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Ne Il signore degli Anelli sussiste una vera e propria varietà degli usi linguistici, arricchita dagli espedienti etimologici propriamente volti a evidenziare le varie differenze tra le lingua naturali disponibili nelle Terre di mezzo. Ma per apprezzare le differenze negli usi linguistici del mondo di Tolkien sarà bene tenere continuamente a mente quanto detto nel capitolo precedente.
(1) Il linguaggio può denotare fatti, che, nel mondo di Tolkien, sono sempre morali. (2) Ma con esso si possono fare anche grandi cose, vale a dire che sussiste un suo peculiare uso performartivo. (3) La lingua ha anche una funzione propriamente storica, cioè funge da depositario della memoria popolare, laddove nel mondo di Arda regna la lingua orale sulla scritta e la saggezza dei popoli è conservata mediante leggende e ballate che sono imparate a memoria dalla gente e, se non vengono conservate, sono destinate ad essere obliate (parola ricorrente nella traduzione che abbiamo letto del libro). (4) C’è, poi, un uso del linguaggio propriamente ludico, volto a divertire, sicché la figura del bardo, sia essa pur ricoperta da qualche personaggio specifico (tutti, a turno, sono bardi delle proprie storie o delle storie dei propri popoli), è importante.
Riprenderemo, ora, i vari punti in paragrafi, così da enunciare chiaramente le varie filosofie del linguaggio presenti ne Il signore degli Anelli. Prima di proseguire, stabiliamo che, per convenzione, il linguaggio sotto esame è quello utilizzato dai protagonisti e non dal narratore onnisciente (che pure sembra essere rintracciabile in un uomo della Terra di mezzo, laddove sia nel Prologo che nell’Appendice si forniscono il corpus fittizio di fonti sulla base delle quali viene descritta la storia).
2.1 Il linguaggio dei fatti
La semantica de Il signore degli Anelli segue quella corrente, vale a dire che il significato di un’asserzione dichiarativa sta per un fatto corrispondente. Essa sarà vera o falsa in base alla corrispondenza del fatto. Tenuto fermo il principio di bivalenza (una frase dichiarativa è vera o falsa e non può che essere vera o falsa e non entrambe) e il principio di non contraddizione, si può stabilire che la lingua puramente denotativa, referenziale, del linguaggio adottato rispecchi quelle che sono le usuali convenzioni logico-sintattico-linguistiche. Ci sono due proprietà importanti da sottolineare: innanzi tutto, il linguaggio esprime fatti, che sono caratterizzati da proprietà fisiche e morali, sicché ogni asserzione vera sarà anche giusta. In altre parole, la logica sottostante al linguaggio semantico delle varie lingue di Arda è di natura deontologica, intrinsecamente deontologica. Non per niente i più saggi dicono cose vere e giuste. Inoltre ciò viene mostrato dal fatto che esistono delle lingue con le quali la malvagità si esprime con più chiarezza ed efficienza che con altre e, lo stesso, vale per la bontà. Quando Frodo scopre l’origine dell’Anello vede che nell’Anello stesso ci sono scritte delle lettere in una lingua Elfica (Elfico arcaico) e Gandalf, che pure potrebbe leggerle, si rifiuta: “Le lettere sono Elfiche, scritte alla maniera arcaica, ma la lingua è quella di Mordor, che non voglio però pronunziare qui”.[1] Ma nell’importante ora del consiglio di Elrond, Gandalf, sebbene nel fatato locus amoenus di Gran burrone, dirà:
“…Su questo stesso Anello che hai visto innalzato davanti a te, tondo e disadorno, le lettere riportate da Isildur possono ancora essere lette, se si ha la forza di volontà di mettere l’oggetto d’oro un attimo nel fuoco. Io l’ho fatto, ed ecco cosa vi ho letto:
Ash nazg durbatulùk, ash nazg gimbatul, ash nazg thrakatulùk agh burzum-ishi krimpatul”.
Il cambiamento nella voce dello stregone era stupefacente. Divenne improvvisamente minacciosa, potente, dura come la pietra. Un’ombra parve offuscare l’alto sole, ed il porticato si fece scuro per qualche momento. Tutti tremarono, e gli Elfi si tapparono le orecchie.
“Nessuna voce aveva mai osato pronunciare parole in quella lingua qui a Imladris, Gandalf il Grigio”, disse Elrond, e l’ombra passò e tutti respirarono nuovamente.[2]
Non è un caso che Elrond apostrofi Gandalf, laddove a quelle parole addirittura il sole si oscura.
Merry e Pipino si lamentano spesso del fatto che non sono buoni cantori, anche perché la loro lingua non è avvicinabile a quella Elfica. Al di là dell’aspetto musicale, vi è il fatto che la lingua degli Elfi sembra essere grammaticalmente e semanticamente più idonea a trattare dei fatti buoni e, infatti, i personaggi più importanti e illustri se ne servono in determinate circostanze appropriate, come Aragorn, Gandalf e Legolas. Ma l’esempio migliore rimane l’impiego della lingua Elfica nella tana di Shelob, il grande e terribile ragno (femmina!), senza che né Frodo né Sam avessero la conoscenza di quella lingua. Questo perché, ancora una volta, per denotare delle cose buone, bisogna dirle nella lingua consona. Dunque, l’aspetto metafisico, che vede il mondo dominato da fatti buoni o cattivi, si riverbera anche sul linguaggio e sui suoi usi.
2.2 L’uso performativo del linguaggio di Arda
Con le parole si possono fare grandi cose, come avrebbe detto John Austin e Gandalf il grigio avrebbe sottoscritto (non ce ne voglia Austin per questa sua associazione con Gandalf!). Abbiamo detto e ripetuto che siamo in un mondo morale. Considerando che il linguaggio è un suono, cioè un fatto fisico in questo senso, esso potrà essere usato per compiere delle azioni.
Austin distingueva tre usi distinti del linguaggio performativo: locutorio, illocutorio e perlocutorio. Il linguaggio performativo riguarda l’uso del linguaggio espresso da una persona in prima persona, per mezzo del quale sta compiendo una precisa azione normata da un codice (versione Austiniana) o che, se viene riconosciuta una certa intenzione, il linguaggio diventa operativo, cioè l’espressione di un’azione (Strawson e altri). Quando Frodo dice a Gollum, nel momento che Faramir vuole ucciderlo, che promette di garantire per la sua incolumità (“Suvvia, Sméagle! – disse Frodo. – Devi fidarti di me. Non ti abbandonerò…”[3]), egli sta prestando un giuramento. Gollum non riesce a comprendere fino a che punto Frodo abbia eseguito l’azione di promessa, perché non ne riconosce la purezza delle intenzioni (essendo Gollum ora malvagio ora relativamente buono). Ma lo stesso accade all’inverso, quando Gollum è costretto a giurare sull’Anello (sul suo Tesoro) per garantire sul mantenimento della parola data. Quando Pipino presta giuramento di fronte al sovrintendente Denethor sta compiendo un preciso atto illocutorio, tale per cui al proferimento locutorio del performativo si esegue un atto illocutorio che ha determinati effetti: Pipino diventa un attendente del sovrintendente. Lo stesso accade all’inverso, quando Denethor, investito della sua autorità, scioglie l’obbligo di Pipino nei suoi confronti.
L’uso performativo del linguaggio è pervasivo ne Il signore degli Anelli perché, continuamente, le varie autorità compiono degli atti mediante il linguaggio. Tutto questo rientra nella normalità. Anche noi, quotidianamente, compiamo spesso atti mediante il linguaggio. Ma c’è una peculiare forma di atto illocutorio che viene compiuto dai personaggi de Il signore degli Anelli, che noi non possiamo compiere: la magia.
Una formula magica è un insieme di parole, correlate o meno a un insieme precisa di gesti, che, una volta proferite, determinano un preciso evento fisico: “Finalmente Gandalf stesso diede loro, riluttante, una mano. Prese un fascio e lo tenne un momento alzato, quindi col comando naur an edraith ammen! lo colpì al centro con un’estremità del proprio bastone. Immediatamente si sprigionò una fiamma verde e blu, e la legna avvampò crepitando”.[4] Questo esempio illustra in modo esemplare in cosa consista un atto linguistico illocutorio magico: proferendo una serie di parole con i giusti gesti, sotto la normativa dell’accurato svolgimento di una procedura, si verifica un effetto preciso. L’effetto perlocutorio dell’atto illocutorio ben eseguito è l’accensione del fuoco. Un altro esempio di atto illocutorio magico è il seguente:
Si avvicinò [Gandalf] nuovamente alla rupe, e toccando leggermente col bastone la stella d’argento che brillava in centro sotto il segno dell’incudine, disse con tono di comando:
Annon edhellen, edro hi ammen!
Fennas nogothrim, lasto begh lammen!
Le linee d’argento svanirono, ma la nuda e grigia roccia non si mosse.[5]
In questo caso assistiamo a un fallimento dell’atto comunicativo, laddove l’atto illocutorio magico non funziona per via dell’infrazione del buono svolgimento della procedura. Manca qualcosa perché l’atto diventi operativo. Osserviamo, dunque, che la filosofia degli atti linguistici in Tolkien prevede entrambe le posizioni, vale a dire quella che pensa agli atti linguistici come legati ad una precisa procedura, indipendentemente dalle intenzioni degli attori comunicativi (come avrebbe tendenzialmente preferito John Austin); ma pure quella che ritiene predominante l’aspetto delle intenzioni sull’esecuzione degli atti linguistici rispetto alla procedura (Strawson e Searle in particolare). In Tolkien entrambi gli aspetti sono presenti e nessuno dei due predomina sull’altro.
Data la natura del mondo di Tolkien, ci sono magie buone o cattive, che avranno degli effetti buoni o cattivi. In realtà, le formule magiche usate ne Il signore degli Anelli sono meno di quanto uno si aspetterebbe da un libro fantasy, anche perché i portatori degli Anelli del potere buoni hanno compiuto un giuramento in cui si autovincolavano a non usare la propria forza contro quelle di Mordor, per evitare che essi stessi cadessero nella tentazione di diventare degli oscuri signori, anche se al principio avessero usato la propria forza a fin di bene (si ricordi sempre che Tolkien considera molto ambiguo un potere supremo). Ad ogni modo, comunque, le magie vengono eseguite mediante l’apporto di un linguaggio.
Una formula magica è, dunque, un atto illocutorio con precisi effetti perlocutori, atto illocutorio che presuppone che la formula sia eseguita correttamente, indipendentemente dalla recezione di essa da parte delle altre persone. Emblematica è la scena in cui viene conquistato Isengard e Saruman cerca di incantare Gandalf, Theoden e gli altri. In questo caso si assiste chiaramente ad una lotta tra un incantatore e i suoi avversari. Come per emettere un verdetto bisogna essere un giudice, così per effettuare magie bisogna essere degli stregoni. In quel momento, Saruman stava perdendo definitivamente la sua potenza, sicché le sue parole sortivano l’effetto solo parzialmente, così, sebbene egli compisse degli atti illocutori, che potremmo chiamare “incantativi”, ciò nonostante essi fallivano nel sortire i corretti effetti perlocutori (l’incantamento dei suoi avversari).
2.3 La lingua come depositario della memoria storica
Ne Il signore degli Anelli sembra regnare una naturale diffidenza nei confronti della lingua scritta. Testimonianza può essere il fatto che le parole marchiate da Mordor sull’Anello del potere sono tra le poche scritte riportate da Tolkien. Si parla anche di libri di storia, come il libro rosso, scritto da Bilbo e da Frodo. Anche Gandalf si reca a Minas Tirith per leggere alcune importanti carte contenute nelle biblioteche, per scoprire importanti informazioni sull’Anello. Ma i libri fanno raramente capolino nel testo.
Quasi tutte le informazioni davvero importanti non sono conservate nella carta o su delle steli, esse sono ricordate mediante ballate e canti, come più volte viene detto sia in termini positivi che negativi: se non si dispone di alcuna canzone o ballata, la memoria di qualcosa è andata irrimediabilmente perduta: “-E’ vero- disse Legolas. Ma gli Elfi di questa terra erano di una razza estranea a noi, gente silvana, e gli alberi e l’erba non li rammentano. Solo odo le pietre rimpiangerli: In noi profondo scavarono, con arte ci lavorarono, in alto ci elevarono: ma più non sono qui. Non sono più qui. Da molto tempo ormai fuggirono ai Rifugi Oscuri”.[6]
Non per niente i più saggi sono anche quelli che inventano nuove ballate e nuove storie, a beneficio di chi le dovrà mandare giù a memoria: Gandalf e Aragorn, più di tutti gli altri, sono esperti conoscitori delle antiche storie e ne inventano, di quando in quando, qualcuna. Ma anche Bilbo, la cui abilità nel creare storie e ballate si avvicina senza raggiungere a quella Elfica, è un personaggio considerato molto saggio, specialmente dagli hobbit, proprio per tali abilità.
Inoltre è interessante notare come il mondo delle Terre di mezzo sia dominato da specialisti di alcune specifiche arti il cui sapere si tramanda per linea familiare diretta, salvo rari casi. I Nani sono esperti nell’arte della lavorazione della pietra, dei metalli e dei monili, specialmente se composti da metalli preziosi; gli Elfi sono abili tessitori, capaci di grande perizia in tutto ciò che richiede una precisa abilità manuale; gli hobbit sono bravi giardinieri e contadini; gli uomini, invece, possono essere esperti un po’ di tutto, senza raggiungere alcun vertice se non, forse, nelle arti magiche: i più abili stregoni, venuti in tempi immemorabili (tanto che non si conservano storie o ballate su di loro) dall’est sono esseri umani, come Gandalf e Saruman. Congiuntamente alle cognizioni specifiche per i singoli mestieri, anche il lavoro si trasmette per linea familiare diretta, laddove, d’altra parte, si suppone che la saggezza si tramandi per linea biologica, giacché un padre buono lo è per delle doti fisiche che si trasmettono alla prole, sicché la loro crescita sarà volta a sviluppare quelle qualità morali già presenti nel fisico, in modo da dare alla progenie le stesse qualità che sono state così accuratamente preservate dalla filiazione.
Non è un caso, infatti, che si dispensino continuamente giudizi sulle qualità di una persona in base alla famiglia di appartenenza, come si usava fare nei tempi preindustriali anche in Occidente, laddove addirittura David Hume motivava questa ragione sulla base della correlazione più immediata tra le idee della famiglia e con quelle relative membro di appartenenza, sicché, pur in assenza di una relazione più forte, molte proprietà venivano associate naturalmente. Ma nel mondo di Tolkien questo principio si trasforma quasi in una legge di natura biologica, laddove, come abbiamo visto, v’è una legge di conservazione della natura morale dei fatti basilari, sicché da due buoni genitori non può che scaturire una buona progenie, indipendentemente dalle peculiarità della progenie stessa.
Le conoscenze si trasmettono oralmente e, specialmente, quelle relative alla storia del popolo. E il popolo colto apprende numerose storie e ballate sul proprio conto, tutte apprese per via orale. La lingua orale, dunque, regna sovrana nel mondo di Arda e, anche per questo, si fa molta cura alla tutela dell’uso della lingua, così da non renderla spuria. In questo senso, sebbene quasi tutte le razze abbiano una lingua propria, tanto più utilizzata quanto la singola razza è avulsa dalle altre (come gli Elfi e i Nani e meno le altre), tuttavia si è resa necessaria l’adozione di una lingua interculturale, simile all’antico latino o all’attuale inglese, il “comune”. Questa lingua è utilizzata soprattutto in sede di scambio comunicativo o informativo, ma per le vecchie storie (si vedano gli Ent o gli Elfi) si preferisce usare la propria lingua, anche perché essa è più adatta a trasmettere i fatti relativi alla propria gente e le traduzioni vengono definite “infedeli”, giacché non tutto che può dirsi di buono in una lingua può tradursi nella corrente.
Va notata la preminenza della storia, come narrazione di fatti, all’interno delle Terre di mezzo. Questa importanza non va sottovalutata. A prescindere dal fatto che l’autore, Tolkien, fu uno dei più insigni studiosi di storia antica e medioevale e che fu un esperto conoscitore della lingua inglese e delle lingue europee arcaiche, ciò che ci interessa qui è rilevare l’importanza della funzione della storia nel mondo di Tolkien. La storia, dunque, è testimonianza delle azioni di un popolo, ma vale anche come giustificazione morale della sua esistenza. Se, come abbiamo continuamente ribadito, i fatti del mondo di Tolkien hanno sempre una componente morale intrinseca, se ciò, come visto, vale all’interno del contesto biologico-generativo, allora la storia ha la funzione di evidenziare se un popolo è buono o cattivo, in base al fatto che la storia degli effetti di un popolo, se è buona, indica che il popolo è intrinsecamente buono, viceversa non lo è. D’altra parte, infatti, i traditori non sconfessano la storia del loro popolo, giacché si separano dalla loro comunità come esseri devianti (Saruman per tutti). In questo senso, la storia è sia descrizione di fatti antichi, sia giustificazione stessa di un popolo di fronte agli altri. Ma non solo.
La storia, come narrazione dei fatti antichi, è l’unica conoscenza che deve essere coltivata perché tanto più si scava nel passato e tanto più si rivedono i fatti antichi che non sono stati corrotti dalla commistione del bene col male. Tanto più si va a ritroso nel tempo e tanto più il bene era tanto maggiore, così come il male. Il tempo, infatti, ha disperso molto del male, ma esso ha contaminato molto del mondo buono, sicché solo andando al principio si ritrova tutto nella sua perfetta purezza. Così, ad esempio, le leggende sulla venuta degli Elfi o del capostipite dei Nani mostrano come la realtà arcaica fosse più pura e, in un certo senso, più incontaminata.
E’ da questi elementi di sottofondo (biologismo, preservazione pura delle specie, assenza di una morale sovrastante ma immanente al mondo, la storia come giustificazione delle azioni di un popolo) che sorge lo spirito conservatore di Tolkien, che ricorda molto certi aspetti del pensiero nietzschiano. La storia non è vista come l’eterno ritorno dell’identico, in superficie, ma lo è nel profondo: la lotta del bene contro il male ripercorre sempre il medesimo processo, pur mutando sempre di forma. Allo stesso modo, per questo continuo mutamento delle forme esteriori e contaminazione reciproca dei fatti morali buoni e cattivi, emerge l’idea che le cose all’origine fossero migliori. Anche Tolkien ama la natura perfetta e pura dei grandi eroi, che portano avanti le loro rispettive forze e, come vedremo, ciò vale tanto più all’interno della concezione tolkeniana della morale; ma qui non si può non evidenziare il vitalismo fiero della figura dell’eroe che ha il compito di guidare la plebaglia, interpretata come libera, se buona, o schiava, se cattiva. Non si dimentichi, infatti, che tutti coloro che si recano al cancello di Mordor sono volontari, mentre gli eserciti di Sauron sono schiavi.
La principale differenza tra Nietzsche e Tolkien, a questo riguardo, è che per il primo non esistono descrizioni privilegiate degli eventi reali, ma solo dei discorsi linguistici impossibili da ordinare in una scala gerarchica di attendibilità. Vale a dire, che per Nietzsche, ogni descrizione della realtà è solo una possibile interpretazione di essa e non l’unica possibile, compresa quelle stesse analisi sulla realtà che egli fornisce non sono da considerarsi privilegiate rispetto alle altre. Per Tolkien le cose stanno in modo decisamente diverso. Non soltanto esiste una possibile descrizione di ogni evento fisico, ma tale descrizione, se vera, è anche buona, sicché essa è sia l’espressione della verità immanente alle cose, sia l’esplicitazione, a livello morale, di ciò che è giusto fare e di ciò che va fatto. Niente di più lontano dall’acosmismo epistemico/descrittivo di Nietzsche!
2.4 L’uso ludico del linguaggio
La filosofia del linguaggio di stampo analitico, cioè il paradigma dominante, offre una gigantesca impalcatura di natura semantica, investigando i problemi della definizione dei termini semantici fondamentali (senso, denotazione e verità). Ma essa fallisce molto spesso nel riuscire ad offrire una descrizione e qualificazione del linguaggio ordinario e, per questo, la pragmatica analitica (da Grice e i neogriceani, alla teoria degli atti linguistici da Austin in poi) ha fatto molto per chiarificare i termini fondamentali della comunicazione (intenzione, implicito, esplicito, atto linguistico). Ma su un punto sia la semantica che la pragmatica si trovano concordi: comunicare significa scambiare informazioni, comunicare credenze, asserire enunciati veri o falsi. Eppure tutto questo sembra ignorare un uso fondamentale del linguaggio: il divertimento.
Sarebbe inutile, in questa sede, difendere questo ulteriore genere di approccio al linguaggio, ma è indispensabile notare che la logica del linguaggio ludico sfrutta sia i significati e le aspettative su di essi da parte del parlante e ricevente, sia le aspettative su quanto verrà compreso dal parlante e dal ricevente. In altri termini, il linguaggio ludico si fa beffe tanto degli aspetti propriamente semantici sia di quelli comunicativi, se volti alla diffusione di credenze. I giochi di parole, le barzellette sono espedienti che fanno leva, chiaramente, sulla semantica e sulle aspettative dell’uditore, ma non hanno alcun significato (talvolta, i nonsense) e non hanno interesse a comunicare credenze vere. Ad esempio:
(a) Cosa fa un gallo in acqua?
(b) Non so. Beve?
(a) Galleggia.
E’ evidente che, qui, non si vuole comunicare né l’idea che un gallo faccia qualcosa di particolare nell’acqua. Ed è addirittura irrilevante stabilire se il gallo galleggi oppure no. Il gioco di parole sfrutta l’assonanza tra le parole e i significati, cioè i termini “gallo” e “galleggiare” hanno una radice comune nel suono, ma non nel significato e il gioco sfrutta proprio questo fatto. Il divertimento nasce proprio dalla costruzione del nonsense.
Ne Il signore degli Anelli non compaiono nonsense, ma il linguaggio è continuamente sfruttato allo scopo di fornire un sano divertimento ai protagonisti. Essi cantano, raccontano storie buffe e divertenti non per sapere qualcosa ma come scopo diversivo. D’altra parte, basta essere entrati in un bar di qualche paese in cui gli anziani non erano persone abituate alla televisione (che fa proprio l’uso e abuso del linguaggio come strumento di divertimento) per ascoltare le loro chiacchiere e venire a scoprire che parlano quasi a vanvera, ma non senza scopo. All’interno de Il signore degli Anelli l’assenza di strumenti adatti al divertimento rende il linguaggio uno dei pochi mezzi in grado di distrarre i protagonisti dai problemi a cui sono continuamente soggetti, vista la dimensione drammatica delle loro vicende.
[1] Ivi., Cit., p. 83.
[2] Ivi., Cit., pp. 321-322.
[3] Ivi., Cit., 833.
[4] Ivi., Cit. p. 365.
[5] Ivi., Cit., p. 384.
[6] Ivi., Cit., p. 357.
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