Di Andrea Corona. www.scuolafilosofica.com
L’ufficio era polveroso e chiaramente trascurato, cosicché la prima cosa che fece fu riempire due grandi scatoloni di vecchi effetti appartenuti al precedente titolare della cattedra, nonché dare una ripulita generale ma meticolosa. La seconda fase comprendeva la colonizzazione della scrivania e delle pareti tramite foto in numero di tre, (3) delle quali una raffigurante il conseguimento della laurea, una della mamma e un’altra che lo ritraeva insieme al presidente della XXX farmaceutici, nonché di due (2) portapenne ricolmi di cartoleria promozionale in numero di matite tre (3) e penne dieci (10) in quattro colori con in evidenza il logo XXX, il quale risultava bene in vista nella parete a fronte della porta, di fianco alla foto del presidente del consiglio e a quella della facoltà, che si stagliava come un miraggio davanti al blasone dell’università.
A soli dieci anni dalla laurea era riuscito a conquistare il posto che era appartenuto prima al dottor L., di cui era stato prima alunno poi amico, sennonché negli ultimi tempi, un senile disprezzo per le grandi novità e l’ordine costituito l’avevano portato alla rottura con il bicamerale accademico e soprattutto con i dirigenti di XXX farmaceutici, e quindi inevitabilmente con lui, il nuovo titolare della cattedra. Ma il passato è passato, e lo svecchiamento dell’età media del corpo dei docenti era necessario affinché la facoltà e tutta l’università fosse in grado con forze fresche di contribuire con slancio e vigore al progresso e alla crescita industriale. Quasi non credeva che la stessa persona che tanto aveva tenuto in considerazione nel difficile periodo dei difficoltosi studi fosse arrivata a tacciarlo di servilismo nei confronti dei più grandi benefattori della facoltà, di quelli che avevano permesso il proseguimento delle lezioni quando invece che della carta igienica, onniassente, il rettore aveva suggerito l’utilizzo di volantini di protesta e affini, ugualmente degni, a suo dire, di portare a compimento lo scabroso compito. La XXX aveva finanziato i corsi, permesso a tanti studenti – impossibilitati dalle onerose tasse – gli studi, grazie a generosissime borse di studio, delle quali lui per primo si era avvalso, aveva dato lavoro certo con criteri di meritocrazia e sistemato ottimi professori nelle cattedre vacanti, garantendo una formazione di qualità. Tutto ciò era noto nell’ambiente accademico che veniva continuamente aggiornato dal giornale dell’università, tenuto dagli studenti delle varie facoltà, il quale divulgava statistiche sempre nuove e rendeva il giusto merito alle eccellenze. Non lui servo, ma il dottor L. ingrato, e giustamente e prontamente sostituito. La mozione di sostituzione fu deliberata all’unanimità dal senato accademico insieme a quella che stabiliva l’allargamento dei parcheggi nell’area dei professori.
Finalmente, professore. Finalmente la cattedra. La trepidazione di conoscere le matricole, con i loro numeri stampati sulle divise rosse e blu, era sempre crescente, inversamente proporzionale al tempo che lo separava dal convegno di presentazione. Un suo vecchio collega, trasferitosi all’estero per esercitare la professione, era stato chiamato per fare la presentazione. Il convegno si avvicinava mentre il cuore batteva così velocemente che per calmarlo decise di prender dieci gocce di I.aV., la cui composizione era frutto del lavoro di alcuni studenti dell’anno passato, che l’avevano presentata come tesi di laurea. Un lavoro perfetto che era valso loro il massimo dei voti, naturalmente, perché la generosità nelle lodi non era mai abbastanza per premiare i più meritevoli.
Una folla bicolore fatta di numeri a cinque cifre ascoltava in silenzio mentre il rettore e mister X introducevano Giordani, il vecchio collega che lavorava all’estero. Portava una curata barba bruna e capelli disordinati. L’accento locale si era perduto da qualche parte nel mondo, senza però far spazio ad inflessioni forestiere. Vestiva un completo scuro senza cravatta. Il raggiante e sorridente neo-professore si sistemava abilmente la sua, stringendo il nodo con rapidi strattoni alla parte magra. Giordani iniziava:
– Grazie, grazie. E salve a tutti!
Applausi.
– Ricordo quando io e il professore sedevamo laggiù, proprio come voi. Lo ricordo come se fosse ieri, forse perché era ieri, perché tanto tempo, in fondo, non è passato. Eppure quasi non riconosco questo posto. Splendide aule, edifici intonacati di fresco e giardini ben curati! Addirittura, ampi parcheggi!
Applausi e risatine. Sorrisi dei big e cenni d’assenso ripetuti da mister X.
– Ai nostri tempi, quelli delle proteste per intenderci, il rettore ci invitava a utilizzare i volantini al posto della carta igienica, tagliata anche quella dai budget. Ci invitò anche a non gettare questi ultimi negli scarichi, perché se si fossero intasati, sarebbero rimasti intasati. Qualcuno malignamente aggiunse che quella propaganda di partito non la voleva certo neanche la fogna, nera per definizione.
Qualche risata qua e là, ma i più non parvero accorgersi della battuta.
– Qualcuno allora propose di lasciare in giro per la facoltà i volantini imbrattati, e qualcun altro per scommessa accetto di farlo. Io so chi, ma non farò la spia.
Questo lo disse girandosi verso un imbarazzatissimo professore, rosso in volto e intento ad allargare il nodo con il dito indice.
– Come vedete, l’atmosfera era ben diversa da oggi! E per questo intendo pubblicamente ringraziare la XXX farmaceutici e le altre imprese per quello che hanno plasmato, per questa nuova università! E ancor di più presentare a voi il mio vecchio collega, giovane simbolo delle rinnovate proposte e delle mantenute promesse, il professor…
Applausi, standing ovation, urla da stadio: X-X-X! X-X-X!
Finché l’ex-professor L. non fece il suo ingresso sul palco e la platea blu e rossa si calmò, in una bonaccia improvvisa.
Prese il microfono a un divertito Giordani, e lo fece solo per far sentire alla platea il rumore di un intero barattolo di pillole I.aV. che prepotenti si infilavano in bocca, manco fossero pillole di cioccolato. Il crack – crack delle pastiglie che venivano frantumate dai denti risonava nel modernissimo impianto audio, e nelle menti degli spettatori increduli. Crack – crack, e sempre più pillole prendevano il posto di quelle ormai ingollate. Il professore si discostò disgustato quando L. cadde a terra, la bocca schiumante, gli occhi bianchi e il corpo scosso da fremiti e convulsioni. Giordani si fiondò prontamente dagli studenti di medicina per chieder una mano, ma quelli si ritiravano sgomenti, incapaci di trattare il caso. Il farmaco non poteva dare tali effetti neanche se assunto in dose massicce, era ovvio, tutti loro lo usavano! Non erano preparati! Il professore ne assumeva anche ora, dando le spalle all’uomo a terra, mentre tratteneva i conati di vomito. Giordani cercava di far vomitare le pillole ad L. ma era troppo sconvolto nel vederlo in quelle condizioni, troppo sconvolto dal sentire due dottorandi discutere di come ricombinare i componenti S e F del farmaco, come fossero davanti a una cavia. Poi, quando si credeva perduto, nella tempesta del panico generale una ragazza tornò trafelata da qualche laboratorio mettendogli in mano una grossa siringa.
– Cos’è?
– Adrenalina.
Rispose lei.
Giordani, superato lo shock, fece l’iniezione; L. si sarebbe salvato. La ragazza gli disse di essere al primo anno di lettere. Stupito, Giordani le chiese come sapesse dell’adrenalina.
– Ho visto Pulp Fiction.
Fu la risposta. Dopo l’arrivo dell’ambulanza, dopo la scomparsa di mister X e la cravatta tra le mani del professore, Giordani risalì sul palco, e riprese a parlare.
– Come è cambiata l’università italiana!
Disse, e tutti si voltarono a guardarlo, svegli e pronti come se si fossero passati la siringa di adrenalina.
– Ed è colpa nostra. Colpa, perché per l’efficienza delle strutture, per le borse di studio e per il lavoro assicurato abbiamo sacrificato l’istruzione. L’abbiamo fatto perché avevamo paura. Paura del futuro che non c’era, paura di un presente che viveva in uno stato d’arretratezza e inadeguatezza. Avevamo paura di farcela con le nostre forze,e ci siamo stoppati a vicenda, tutti quanti, perché avevamo paura l’uno dell’altro. Fummo bollati come rivoluzionari da quelli che bollammo come reazionari,ci etichettammo perché volevamo, almeno noi, esser sicuri di capirci qualcosa, di identificare, mettere a fuoco qualcosa nelle incertezze. Il terrore di non arrivare da nessuna parte, la disorganizzazione, le idee distruttive e l’assenza di proposte costruttive ci costrinsero al ribasso. Accettammo, e non l’ho mai ammesso neppure con me stesso. Fu anche colpa mia, mia. Colpa mia.
Silenzio.
– E adesso, ecco a voi, il vostro professore.
E lanciò il microfono al vecchio collega, che ripeteva nella propria mente, all’infinito, che:
No non è stata anche colpa mia che no non è vero niente comunista ecco che sei tu tutti voi sputate nel piatto dove mangiate L. vecchio pazzo che schifo ma io no io no io non c’entro io ho fatto bene io son qui perché me lo merito allora tutto era uno schifo e mi ci pulivo il culo con la protesta maledetti maledetti L. crepa davvero io no io mai mai mai cosa è successo al farmaco oddio merda inchieste oddio no daremo la colpa agli studenti si si rivoluzionari non si accontentano neanche della ricchezza che stia fuori a lavorare va via qua non ci servi le tue idee non servono non servi inutile inutile…
Allora la ragazza della siringa raccolse i microfono , e gridò a Giordani che con passo spedito imboccava l’uscita:
– Comunque, grazie.
Lui non si voltò, non la sentì; fuggì via. E non tornò mai più.
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