama che se faccio questo senza motivo, che finimondo farei se fossi provocato?…”[5]

Presa la decisione, spedisce Sancio al paese. Costui, alla fine, conduce il curato e il barbiere e, attraverso un curioso stratagemma, riescono a ricondurre a casa Don Chisciotte: lo rinchiudono in una gabbia, che egli crede sia un incantesimo del suo rivale incantatore.

Il secondo volume riprende la storia da dov’era stata lasciata. Ma con un’importante differenza. Se nel primo volume Don Chisciotte è continuamente alla ricerca di eguagliare i suoi modelli, nel secondo egli è, invece, già cavaliere insignito da una preziosa narrazione. Il moro Benengeli aveva composto un’importante opera su Don Chisciotte, il cavaliere dalla triste figura (così noto perché Sancio, dopo aver visto il suo padrone senza denti per via delle imponenti e robuste legnate che prese, lo soprannominò in questo modo, soprannome che piacque assai a Don Chisciotte che lo adottò prima di sostituirlo con il Cavaliere dei leoni, dopo una bella avventura). Il libro di Benengeli (che, si intende, è una metanarrazione) è un campione di vendita, sicché Don Chisciotte diventa celebre piuttosto in fretta. Il problema è che il Benengeli, probabilmente in quanto moro (e, dunque, irrimediabilmente bugiardo), non racconta con la dovuta precisione la serie di strampalate avventure di Don Chisciotte (a suo dire) e, così, il Don è continuamente sfidato a mettere alla prova le sue abilità. Egli decide di ripartire dal suo villaggio, con grande rabbia e tristezza della governante e della nipote, e costernazione del barbiere e del curato, che non riescono in alcun modo ad evitare la fuga del malato. Don Chisciotte prosegue nel suo vagabondare e nel continuo cercare avventure, sfida dei leoni, finisce in una grotta dove ha visioni degne di un cavaliere errante, e arriva al castello di due duchi, che ben conoscono la figura folle di Don Chisciotte e decidono di assecondarlo continuamente nelle sue intuizioni. Arrivano ad affidare anche un paese a Sancio, che scoprirà ben presto che il governo di un paese è molto più difficile e stressante che essere in piena libertà col suo padrone. La storia termina al paese di Don Chisciotte, con la sua morte.

Il Don Chisciotte della Mancia è un libro diviso in due volumi, scritti a grande distanza di tempo: il primo volume è edito nel 1605 mentre il secondo è del 1615. La struttura generale dell’opera si può dire quasi “asistematica”, laddove la trama si sviluppa intorno al vagabondare senza meta di Don Chisciotte e Sancio Panza e le cui avventure si susseguono senza soluzione di continuità. Questa struttura acentrica si mostra nell’assenza di nuclei tematici lineari, nella continua divagazione in storie e digressioni e nella presenza di avventure sconnesse le une con le altre. L’unità tematica è più astratta e, probabilmente, riflesso della figura stessa del protagonista, delle sue regole e della sua sistematica follia: essa è determinata dall’inserimento della follia all’interno di contesti quotidiani e usuali, follia che si tramuta spesso in elemento straniante, ma pure nel suo opposto. Non sono rari gli episodi in cui Don Chisciotte elargisce importanti lezioni, conoscitive e morali, a quanti lo circondano. La disorganicità è solo a livello narrativo, ma non a livello concettuale e metanarrativo, che invece lascia intravedere una chiara costanza negli intenti e nei pensieri dell’autore. Tali caratteristiche strutturali sono permanenti e permeanti tanto il primo quanto il secondo tomo. La differenza, come si è già accennato, riguarda la diversa dimensione metanarrativa, laddove nel primo tomo il riferimento di Don Chisciotte sono i libri di cavalleria (di cui Cervantes dimostra una conoscenza decisamente fuori dall’ordinario e la cui critica ironica si esplicita fino in fondo nella vicenda del rogo dei libri e delle dotte disquisizioni su di essi tra il curato e il barbiere) mentre nel secondo è la storia stessa di Don Chisciotte, i cui riferimenti sono tutti al primo libro. Cervantes inserisce continuamente riferimenti al primo tomo ed è curioso l’innesto della metanarrativa perché dà allo scrittore la possibilità sia di nuovi espedienti per le avventure di Don Chisciotte (livello narrativo di primo livello pienamente manifestato dai due duchi e dalle vicende ad essi connessi), sia di una riflessione più generale del ruolo di Don Chisciotte rispetto a se stesso (egli prende ormai a modello più le sue gesta passate che non quelle degli altri cavalieri). Ma la metanarrativa concettuale, cioè quella che sostanzia e sostiene l’opera dall’esterno e dai pilastri interni costituiti nella successione dei capitoli, è la medesima, solo cambia il riferimento intratestuale che, prima, rimanda ad altra letteratura, poi a se stesso.

Il punto è particolarmente interessante perché lascia intendere che l’opera di Cervantes sia in continuità e rottura con la tradizione cavalleresca (di cui conserva i valori di riferimento e molto del pubblico ma ne rigetta totalmente l’avulsità dalla realtà). Ed è da questa importante annotazione che si comprende pienamente lo stile di Cervantes. Il realismo domina nell’opera giacché la follia di Don Chisciotte è chiaramente descritta dall’esterno, per mezzo di un narratore in terza persona, che, così, mostra la discrepanza tra la realtà e la fantasia del protagonista in modo diretto. Lo straniamento, dunque, del personaggio è mostrato immediatamente, senza mediazione con la sua interiorità. Non solo, ma le stesse vicende hanno un carattere reale, laddove Don Chisciotte prende scoppole, legnate, sassate e i colpi del destino non sono solo figurati, ma propriamente fisici. Sicché egli non è vittima di se stesso da un punto di vista mentale, la cui “coerenza” è salva per i principi assunti da egli stesso, ma da un punto di vista fisico, concreto. Sancio Panza, dal canto suo, è il contraltare inverso di Don Chisciotte. Egli è un credulone, ma è in grado di riconoscere la realtà dei fatti. Così ciò offre un’ulteriore ragione di straniamento radicale per Don Chisciotte ma non per l’opera in generale. La scelta stessa del lessico, molto simile a quello della Commedia dantesca: i registri lessicali sono tutti quelli possibili, dal livello scurrile (proprio di Sancio o di altre figure minori, come le ostesse o le prostitute) al livello sublime (non solo Don Chisciotte spesso si lascia in dialoghi in cui compaiono parole ricercate ma pure vengono inserite poesie e canzoni il cui registro è alto e sublime). Il realismo viene restituito anche a livello sintattico, nel senso che in talune parti il testo assume una costituente basilarmente paratatica, piana, laddove si deve rendere il mondo quotidiano; ma in altre parti esso diventa più contorto, ricercato, strutturato su più piani e livelli. Per quanto il testo non diventi mai inacessibile, esso indubbiamente richiede attenzione da parte del lettore, sintomo evidente di una ricerca sul piano sintattico e semantico. Il realismo di Cervantes è, dunque, narrativo e letterario nel senso più forte del termine.

Le figure principali del romanzo, proprio per la sua organica asistematicità, non sono molte: Don Chisciotte, Sancio Panza, il curato e il barbiere, la governante e la nipote, Salvatore Carrasco e i Duchi. Si noti che solo due personaggi possono essere trattati in modo a sé stante (Don Chisciotte e Sancio Panza) mentre tutte le altre devono essere trattate insieme. Questo perché le figure minori (alle quali si potrebbero aggiungere la moglie di Sancio, Teresa Panza, e la figlia, Sancetta) rivelano una peculiarità individuale solo in coppia e non solo perché presentati insieme. Vedremo perché.

Don Chisciotte è il personaggio principale, la figura dominante di tutto il romanzo. A nostro parere, modesto ma motivato, non può considerarsi un pazzo, per quanto agisca come tale. Egli, infatti, non è dominato dalle passioni, dalle emozioni e non è incapace di ragionare, anzi, egli è mostrato più e più volte come saggio, erudito, intelligente. Don Chisciotte è anche troppo razionale, nel senso che egli segue fino in fondo delle regole che egli stesso ha formulato, elaborato: le leggi generali della cavalleria. L’applicazione di tali leggi è radicale e costante, la cui costanza è reiterata coscientemente. Il problema è che le leggi che egli ha assunto lo conducono ad associare ad alcuni specifici eventi un significato che essi non hanno. In altre parole, egli sostituisce, per mezzo di regole di traduzione, le proprietà di alcune entità con altre: ai mulini attribuisce le proprietà dei giganti perché ad un oggetto di grandi dimensioni semoventi (i mulini) associa le proprietà che nel mondo della cavalleria vengono riferite ai giganti. In questo senso, non gli difetta né la vista né l’intelletto, ma ha delle regole selettive del tutto sbalestrate, da un punto di vista epistemico, laddove egli giunge globalmente a conoscenza, ma localmente a credenze false, come attestano proprio i suoi discorsi riconosciuti da tutti non solo come sensati, ma come saggi. Per questo è errato parlare di “follia” di Don Chisciotte, ma di razionalità sbalestrata, il cui sbalestramento è molto più sottile che non quello di un pazzo, a cui manca totalmente la ragione. Ad esempio Don Chisciotte non crede di essere Napoleone, ma vuole essere al più come lui e si ingegna per esserlo. Don Chisciotte, allora, come si dice con troppa disinvoltura, incarna l’uomo moderno nel senso che costui seguirebbe delle regole a prescindere dal loro senso, cioè dal fatto che da tali regole ne seguano giuste decisioni e credenze vere: egli segue la sua strada non senza motivo, ma senza ragione, in questo senso, sì, senza giustificazione. L’aver isolato un nucleo di regole non implica assenza di senno, ma il fatto che queste regole siano malformulate mostra una caratteristica importante della nostra evoluzione storico-culturale che ha scisso la norma dalla realtà, determinando, così, il rischio di avere strutture psico-sociali totalmente aberranti. In fondo, i nazisti non sono molto diversi, nell’astratto, da Don Chisciotte, perché essi non possono essere definiti “pazzi” in senso clinico, ma aberranti da un punto di vista morale ed epistemico: anche loro credevano che le “razze inferiori” non fossero propriamente “insiemi di uomini” (follia epistemica) e, per questo, si sentivano giustificati ad agire in modi disumani (follia morale).

Don Chisciotte, però, non perde il suo carattere, intrinsecamente buono e incline ad una razionalità fuori dal comune. Solo un uomo molto razionale poteva giungere alla sua forma peculiare di pazzia selettiva ed egli stesso sembra essere consapevole di non essere un “vero cavaliere errante”, come vien detto in un passo particolarmente importante: “«Sia benvenuto il fiore e la crema dei cavalieri erranti!» E tutti, o almeno la maggior parte, versavano ampolle di acqua odorosa su Don Chisciotte e sui duchi, con grande sorpresa di Don Chisciotte; e quello, per lui, fu il primo giorno nel quale si ritenne un cavaliere errante, vero e non di fantasia, vedendosi trattare allo stesso modo dei cavalieri dei secoli passati”.[6] Questo passo è fondamentale per comprendere il punto sopra rilevato: Don Chisciotte non è privo di senno da non capire che molto di quanto egli fa è dovuto al suo stesso fantasticare, cioè dalla sistematica sostituzione per mezzo di regole precise, piuttosto che da quanto realmente accade. Ma questo non toglie che Don Chisciotte sia di natura buona, che i suoi intenti siano realmente quelli di fare del bene e ciò è dimostrato dalla sua generosità e condiscendenza ad aiutare e a capire gli altri e Sancio Panza in primis.

Sancio Panza, diversamente da Don Chisciotte, è un uomo rozzo e ignorante, ma dotato di buon cuore. Don Chisciotte e Sancio sono animati da un interesse materiale comune, cioè riportare dei vantaggi per la loro posizione, e da un carattere simile nella loro attitudine al bene. Per il resto sono uomini assai diversi. Sancio è ignorante ma pratico, risoluto a salvare la pelle, a subire poco e mangiare molto. Egli incarna l’uomo comune, così facile a cadere in fallacie epistemiche e così pronto a cercare di ottenere quanto può renderlo felice, anche quando ciò non sia altro che un pezzo di formaggio. Ma, più di tutto, Sancio è un uomo disposto a credere alle follie (in questo senso, sì) del suo padrone, pur di raggiungere il governo di un’isola (che non c’è). Eppure la speranza del governo e dei suoi vantaggi è tale che fa perdere a Sancio la capacità di discernere la fattibilità del progetto dalle speranze sul suo ottemperamento: il fine non difetta, ma è totalmente irragionevole nei mezzi. Sicché, se Don Chisciotte è irrazionale nel fine ma non nei mezzi (di fatto, Don Chisciotte realizza davvero una parvenza di ciò che è un cavaliere errante) così Sancio è irrazionale nel fine ma non nei mezzi: egli sa che solo seguendo Don Chisciotte può sperare di raggiungere il suo scopo. In questo senso, appunto, Sancio sembra essere molto simile a quelle moltitudini che si affannano da millenni sulla faccia della terra e che sono sostanzialmente in grado di raggiungere scopi miserabili non perché gli difetta il realismo sui mezzi, ma perché sono totalmente incapaci di definire un buon fine raggiungibile.

 Il curato e il barbiere incarnano il “buon senso” umano, che non si lancia in grandi avventure né in approfonditi studi, ma che riescono a godere del massimo che offre la vita: una tranquilla esistenza contornata da impegni di piccolo taglio. Sono loro che tentano di far rinsavire Don Chisciotte e che scelgono i libri da bruciare, come sono loro che si ingegnano per risolvere positivamente la situazione, pur senza riuscire a raggiungere i loro scopi.

La nipote e la governante di Don Chisciotte incarnano le donne devote all’uomo di casa, pulsionali e passionali e incapaci di razionalizzare ciò che gli capita. Ma ad esse fanno a contraltare Teresa Panza e Sancetta, due donne concrete, capaci di vedere la realtà ma senza lasciarsi vincere da essa. In particolare, Teresa Panza risalta tra le figure femminili, di cui Cervantes presenta un campionario assai vasto e variegato. Teresa è una donna affezionata al marito, ma è più in grado di lui di riconoscere la follia della sua impresa. Ma non lo ostacola più di tanto, perché sa che esistono dei confini all’azione individuale che non si possono limitare o contenere senza ricadere nella stessa follia all’incontrario. Economa, razionalizzatrice, fedele e attenta donna di casa, Teresa è esempio massimo di virtù popolare e muliebre.

Salvatore Carrasco e i duchi, invece, incarnano quella porzione di umanità che è convinta d’esser superiore a chi deridono e, invece, ricadono ancor di più nella loro follia. I duchi mettono su una clamorosa e imponente messinscena per Don Chisciotte, che richiede spese e organizzazione decisamente folle, se si tiene a mente lo scopo ultimo. Allo stesso modo, Salvatore Carrasco si impegna in duello con Don Chisciotte per ben due volte, con la scusa di volerlo costringere a tornare a casa, ciò rischiando direttamente la vita. I duchi e Salvatore sono, dunque, vittime di una follia ancora più sottile perché giocata sul contraltare di una più evidente, quella di Don Chisciotte.

L’ambiente in cui si muove Don Chisciotte è variegato ed esteso, laddove Cervantes mette in scena una realtà complessa e composita, in grado di restituire la complessità di quel mondo rurale che fa parte della nostra storia più recente e che ha costituito la base su cui si è evoluta la società attuale, che ha conservato molto del sistema-di pensiero di quella struttura-ambiente/società ben di più delle apparenze. Tra le locande si mostra il popolo più gretto e minuto, così come tra le città e i castelli si rivelano i grandi e piccoli signori, pensatori e borghesi. La natura è tratteggiata come mondo delle avventure, dei sogni e delle fantasie, dove Don Chisciotte da ampio spazio alle proprie sostituzioni concettuali, così come le abbiamo intese noi. Questo perché la cesura tra mondo civile e mondo naturale è già ben marcata e la consapevolezza e conoscenza dell’uomo ben radicato in un sostrato ambientale artificiale, antropomorfizzato consente lo slittamento delle paure e delle fantasticherie in quel mondo-altro che è, appunto, il mondo naturale. Ma Cervantes è acuto e preciso, cioè realista, anche nella descrizione dei luoghi naturali frequentati da Don Chisciotte e Sancio Panza.

Chiudiamo con un’ultima considerazione. Don Chisciotte della Mancia è un libro che ha dato seguito ad una quantità di riflessioni e scritti che se si concentrasse tutto l’inchiostro speso in una porzione di spazio probabilmente non basterebbe una capiente nave da trasporto per includere tutto il nero liquido versato e includere tutti i libri di commento stampati. C’è chi sostiene che sia un libro di puro intrattenimento, a contrario di chi si impegna in grandi analisi filosofiche sul testo. A nostro parere, il testo è indubbiamente strutturato in maniera consapevole, con alcuni chiari intenti (primo tra tutti quello di dilettare in modo intelligente, per riallacciarci alla citazione al principio della nostra analisi). Che si tratti di un’opera inestimabile è testimoniato proprio dal fatto che si possa effettivamente riflettere a lungo su di essa. Ma dare una risposta alla questione considerata è semplicemente un modo di vedere la cosa, che non riguarda la cosa. Sicché bisogna prima di tutto leggere il capolavoro di Cervantes come ogni altro romanzo. Il resto, per quanto interessante, non è contenuto nel romanzo, come non lo è questa recensione e quanto di dedotto v’è in essa.


MIGUEL DE CERVANTES

DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA

EINAUDI

PAGINE: 1212.

EURO: 24,00.


[1] Cervantes M., (1615), Don Chisciotte della Mancia, Frassinelli, Milano, p. 11.

[2] Ivi., Cit., p. 21.

[3] Ivi., Cit., pp. 21-22.

[4] Ivi., Cit., p. 23.

[5] Ivi., Cit., pp. 204-205.

[6] Ivi., Cit., p. 710.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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