Di Pili W. www.scuolafilosofica.com
Ruiu su coro
e s’animu che lizzu
cussos colores
adornant s’istendarde
boh! boh!
e fortes che nuraghe
a s’attenta pro mantenere
sa paghe[I]
1 INTRODUZIONE
Oggi giorno è difficile riuscire a dialogare di politica. Difficile chiarire a noi stessi di quale schieramento facciamo parte. Difficile capire la politica dei nostri capi di governo sia a livello regionale che nazionale. Ma difficile è un eufemismo, forse la parola giusta è “impossibile”.
Oggi, si usa dire “Sono di sinistra” oppure “Sono di destra” o ancora “La destra e la sinistra non mi riguardano”. Il fenomeno dell’astensionismo è alto. Più che mai nelle elezioni di questi ultimi anni e mesi si è registrato questo dato che fa riflettere. Il diritto di voto è stato ottenuto dopo anni e anni di lotte e repressioni, di cui sono state vittime specialmente le donne: è possibile che nel 2010, con un sistema democratico ed elettorale ancora molto “giovane”, si arrivi a un disimpegno e a un distacco così massiccio?
È chiaro che c’è bisogno di idee innovative e fresche che diano nuovi e importanti stimoli alle nostre menti, segnatamente dei giovani, che creino uno scambio di opinioni, uno scambio generazionale. Questo può apparire scontato, ma non è così evidentemente. La crisi economica (ma anche quella dei “valori”) porta sconforto nella popolazione. Il tema è assai delicato, quanto mai attuale, specie nella nostra terra, la Sardegna. Indipendentismo, autonomismo, governarsi con un nuovo stato invece che amministrarsi con una regione (che fa parte di un “altro” stato). È possibile creare (meglio, ricreare) un ambiente in cui i sardi si riuniscano sotto una bandiera tutta “loro”, quella dei Quattro Mori rigorosamente rivolti verso sinistra, come vuole la tradizione? Questa, la direzione a sinistra dei volti dei re mori (come dice la benda sulla fronte e non sugli occhi), è un’altra storia, che merita riflessioni successive.
Essere un indipendentista, uno che fa parte di quelle persone, rare ma non troppo, a cui piace il ritorno alla vita pastorale (che significa metaforicamente economia basata sull’agricoltura e sull’allevamento), all’aria aperta (che significa metaforicamente vivere in un ambiente ecologicamente sostenibile) e allo sfruttamento della propria terra per la propria sussistenza, a cui piace indossare sa berritta in sa conca a traballai[II], che non disdegna pensare all’utopia di uno stato sardo, in cui il popolo unito, que jamas serà vencido, dagli stessi usi e costumi non debba essere legato agli interessi egoistici di un’altra nazione, i cui leader si ricordano di Noi solo quando piombano dal Continente le elezioni e vengono a cercare consenso popolare, ecco che “essere indipendentista”, pensare all’indipendenza dell’Isola, come sono Malta o Irlanda, per esempio, può essere considerata un’idea nuova, nonostante nella storia è già capitato che qualcuno ci abbia pensato.
La Sardegna, nonostante le grandi potenzialità di avere una “bilancia commerciale” a sua favore, è ancora una terra povera perché deve pagare con gli interessi gli aiuti economici dallo stato e i dirigenti locali, spaventati dagli equilibri romani, non riescono a fronteggiare la crisi. Lo stato indipendente si fonderebbe su una economia ricostruita secondo principi di solidarietà e democrazia come quelli di certi paesi dell’Europa del nord, in particolare quelli scandinavi. La Sardegna sembra essere considerata una scatola di voti, un seggio elettorale e questo va bene a tutti i politici. I cittadini lo hanno sempre saputo ma ora sembra che lo capiscano meglio, e questo spiega (ma non solo questo) il forte astensionismo elettorale. La terra sarda non può essere soltanto una regione da cui trarre linfa vitale, né può essere ricordata soltanto per la Costa Smeralda e il Billionaire.
La Sardegna è un’altra cosa, è un popolo. La Sardegna è madre di vita per i suoi quasi due milioni di abitanti. I presupposti ci sono tutti: nessuna regione in Italia, e forse nel mondo, presenta un identità forte passata indenne, con difficoltà e contraddizioni, alle scosse telluriche della colonizzazione di quelli “venuti dal mare”, in primis gli spagnoli dell’inquisizione.
Da questi presupposti partirà la mia tesi.
L’Italia è uno Stato in crisi “dentro” la crisi (mondiale). Difficile non guardare con diffidenza a un mondo politico che ama distinguersi per la corruzione e interessato solo alla salvaguardia autoreferenziale della propria esistenza. Uno Stato dove convivono allegramente la legalità e l’illegalità, dove i mafiosi influenzano le scelte politiche e la maggioranza dei cittadini onesti devono assistere con rassegnazione, quando pure non sono annichiliti, allo scempio delle istituzioni.
Uno Stato indipendente sardo potrebbe essere un tentativo di fuga da questo mondo sbagliato e ingiusto che sembra peggiorare di giorno in giorno. Troppo grande l’Italia per compattarsi sotto un’unica bandiera, come pure, ma da posizioni del tutto egoistiche e antisolidaristiche, dicono i padani che stanno al governo? Vale davvero la pena vivere in uno Stato in cui i gossip e i pettegolezzi di basso bordo prevalgono sulla verità drammatica dei fatti? In cui molti dei fondi destinati alla cultura, giusto per tornare a esempi di egoismo antisolidale, vengono soppressi, o in cui la scuola pubblica è destinata a privatizzarsi per fare gli interessi delle potenti lobby continentali?
E lungi dal pensare che quanto sostengo in termini di proposta e di dubbio sia da considerare propaganda politica o, peggio, antigovernativa. Ma io, ὦ ἄνδρες Ἀθηναἶοι[III],intendo soltanto provare a dimostrare come dietro le parole ci sia un progetto intellettuale e ideale prima che politico, fatto di idee nuove, visto che le stesse, quelle dell’indipendentismo rivendicazionista e “resistenziale”, sono invecchiate, obsolete e passate di moda o, avrebbe detto Marx, finite “nella spazzatura della storia”. Potrebbero forse dirsi “rivoluzionarie”, nell’unico senso, pacifico e orientato al bene di tutti, che deve esistere. Idee antiche ma nuove che possono aprire orizzonti di cambiamento e di speranza.
Scoprire i lati positivi e i lati negativi di un nuovo stato indipendente, sa Sardinia Natzione ha come scopo, non di far diventare indipendentisti chicchessia, ma di far riflettere. Altrimenti la tesi non avrebbe senso e si presterebbe a strumentalizzazioni di tipo politico o, peggio ancora, di parte.
1.2 CENNI STORICI
“Procurad’e moderare
Barones, sa tirannia
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pés in terra
Decrarada est giaj sa gherra
Contra de sa prepotentzia
Incomintzat sa passentzia
In su pobulu a mancare[IV]”
Da millenni la Sardegna è stata una terra di tutti gli invasori e di nessuno dei sardi. Tra i primi ad abitarla furono gli uomini delle civiltà prenuragiche vissute nel paleolitico di cui abbiamo frammentarie, ma numerose testimonianze specialmente nella zona de La Maddalena, nell’algherese, nel sulcitano e nel colle di Sant’Elia a Cagliari: questi protosardi vivevano pacificamente in villaggi campestri. Col successivo avvento della civiltà nuragica, le popolazioni tanto organizzate quanto ancora misteriose erano riuscite a costruire circa diecimila nuraghi, secondi solo, per importanza architettonica e storica, alle piramidi. Nelle Domus de Janas, prima, e nelle Tombe dei Giganti, poi, seppellivano i loro morti. Vivevano nel loro isolamento – caratteristica fisiologica di ogni regione insulare – e non ci sono attestazioni di guerre con popoli esterni alla Sardegna: più probabili invece erano le lotte intestine, come ci racconta Sergio Atzeni in “Passavamo sulla terra leggeri”, caposaldo, a mio parere, della letteratura sarda. Il “custode del tempo” ricorda ai sardi, “passati leggeri” nel corso turbolento della storia, l’identità, le tradizioni e i “valori” che facevano (e ancora fanno) della Sardegna un unicum culturale e politico.
Nel VII secolo a.C. arrivarono i Fenici, forse gli unici “venuti dal mare” per non predare ma per commerciare, prima, e fondersi poi con le popolazioni autoctone. Per questo per primi fondarono le (poche, ancora) città costiere della Sardegna, a cominciare da Cagliari, fenicia anche nel toponimo: Karalis vuol dire infatti “la città del calcare bianco” (da “kar”, calcare nella antica lingua fenicia). I predatori iberici, 1500 anni dopo, si impadronirono anche della lingua e spagnolizzarono anche il toponimo che, dopo una metatesi (Karalis-Kalaris), raddoppiarono, come era loro usanza (tramandata sino ad oggi), la “L”, da cui “Kallaris”: poiché nella lingua castigliana la doppia “L” si pronuncia “GL” (come in aglio), ecco Cagliari. Che i Sardi, tuttavia, chiamano “Casteddu” a ricordare il Castello, il castrum Karalis dei Pisani (che ebbero lo stesso atteggiamento amico dei fenici), la città murata[V] simbolo di forza e di indipendenza.
I Fenici fondarono anche Nora, Tharros, Bithia, Cornus, ampliarono Sulki, tutte situate su promontori ridossati da entrambi i venti dominanti: il maestrale e lo scirocco. Non per niente erano, diversamente dagli autoctoni che si erano rinserrati nel cuore montano dell’Isola per la paura di quelli che venivano dal mare, abili navigatori e conoscevano la rosa dei venti senza bisogno di bussole o carte del Mercatore.
Queste importanti città si svilupparono attraverso il commercio rompendo, per la prima volta dopo molti secoli se non da sempre, l’isolamento e aprendo alla Sardegna i contatti con il mondo esterno. La colonizzazione fenicia fu quindi una tappa molto importante per l’Isola per gli stimoli significativi, sostanziali e senz’altro benefici, compresa la scrittura come attesta il ritrovamento a Nora di una tavola scritta nell’alfabeto antico.
Un secolo dopo vennero i Cartaginesi, discendenti anch’essi dai fenici ma “predatori” più che commercianti. E c’è una bella differenza tra predare e commerciare tra – come ricorda un famoso storico greco – tra i Persiani sbarcati ad Atene per metterla a ferro e fuoco e i Fenici approdati pacificamente per scambiare i loro prodotti.
Il buon grano duro della Sardegna, dunque, avrebbe sfamato anche i Cartaginesi. Pare che al seguito degli uomini di Amilcare e Annibale Barca (che avevano fondato la città di Barcellona che diventerà dopo quasi un millennio e mezzo la “capitale” anche della Sardegna) arrivarono anche le zanzare che ebbero un ruolo tragicamente importante nella storia dell’Isola. La malaria, che aveva reso i sardi “pocos e locos” (come avrebbe detto Carlo V aggiungendo anche “male unidos” a stigmatizzare le lotte intestine), è stata debellata soltanto sessant’anni fa grazie al Ddt profuso dagli ultimi uomini venuti dal mare, gli americani cui, per questo, tuttavia, la Sardegna deve essere grata. E lo è stata concedendo parti del territorio alle loro basi militari.
I Cartaginesi di fatto si limitarono a occupare le città fenicie e a sfruttare il granaio sardo che tuttavia faceva gola anche alla seconda grande potenza del Mediterraneo in quel tempo, Roma che sottrasse l’Isola ai punici a conclusione di una guerra di conquista: le armate di Tito Manlio Torquato sconfissero nella battaglia di Cornus, quelle dei sardo-punici dove il prode condottiero Amsicora fu catturato e suo figlio Iosto ucciso: due eroi sardi ancora vivi nella memoria del popolo.
Nel 227 a.C. la Sardegna passò sotto il dominio di Roma divenendo poi una sua provincia. Anche la “colonizzazione” romana ebbe molti aspetti positivi e molti segni importanti e sostanziali rimangono tuttora a testimoniare la grande capacità dei sardi di adattarsi e di assimilare – a cominciare dalla lingua che ancora viene parlata dal popolo – ciò che di buono viene trasmesso dalle culture esterne. La disgregazione dell’impero romano causata dalle invasioni barbariche “toccò” anche la Sardegna che fu occupata, sia pure per breve tempo, dai Vandali, circa a metà del primo millennio.
Questi secoli furono importantissimi per lo sviluppo economico e territoriale della nostra terra: l’agricoltura delle pianure si contrappose all’allevamento delle montagne creando una “separazione” politica e sociale e differenze culturali tra la Romània, ovvero il mondo isolano romanizzato, e la Barbaria (da cui Barbagia, “terra straniera”, traducendo alla lettera dal latino), la vasta regione dell’isola che fu meno influenzata dalla presenza romana. I romani, d’altronde, sempre molto realisti e pratici, ci misero molto tempo a conquistare quella zona montagnosa, aspra e resistenziale che restò per molto tempo autonoma e autarchica.
L’Alto Medioevo vede la Sardegna nelle mani dei Bizantini, che l’avevano ereditata dall’impero romano di Oriente. Con essi si pongono le basi del ritorno all’indipendenza dei popoli sardi la cui assenza datava ormai dal periodo nuragico.
L’influsso della civiltà bizantina fu notevole sotto il profilo culturale e religioso, questo specialmente dopo che Ospitone, il capo dei Barbaricini, “contrattò” col papa Gregorio Magno la conversione al cristianesimo. Così i sardi, invece di adorare i pali di legno, cosa che faceva inorridire il papa e Dante Alighieri, venerarono i nuovi simulacri e i nuovi santi ma con una loro originalità “animistica” tramandatasi dai tempi prenuragici attestati dai betili, menhir, madri mediterranee e sardus pater. Questo “mix” di riti bizantini e della religiosità di Ospitone è tuttora una caratteristica identitaria sarda come si può evincere dalle innumerevoli sagre alcune delle quali hanno la stessa impronta e la stessa radice causale. La spettacolare Ardia di Sedilo festeggia un santo – Costantino – inesistente e i Mamuthones continuano imperterriti a scacciare gli spiriti maligni coi loro campanacci e le loro danze dionisiache.
L’adattamento dei sardi alle civiltà aliene, comprese quelle imposte dai papi, a loro volta considerati invasori venuti dal mare, dimostra l’assunto identitario che corre nelle vene della loro storia millenaria. Dove il mondo arabo, diversamente che nell’isola sorella della Sicilia e in buona parte del Mediterraneo, non ebbe alcun influsso consentendo alla Sardegna, con l’esaurirsi progressivo come la fiamma di una candela del potere bizantino, di crearsi delle strutture autonome, autodeterminarsi e rendersi indipendente. Torna l’isolamento ma nessuno straniero domina in Sardegna nel periodo – circa quattro secoli – dei “Giudici” (termine di derivazione bizantina).
Il nuovo sistema politico-amministrativo era basato sulla divisione territoriale di giudicati (o regni o, in sardo, “logus”: “Carta de Logu” – la costituzione predisposta da Mariano IV di Arborea e promulgata dalla figlia Eleonora – significa appunto la Costituzione del Regno): Cagliari, Gallura, Torres e Arborea.; piccoli stati autonomi con a capo un giudice con poteri sovrani. Ma gli invasori venuti dal mare si preparavano a nuove scorribande. Le potenze marinare di Genova e Pisa fecero un po’ come i Fenici, acquistando pezzi di territorio e commerciando. Ma non misero in discussione l’indipendenza dei Sardi. Anzi gli scambi economici e culturali furono forieri di importanti e durature realizzazioni. I castelli del Sulcis e quelli del Capo di Sopra, il quartiere più emblematico di Cagliari con le torri pisane, ne sono la dimostrazione più evidente.
Ma gli invasori sono ad portas e il famigerato papa Bonifacio VIII ci mise del suo. Non per nulla Dante gli trovò una degna collocazione all’Inferno anche prima che fosse morto.
“I canali di Corsica e di Sardegna sono sin troppo aperti sui mondi vicini, orlato da terre troppo ricche e troppo popolose per non aver avuto un destino movimentato.”[VI]
Mentre le due potenze marinare arrivarono a una sorta di spartizione in qualche modo condivisa dai sardi, il sud ai pisani e il nord ai genovesi, nel 1250 circa, passano appena cinquanta anni e quel papa, allo scopo di risolvere i dissidi tra quelle potenze, creò il Regnum Sardiniae et Corsicae, dando questo “feudo” creato dal nulla all’amico Giacomo II, “cattolicissimo” re di Aragona.
La Sardegna era in quel momento divisa in tre sotto-stati: da una parte il vecchio sistema giudicale, su cui spiccavano quelli di Cagliari e quello d’Arborea, da un’altra il sistema pisano-genovese e da un’altra ancora il sistema feudale – monarchico della Corona di Spagna che, dopo diverse pressioni e parecchie battaglie, assunse il pieno potere dell’isola alla fine del ‘400 dopo l’ultima battaglia, Sa battalla, a Sanluri dove i resti militari dell’Arborea, l’ultimo regno libero della Sardegna, furono sconfitti.
I sardi dovettero tollerare gli Spagnoli e furono trattati come una colonia: dovevano pagare i tributi al re, completamente sottomessi alla Corona spagnola per tre secoli. Nel 1700 infatti, gli Spagnoli si trovarono a fronteggiare una grave crisi dei loro apparati e il governo austriaco-sabaudo ne approfittò per appropriarsi dell’isola: il trattato dell’Aia nel 1720, sancì che la Sardegna passò dall’essere un dominio spagnolo, all’essere un dominio austriaco. Ma per poco tempo. Gli Asburgici, infatti, la “scambiarono” con la Sicilia e la consegnarono al Piemonte dei Savoia.
Ancora una volta nella storia, la Sardegna venne considerata come merce di scambio: la monarchia sabauda aveva interesse per la Sardegna “solo per un eventuale uso dell’isola come oggetto di scambio per altre acquisizioni territoriali.”[VII]
La Sardegna, debilitata economicamente da secoli di feudalesimo ispanico e nel fisico dei residenti a causa della malaria, e le sue classi dirigenti, poche, “loche”, frazionate e impreparate, non poterono che subire le decisioni altrui. D’altronde in tutti i secoli di varie dominazioni, non ci fu mai un’omogeneità politica. Così i Savoia, nel primo trentennio del loro dominio, cercarono di mantenere intatta la situazione politica isolana, caratterizzata da una parte filo-spagnola, da una parte filo-austriaca e una minuscola e inconsistente parte di filo-piemontesi. Un vero sentimento nazionale, come per esempio in Corsica, non esisteva.
I Piemontesi, poi, dovevano cercare consenso. Così, a partire dal 1750, attuarono una politica nuova,che finalmente si preoccupava di individuare e risolvere i problemi atavici della Sardegna attraverso un “riformismo senza riforme”[VIII]. Si distinse in questo il ministro Bogino, senz’altro un politico buono, tra i più bravi passati nell’Isola, anche a confronto con quelli attuali. Il suo zelo e il suo fervore “riformista”, specialmente nella competenza della giustizia hanno reso proverbiale la sua figura con l’equiparazione al diavolo o al boia: ancora si dice, infatti, “an ki ti currat su bugginu[IX]” o anche “an ki ti currat sa Giustizia”[X], quella implacabile del ministro piemontese, appunto.
La sensazione, comunque, era che la Sardegna continuava ad essere sfruttata ancora come colonia da cui attingere risorse anche se diversi cambiamenti giovarono all’isola: ad esempio, il miglioramento del sistema giudiziario ancora legato all’ordinamento della inquisizione, la creazione di un sistema postale, la costruzione di ospedali, la circolazione della moneta col conseguente incremento delle attività commerciali, il tentativo di modernizzare le strutture produttive e il riordino degli assetti amministrativi delle città e dei villaggi rurali. Furono riorganizzati i Monti Frumentari e i Monti Nummari[XI], riattivando un sistema creditizio e bancario che gli spagnoli, bravi solo nell’esigere i tributi, avevano trascurato.
Tale rinnovamento politico e anche morale – non c’era dubbio, infatti, che qualcuno finalmente, dopo secoli di “buio”, si interessava e si prendeva a cuore l’interesse collettivo e, come nel caso del Bogino, lo facesse senza tornaconto personale – fece maturare anche una nuova classe di intellettuali e di persone che potevano assumere ruoli di dirigenza.
Sino ad allora, dopo la perdita dell’indipendenza, i sardi non avevano espresso grandi figure di intellettuali, di studiosi, persone colte o preparate. Anche se quella di Sigismondo Arquer sicuramente si erge nel deserto generale. Nel Cinquecento, aveva scritto una “Brevis descriptio” della Sardegna per una specie di enciclopedia, la “cosmogonia” del Munster, e poiché si era permesso di criticare i preti (più attratti dalle donne che da Gesù Cristo) e le alte sfere, fu mandato al rogo a Toledo accusato dall’Inquisizione di essere un eretico luterano.
Tra le prime menti sarde che si distinsero per valore e intelligenza ricordiamo Porcile,ammiraglio, amico di Nelson, Tommaso Napoli, erudito carlofortino, il rivoluzionario Giovanni Maria Angioy, lo storico algherese Manno, Siotto Pintor e molti altri che oltre sviluppare ciò che si può chiamare pensiero sardo, segnarono e vivacizzarono la vita e il dibattito culturale – politico dell’isola a partire dalla prima metà dell’ottocento. Il canonico Spano, precursore e anticipatore del sardismo, fece consapevolmente carte false (“le carte di Arborea”) pur di far passare “l’idea”.
Gli anni più importanti nella storia della Sardegna moderna furono quelli a partire dagli anni ‘90 del Settecento, densi di avvenimenti “epocali” che scossero l’isola da un capo all’altro e che segnarono importanti cambiamenti nel pensiero e nella vita dei sardi. Fu allora che, sull’onda delle nuove idee portate dalla Rivoluzione francese, nacquero le prime proposte di “autonomia”. L’autonomismo cominciò a passare nelle menti di chi cominciava a rendersi conto che la Sardegna, non governata dai sardi stessi, veniva essenzialmente sfruttata per le sue risorse senza che per contro ci fosse un’adeguata distribuzione della ricchezza. Insomma cominciò anche a passare l’idea che la Sardegna non fosse propriamente parte integrante e sostanziale di un regno ma fosse una colonia.
Quasi a sostegno di queste nuove idee e di una nuova consapevolezza di se stessi, ci furono moti di piazza e insurrezioni contro il pagamento dei tributi feudali ancora esistenti o contro l’imposizione di nuove leggi, come quella famigerata, ma in un certo modo progressista, delle chiudende, che era senz’altro innovativa (e spazzava via il potere feudale), ma fu di fatto vantaggiosa solo per i pochi ricchi che arraffarono quanto più poterono col sistema vecchio come il mondo, ma attuale quanto mai dell’afferra afferra. La satira famosissima del poeta di Macomer Melchiorre Murenu dice tutto con pochi versi: “Tancas serradas a muru/ fattas a s’afferra afferra/ chi su chelu fit in terra/ si lu spratziant puru.”[XII]
I contadini erano stufi della loro situazione di povertà aggravata dalle imposte. In Sardegna come in tutta Europa si faceva sentire il riflesso delle vicende rivoluzionarie francesi, dei loro sviluppi ideologici. Un momento cruciale fu quando la Francia di fatto dichiarò guerra attaccando la Sardegna con una flotta discreta: fu per quattro mesi occupata l’Isola di San Pietro dove il rivoluzionario Filippo Buonarroti, promulgò la costituzione dell’Isola di San Pietro, fu bombardata Cagliari ma ci pensarono il forte vento e – si dice – Sant’Efisio a far scappare la flotta francese. Ma i sardi non appoggiarono il tentativo dei francesi e stettero perlopiù dalla parte del re. Anzi questa vittoria sembrò rinvigorirli psicologicamente e renderli consapevoli che comunque si potevano opporre a chi li perseguitava e li sfruttava.
Nel 1794, dopo che furono arrestati dai piemontesi due illustri cittadini di Cagliari, la popolazione insorse saccheggiando il palazzo vice regio e costringendo il Viceré alla resa: la rabbia dei sardi covava dopo secoli e secoli di emarginazione e ingiustizie. La rivolta più importante, ma fallimentare, fu quella capeggiata di Maria Giovanni Anjoy, rivoluzionario liberale che predicava concetti democratici alla popolazione rurale e cittadina. Ai cittadini Anjoy appariva come un liberatore, marciava di città in città, di paese in paese: il suo obbiettivo non era tanto l’abolizione del feudalesimo, ma soprattutto il distacco dal Piemonte e la proclamazione della Repubblica. Ma Anjoy, seppure appoggiato da una parte della popolazione, aveva nemici più forti di lui: il clero unito alla borghesia locale, appoggiati dalle forze piemontesi. Sconfitto a Oristano, andò e morì in esilio a Parigi. Sa die de Sa Sardigna, il 28 aprile, è la festa “nazionale” sarda per ricordare uno degli eventi più significativi relativi all’idea di indipendenza.
Gli anni successivi fino all’unità di Italia, furono segnati dall’abolizione del sistema feudale grazie al re Carlo Felice e alla ricordata legge delle chiudende che consentì un nuovo sviluppo dell’economia nonostante le fiere opposizioni e i motti, famosi quelli de “Su connottu”, di piazza contro l’applicazione pratica della legge stessa.
Il 1848 coincise solo come data ai moti divenuti proverbiali in tutta Europa. In Sardegna accadde di fatto il contrario. I sardi, forse per superare il concetto implicito di “colonia” che si portavano dietro e per essere considerati uguali nella legalità costituzionale del regno, chiesero al re la completa “fusione” della Sardegna col regno sabaudo: nessun privilegio, nessuna istituzione diversa, nessuna eccezione alla regola. Era, per un verso, il trionfo delle idee liberali ma nello stesso tempo un grave arretramento verso l’omologazione e un distacco quasi definitivo dall’idea di indipendenza. Distacco che, paradossalmente, aumentò con la Grande Guerra (1915-1918) nella quale i centomila sardi massacrati nelle trincee avevano dimostrato di essere i più fieri combattenti per la Patria “sdoganando” così tutti i sardi: con la Prima Guerra Mondiale i sardi “diventano” italiani e gli italiani lo riconoscono. Un bel risultato pagato solo con più di centomila morti.
Nel 1861 il Regno di Sardegna, a chiusura del Risorgimento, si trasformò in Regno d’Italia e la Sardegna, di conseguenza, “degradò” al rango di regione (geografica, non politica come ora) dello stato italiano.
I sardi, come pure gli italiani, con questo radicale cambiamento, speravano che le condizioni di vita migliorassero, che si creasse uno sviluppo economico e che il principio di uguaglianza venisse applicato meglio e sempre.
Ben presto dovettero ricredersi. Di fatto la Sardegna fu politicamente abbandonata a se stessa. Doveva cercare di sollevarsi economicamente da sola. La borghesia sarda era parecchio incerta e inadeguata, anche perché la concentrazione di ricchezza era molto esigua e la capacità imprenditoriale, per questo, limitata. Solo a fine secolo si ebbe una ripresa economica: il ricco sottosuolo della Sardegna favorì l’espandersi e la nascita di importanti centri minerari come Carloforte (dove veniva allocata la galanza per poi essere trasportata in Continente), Iglesias, Monteponi, Buggerru, Gonnesa. Il lavoro nelle miniere e nell’indotto fece nascere anche il “quarto stato” in Sardegna, gli operai e i proletari. Nacquero i primi sindacati, il Partito Socialista inviò in Sardegna Giuseppe Cavallera per istituirvi il partito. Si ebbero di conseguenza i primi scioperi promossi proprio dal Cavallera a Carloforte e, il 5 Settembre 1904 il primo sciopero in terra “sarda” (considerando Carloforte “ligure”) e il primo della storia italiana, a Buggerru, come ci racconta bene lo scrittore Giuseppe Dessì in Paese d’Ombre.
Dopo la prima guerra mondiale, nacque – sulla scia delle idee del grande intellettuale, politico e scrittore di Armungia, Emilio Lussu, che aveva comandato una compagnia della Brigata Sassari nella guerra contro l’Austria – il Movimento degli ex combattenti sardi che nel 1921, al congresso di Oristano, si trasformò in partito. Il Partito Sardo d’Azione ebbe subito un forte consenso popolare, opposto al fascismo in rapido sviluppo nello stesso periodo. Questo partito riprese il concetto che la “fusione” aveva abbandonato: la Sardegna doveva essere autonoma, cioè dotata di speciali poteri autonomistici. Un’altra corrente del partito, però, sosteneva che la Sardegna dovesse essere indipendente. Questa divisione del movimento sardista si è protratta sino ad oggi.
Il periodo fascista e il successivo riassumono bene i secoli precedenti: la Sardegna continuò ad essere una terra da “snazionalizzare[XIII]” e da sfruttare come colonia. Anche se occorre dire che quella corrente del partito sardo che aderì al fascismo riuscì a fare “interessare” lo stato delle cose sarde: con la “legge sul miliardo” si diede vita al primo vero “piano di rinascita” che finanziò opere pubbliche, bonifiche e la fondazione di città come Carbonia.
La caduta del fascismo dopo la terribile e infausta Seconda Guerra Mondiale consentì la nascita della democrazia e la realizzazione dei sogni del movimento sardista. La Sardegna, con legge costituzionale, fu dichiarata “Regione a statuto speciale” e autonoma.
La democrazia ha effettivamente cambiato il volto della Sardegna che finalmente è uscita dalla miseria e dalla depressione in cui versava in tanti secoli di inedia e menefreghismo. Oggi i sardi vivono nella speranza di non tornare indietro, di non incontrare più secoli bui, di non dover più abbassare la bandiera della libertà nonostante la grande crisi abbia toccato duro anche i sardi il cui spirito “resistenziale”, tuttavia, non è mai venuto a mancare.
Sino all’avvento della Democrazia, la storia della Sardegna è la storia di una terra sfruttata, a volte in modo barbaro e incivile, di una terra che visti limitati i diritti di libertà e autodeterminazione, quando ha cercato di ribellarsi è stata domata anche con la forza. Ci sono da fare parecchie riflessioni sulla nostra storia e c’è da capire come mai siamo sempre stati una terra assoggettata e come mai ancora comincia a parlarsi nuovamente di indipendenza..
1.4 UN’ECONOMIA INCONSISTENTE: COME MIGLIORARLA IN UNO STATO AUTONOMO E INDIPENDENTE.
“Custa, populos, est s’ora
D’estirpare sos abusos
A terra sos malos usos
A terra su dispotismu
Gherra, gherra a s’egoismu
E gherra a sos oppressores
Custos tirannos minores
Est pretzisu umiliare.”[XIV]
Quanto mai significativa questa strofa di “Procurad’e moderare”. Attuale perché alla fine dei conti i tempi non sono cambiati più di tanto: guerra, guerra all’egoismo! Alla fine del ‘700 era guerra all’egoismo dei piemontesi e della monarchia. Nel 2010, gli ideali sono diversi, viviamo in una democrazia, così pare, e le libertà le abbiamo ottenute tramite lotte dure, ma c’è ancora da combattere contro chi ci considera soltanto un grande seggio elettorale. Continuiamo ad essere una regione sfruttata per un verso, o non sfruttata per altro: l’economia della Sardegna è collegata a quella italiana. Il nostro prodotto interno lordo è a livelli di depressione. Ricorda il periodo delle vecchie battaglie dei contadini o dei pescatori contro i baroni e i proprietari terrieri. Oggi si lotta per tenere vive le industrie come quella di Portovesme, che tra l’altro nacque in seguito alla chiusura dell’apparato minerario della zona circostante, oppure l’Eni di Porto Torres, la Vinyls di Ottana, le piccole industrie di Macchiareddu e altre. Il fiore all’occhiello resta la continentale Saras, di Sarroch, l’industria del Dio Petrolio, come racconta Francesco Masala nel suo libro omonimo. La Sardegna sta vivendo un periodo di forte crisi. Ci vogliono fatti non le parole di quelli venuti dal mare per cercare voti.
[…]Ma, al loro fianco, le grandi distese marine, con il loro vuoto, con le loro solitudini, hanno la parte nella struttura generale del Mediterraneo. […] Un mare (lo chiameremo Mar di Sardegna) di difficile traversata, con coste inospitali, con vigorosi soffi di norôit e levante… le difficoltà di traversata nel senso dei paralleli si aggiungono le une alle altre.”[XV]
Una grande solitudine circonda la Sardegna. L’isolamento comporta obbiettive difficoltà da parte del capitale di arrivare. Il dialogo, lo scambio di opinioni con la penisola è difficile e si tende a vedere la nostra terra, come una terra di pecorari e pastori, secondo il luogo comune del “sardo”, e ora anche di camerieri. La Regione Autonoma dovrebbe avere il coraggio di “slegarsi” dall’Italia e rendersi indipendente quantomeno da tutte le forme di soggezione economica prima che politica. La Sardegna ha molte più possibilità e credenziali di quello che appare. Si può non dipendere dal Continente. L’indipendenza economica, prima di tutto: attraverso varie mosse, tutte importanti.
Occorre per prima cosa consolidare l’apparato industriale sardo: agevolare grandi investimenti per salvaguardare l’esistente e mantenere una grande industria.
Seconda mossa: valorizzare ancora più l’allevamento. La Sardegna possiede un terzo del patrimonio ovino e caprino italiano[XVI]. È un bene da sfruttare fino in fondo, ma nessuno pare interessarsene. Da questo settore si sviluppa la produzione di formaggi e la macellazione degli animali. L’allevamento della pecora sarda è ancora un tassello fondamentale nell’economia isolana, ma non bisogna tralasciare quelle specie, come quella del bue rosso del Montiferru e quello della capra di montagna, che fanno salire il tasso di qualità economica.
L’agricoltura sarda è oggi legata a produzioni specializzate come quelle vinicole e all’olivicoltura. Le bonifiche in epoca di dominazione piemontese e di quella fascista hanno aiutato, oltre a debellare la malaria (con l’apporto del Ddt)[XVII], a estendere le colture e introdurre coltivazioni specializzate come ortaggi o frutta. Il Campidano, la più grande pianura sarda, produce avena, orzo e frumento, di cui è una delle più importanti produttrici italiane. E infine abbiamo un imponente patrimonio boschivo dove è presente la quercia da sughero, che cresce spontanea favorita dall’aridità del terreno, che viene esportata in tutta Europa: il sughero è infatti un ottimo materiale isolante.
È giusto dire che la pesca da un po’ di tempo sta avendo un incremento positivo, ma proprio in questi giorni, l’Unione Europea ha varato nuovi decreti che limitano la pesca di certe specie che negli anni stanno scomparendo dal nostro mare. Tuttavia nella zona Cagliaritana, Algherese e Sulcitana, si stanno aprendo nuovi orizzonti; nell’Oristanese è importante la pesca negli stagni dei muggini, dai quali si fa poi un importante piatto tipico quale la merca[XVIII], mentre nella zona di Olbia sono importanti gli stabulari per cozze e vongole. Degne di nota sono le tonnare di Carloforte, Portoscuso e Calasetta, nelle quali ogni anno vengono pescati migliaia di esemplari di tonno, anche se nei secoli si narra ne venissero pescati fino a 50000[XIX]. La maggioranza del pescato è destinata ai mercati giapponesi per la preparazione del sushi. Insomma, la materia prima non manca. Da questa attività la Sardegna potrebbe acquisire non solo una sussistenza importante, ma anche consentire di attuare un progetto di esportazione, magari anche con la costruzione di altri impianti ittici.
Settore, infine, importante in assoluto, è il turismo. La Sardegna viene considerata da tutti come un continente in miniatura[XX]. Ecco perché è una delle mete più ambite dai turisti di tutto il mondo: coste incantevoli, montagne da fiaba e cittadine accoglienti e ospitali, per non parlare della gastronomia. Giugno 2010 è stato un mese importante per la nostra isola che ha visto l’apertura di due nuovi scali aeroportuali: quello di Tortolì e quello di Oristano. Ottimo risultato che porterà senz’altro una crescita dell’economia anche del centro Sardegna, che quindi deve sfruttare assai i vettori low-cost, per attirare turisti e far smuovere il capitale.
Occorre migliorare il sistema della rete stradale capillare e soprattutto ferroviaria che colleghi tutte le zone della Sardegna. Libertà di movimento, facile circolazione di persone e merci muovono più denaro di quanto si pensi.
Se vorremo una nostra rete televisiva e Internet a totale copertura del territorio, trasporti aerei e navali moderni, una rete ferroviaria, un’economia basata sui prodotti e bellezze naturali locali, che distribuiscano ricchezza diffusa sulla popolazione, occorrerà pensare di non essere più governati da chi ha gli interessi fuori dall’isola. Ecco dunque farsi strada e giustificarsi la “nuova” idea di indipendenza. Il popolo sardo deve riacquistare coscienza di sé.
1.6 PROGETTO ENERGETICO
Un sistema energetico ben organizzato deve basarsi sulla sicurezza dell’ambiente e sulla sua salvaguardia: oggi giorno la maggioranza dell’energia elettrica prodotta in Italia e in Sardegna deriva dalle industrie a combustione di petrolio e carbone, inquinanti e trasmettitrici di CO2 nell’ambiente. Cosa si può fare per migliore questo sistema non di certo ottimale?
La Sardegna indipendente volgerebbe lo sguardo alla salvaguardia e alla protezione dell’ambiente, rispettando tutti i parametri del protocollo di Kyoto e anche quelli dettati dall’Unione Europea. La Sardegna unita porterà a una totale cooperazione dei cittadini, facendo sì, che non si assista più a fenomeni di corruzione da parte delle imprese per gli appalti: oggi questo è utopia, come
“sarde” rinnovabili e allo sfruttamento dell’energia pulita, come può essere quella dell’eolico, quella solare, quella che sfrutta i bacini idrografici, senza dimenticarci delle biomasse (dal riciclaggio dei rifiuti) e dell’energia geotermica. C’è tutto in loco, c’è tutto in Sardegna! Ogni paese potrebbe raggiungere la sua indipendenza energetica. Sfruttando un sistema di pannelli fotovoltaici sopra ogni tetto di case, municipi, scuole, ecc., i cittadini potrebbero a loro volta guadagnare una piccola cifra nel cedere dimostrerebbero gli scandali relativi agli appalti dell’eolico.
Diversi stati europei, in maggioranza quelli centro-nordici, fra cui l’esempio più calzante è quello della Germania e della Svizzera, sfruttano già questi sistemi “alternativi” di produzione non inquinante e risultano essere i paesi più vivibili e autonomi di tutta l’Europa: realtà o sogno? Ebbene, realtà: questi stati hanno speso molto per attuare questi progetti di ricostruzione energetica, ma alla fine hanno ricevuto solo benefici. Una Sardegna indipendente agirà anche sotto questo importantissimo aspetto.
Occorre volgere lo sguardo alle energie l’energia prodotta in eccesso, con la conseguente eliminazione delle fonti di inquinamento o del “cedimento” alle centrali nucleari che, pur risultando sicure quasi al cento per cento, porrebbero pur sempre il problema delle scorie.
Il riciclaggio sarà quindi un altro dei punti cardini della regione indipendente sarda. Come in Germania e negli stati nordici, tutto dovrà essere selezionato e riutilizzato dopo gli accurati trattamenti.
Quando verrà raggiunto un surplus d’energia, la rivenderemo all’estero: già adesso la Sardegna esporta al continente la propria energia in eccesso tramite il collegamento sottomarino di Olbia.
1.8 LA NASCITA DELLA SARDEGNA INDIPENDENTE
Viaggiando per le strade della Sardegna, specie quelle di montagna e nella parte dell’isola non troppo abitata, si viene colpiti dall’abbondanza di scritte, graffiti e murales che riecheggiano e invocano a una Sardegna autonoma e indipendente: il più delle volte infatti, si tratta di disegni che ritraggono i simboli dei vari movimenti indipendentistici, ma il più delle volte sono scritte con riferimenti precisi al fatto che la Sardegna non fa parte dell’Italia, oppure con riferimenti alla chiusura delle varie basi militari, sparse per tutto il territorio; la Sardegna possedeva fino a qualche decennio fa, il 66% di tutte le basi nell’Italia.
Troppo frastagliati e disuniti, come sempre avvenuto nel corso della storia, i movimenti indipendentistici, non rappresentano ancora il comune sentire di una popolazione[XXI]; ma basta parlare con qualche sardo per capire che invece, anche se con diverse sfumature, esiste in tutta l’isola la consapevolezza di un’identità comune[XXII], con caratteristiche e peculiarità diverse dal resto d’Italia, molto distante culturalmente dalla storia e dalle tradizioni sarde. La Sardegna è di fatto una “nazione senza stato”.
La storia della Sardegna è anche storia di soprusi, di cui paga ancora le conseguenze economiche e politiche. Quando la Sardegna era indipendente, nel periodo nuragico e all’epoca di Eleonora d’Arborea, poteva considerarsi un’isola felice, certamente povera ma in grado di risolvere da sé i propri problemi. Questo dice la storia nonostante i tentavi di annichilirne il significato da parte degli “storici del principe” i quali “tentavano di spezzare il filo che lega la sovranità dei sardi alla terra dei sardi; volevano dimostrare che quella sovranità è andata più volte perduta, fin da epoche antichissime. […] Gli storici savoiardi volevano far credere agli studenti sardi di essere fenici o punici, mirmilloni o mauri. Non sardi. […]”[XXIII]
C’è da dire, tuttavia, anche storicamente, che la popolazione sembra quasi accontentarsi, meglio dire rassegnarsi, delle situazioni spiacevoli e sconvenienti. Questo aspettare che qualcosa cambi, come nell’attesa di un messia, non fa che danneggiarci ancora di più. La Sardegna si limita a galleggiare, ma dobbiamo riprendere la nostra autocoscienza, riscoprire i nostri valori e le nostre capacità. Un popolo unito e compatto potrà davvero essere indipendente e smorzare tutti gli scetticismi di quelli che non credono a un’identità comune sarda e potrà vivere in libertà “Il mondo è sempre realtà dinamica, storica.”[XXIV] Ma questa consapevolezza della identità non può avvenire se la cultura sarda non viene insegnata nelle scuole. Occorre, dunque, riformare il sistema scolastico ora troppo orientato verso il continente e organizzato male.
Ancora una volta l’indipendentismo sardo si presenta frazionato e diviso. La politica moderna non ha più morale e i sardi devono raccogliere il dissenso verso questo stato immorale. Non bisogna più essere divisi.
2 IDENTITA’ E CULTURA SARDA: I MOTIVI DI UNA COMUNITA’
“Tutto quello che è cambiato, è avvenuto solo di recente e non dovunque nello stesso modo. Solo le ultimissime generazioni, prive di passato un po’ ovunque, sono accomunate al resto d’Italia in questo loro oblio della storia.”[XXV]
Mamuthones, boes, pastori, thurpos, merdules e quanti altri personaggi e tradizioni sardi potrei elencare, non fanno della Sardegna un paese unito. Ciò che deve accomunare un sardo con un altro sardo, ciò che deve trasmettere il comune sentire, è la nostra storia. Che, come ha scritto Sergio Atzeni, ci è sempre stata nascosta, violentata da un sistema politico che ha cercato di far dimenticare ai sardi il proprio passato, a favore di una nuova mentalità più aperta, più italiana, che cerchi di rendere un sardo simile a un veneto nella sua identità.
“Ricordo la faccia di mio padre quando ha letto la mia Sardiniae brevis historia et descriptio. Mi ha guardato a lungo, poi si è messo a fare certe sue considerazioni. La storia, dice, quella conviene studiarla che so, ai romani, ai greci, agli spagnoli, magari anche ai pisani e ai genovesi, magari anche a molti altri, che gli fa piacere, non a noi sardi. A studiare la storia noi sardi non facciamo che arrabbiarci. Te l’immagini un sardo che legge la tua storia, per quanto brevis? È lì, tutto accigliato, solo ogni tanto gli esce un piccolo sorriso, ma sardonico. Sì, un sardo che si informa della sua storia, si arrabbia. E ci da sotto a sapere contro chi, ma sono così tanti che ci si perde il conto, di tutti questi secoli di guai.”[XXVI] Così Giulio Angioni, importantissimo scrittore sardo, scrive nelle sue “Fiamme di Toledo” raccontando gli ultimi due giorni di vita di Sigismondo Arquer.
Ecco perché la Sardegna indipendente riuscirà a riformare il sistema scolastico. La nostra storia va insegnata, non dimenticata. L’opinione pubblica sarda sbanda a destra e sinistra senza un movimento di idee nuove. La scuola dovrebbe garantire anche l’insegnamento della lingua sarda, che sta addirittura sparendo dal lessico dei giovani. Forse oggi i giovani sono sempre più ignavi e superficiali.
I sardi devono essere consapevoli che sono “portatori sani” di un virus, quello della Nazione sarda, che è sempre esistito, che si portano dietro fin dalla nascita e che nessuno gli può levare: non dobbiamo più farci sottomettere da nessuno fosse anche solo dalle televisioni che tutto appiattiscono.
O Primavera di Barbagia, io torno
Alle tue tanche, tra il fiorir del cisto
E del prunalbo. Come dolce e tristo
È il tuo sorriso sotto il ciel piovorno!
Dalle montagne e dalla Serra, intorno
Balena. Oh sogno mio di gloria, visto
Sempre e perduto sempre! Oh come misto
Di lacrime e di gioia fai ritorno!
E ancor ti següo. Ahi! Ma mentre vado
Per tanche e solitudini ravviso
In me, pur senza spada e ronzinante,
Quel Don Chisciotte quando uscì nel riso
Dell’aurora e da hidalgo asosegado
Divenne, o sogno, gaballero andante![XXVII]
Sebastiano Satta, “l’aedo sardo”, dovrebbe essere studiato in ogni liceo della Sardegna e di Italia.
Prime manifestazioni di indipendentisti.
2.2 IL FEDERALISMO SAREBBE UNA BUONA ALTERNATIVA?
L’orizzonte quindi si incornicia con questa idea nazionalista, moderata ovviamente, che potrà portare benefici alla nostra regione: i concetti di autonomia e indipendentismo si devono fondere sotto quest’unica parola, nazione. Non ci servono indipendentisti che non propongono un discorso serio e che risultano essere folkloristici e ridicoli; non ci servono autonomisti che pongono le idee a disposizione del centralismo. Serve un movimento di popolo consapevole che con le proprie risorse (l’indipendenza energetica) può vivere meglio che con l’elemosina rinfacciata degli altri.
Il federalismo, propugnato da quelli che pretendono di essere la “nazione padana”, sarebbe un ottima soluzione se davvero fosse sincero e finalizzato alla solidarietà e al bene comune e orientato verso un sistema pacifico e non-violento.
L’Italia potrebbe trarre dall’organizzazione statale tedesca un ottimo esempio di democrazia e compattezza. La Germania ha infatti costruito una buona struttura federale in cui l’autonomia non risulta essere né invasiva né debilitante per le regioni. Si tratterebbe dunque di apportare alla costituzione italiana una modifica non radicale ma parziale del proprio assetto: aumentando la responsabilità delle regioni, si ridurrebbero gli sprechi degli enti come quelli provinciali o dei consorzi turistici (entrambi da abolire) che di fatto, passerebbero sotto un unico gruppo che sarebbe quello della regione federale.
È più difficile smuovere una massa di 60 milioni di persone a voler cambiare l’organizzazione statale o è più facile far conoscere la propria storia e la propria identità a 1.600.000 sardi?
2.4 ILLUSTRI INDIPENDENTISTI E ESEMPI DAL PASSATO: DAI BRITANNI AI GERMANI, DA TACITO A GRAZIA DELEDDA, PASSANDO PER SEBASTIANO SATTA CON UN ASSAGGIO DI ARISTOFANE.
L’indipendentismo, come concetto, come ideale, come possibilità organizzativa, e l’autonomismo sono citati in tantissime fonti letterarie.
Tanto tempo fa, in una terra lontana dalla Sardegna, nella regione di Atene, due cittadini, mossi da validi motivi democratici, partirono per un viaggio alla ricerca della città ideale, o meglio, partirono per poi cercare di rifondare completamente una città. Stanchi della demagogia e dei processi giudiziari, lunghi e “toccati” dalla corruzione, un po’ come accade anche adesso, ma soprattutto stanchi di una classe dirigente dedita solo a soddisfare i propri interessi, Pisetero ed Evepelide credono nella fondazione di una città che rispecchi i loro sogni: indipendente da tutti, in cui i cittadini possano vivere in libertà e senza pregiudizi e in cui il potere del denaro e della conseguente corruzione, che tanto aveva logorato l’Atene di Aristofane, venga ridimensionato ai “valori” naturali. Si tratta della più famosa delle commedie del grande commediografo greco. Aristofane, col viaggio dei due protagonisti, espone le sue teorie anticentralistiche e cerca di capire quale città possa essere definita ideale, perfetta. È, quindi un’utopia? Guidati da due uccelli, i protagonisti arrivano nel regno di questi, dove, conosciuto Upupa, ex-uomo trasformato in pennuto e divenuto il loro capo, viene convinto a costruire una nuova città in nome della libertà e della giustizia. Sono ancora numerose le rappresentazioni che vengono fatte ogni anno di questa commedia, quanto mai attuale. Pisetero, capo della nuova città degli uccelli situata in mezzo fra il cielo e la terra (chiamata Nubicucculia), blocca i fumi per i sacrifici rivolti verso gli dei. Ma anche questa società è destinata a fallire. Infatti, nella terra degli uccelli si insinua la corruzione, gli dei scendono nella città imponendo dei sacrifici e gli uccelli non ci metteranno molto ad arrostire i vecchi traditori della patria, diciamo i “vari filo-Cleoni[XXVIII]”. Qual è stata la lezione di Aristofane? Innanzitutto, ci ha insegnato a riflettere, allo stesso tempo a ridere di gusto, ma anche a sognare. Gli Uccelli sono prima di tutto la rappresentazione di un sogno, quello di qualunque uomo onesto sulla terra, dal porcaro all’artigiano, dal mercante all’esattore; credere in una città in cui regnino libertà di idee e i valori della democrazia è una “utopia” da perseguire, realizzare il motto “la legge è uguale per tutti” sarà un’utopia, ma ne vale la pena.
Oggi Aristofane avrebbe scritto le stesse cose. Il suo messaggio è che l’utopia deve esistere o sopravvivere affinché l’uomo abbia da credere in qualcosa, abbia un ideale. Sognare è una cosa bellissima e tentare di realizzare i propri sogni lo è anche di più. Aristofane ci “dona” meravigliosi spunti di riflessione cui poter attingere: idee quali l’indipendentismo sono giustificate dal sogno di Aristofane ma non sono solo utopia, perché è un sogno che pacificamente si può realizzare.
In un’altra parte del mondo, a metà del primo secolo d.c., nasce un importante letterato che lascerà importanti opere dove il concetto di indipendenza dei popoli è ben delineato. Tacito è uno dei più grandi storici di ogni tempo. Oltre ai famosissimi Annales, scrisse anche la Germania e l’Agricola. In queste due ultime opere Tacito scrisse riguardo la popolazione dei barbari che viveva nell’attuale terra tedesca: essi erano indipendenti, erano “puri”, per usare un suo termine ripreso dai nazisti nelle Leggi Razziali, e quindi, soprattutto, erano liberi. Infatti, nonostante le numerose scorrerie delle legioni romane, questa popolazione riesce a resistere per molto tempo agli attacchi romani. Dal capitolo 4:
“Io condivido l’opinione di chi ritiene le popolazioni della Germania non contaminate da nessun contatto con altre genti e conservate come una razza distinta e pura e che somiglia solo a se stessa. Di qui anche l’aspetto fisico, per quanto è possibile in un popolo così numeroso, in tutti identico: truci e azzurri gli occhi, rosse le chiome, grandi di statura e forti soltanto per l’assalto. Fatica e lavori non sopportarono con altrettanta resistenza e non sono per nulla abituati a sopportare sete e caldo, mentre tollerano il freddo e la fame a causa del loro clima e del tipo di suolo.”[XXIX]
L’idealizzazione della popolazione “selvaggia” vale ovviamente per tutti i popoli. Tacito non solo vuole elogiare una popolazione rimasta indipendente, ma anche sottolineare la pericolosità per l’Impero di questa: la Germania, in sintesi, è una civiltà ancora ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi della raffinata civiltà in decadenza. Nell’Agricola, Tacito mette in bocca al capo dei Britanni, Calgaco, delle parole che riassumono concetti di fierezza della propria civiltà, che comunque resterà autonoma e compatta, unità da una cultura comune e per niente simile al popolo vincitore.
La Sardegna è una terra che ha avuto una storia simile a quella di altre popolazioni sottomesse ma ha tenuto stretta la propria identità, dando alla luce personalità fra le più importanti nella storia della letteratura, della filosofia e della politica.
I manuali scolastici, tuttavia, e i critici continentali, “cancellano” dall’insegnamento importantissime figure come Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, oppure di Sebastiano Satta, o il grande poeta in lingua sarda Peppinu Mereu, passando per Francesco Masala, Giuseppe Dessì e Salvatore Satta il cui “Giorno del giudizio” è senz’altro uno dei più grandi romanzi della letteratura italiana e mondiale.
Inutile dire che Antonio Gramsci, nonostante la sua fama che ne fa uno dei più importanti pensatori e filosofi politici del Novecento, un grande patrimonio dell’umanità, viene costantemente ignorato dalla cultura ufficiale e dimenticato che morì in prigione a causa delle sue idee di libertà.
Vedi: nel focolare
Arde l’elce ed il selvaggio
Olivo; il vino brilla
Nei nitidi bicchieri; l’alta loggia
S’apre ai miei sogni su l’azzurro incanto
Delle vette e de i monti.
E anch’essa, odi? La pioggia
Non ci piange più il pianto
Di quegli anni lontani.[XXX]
ESISTERÀ MAI UNO STATO INDIPENDENTE SARDO? O È UTOPIA?
L’opera di “snazionalizzazione”, condotta subdolamente dai viceré piemontesi e prima dagli spagnoli, cominciò nel 1600 circa. Tutte le potenze che hanno dominato e sfruttato la Sardegna, hanno tutte creato a loro sostegno un sistema politico che ha lasciato l’Isola in uno stato di miseria e povertà. Oggi quella situazione non esiste più ma il concetto di “colonia” permea ancora l’anima dei sardi che non dimenticano secoli di “storia riscritta” dai colonizzatori. E malgrado che nella maggior parte dei sardi si sia inculcata l’idea che l’integrazione con l’Italia sia indispensabile e ineluttabile per una crescita civile ed economica. Questo è poco comprensibile dato che la cultura e le tradizioni sono molto dissimili da quelle dei concittadini italiani. I sardi contengono nel loro longevo Dna, un vero è proprio patrimonio ancestrale indelebile nonostante si sia continuato, da un secolo a questa parte, con il sistema di contrapporre una cultura, quella locale, all’altra, quella imposta. Finché la Sardegna non comprende la propria “sardità”, la peculiarità di “essere sardi”, della cosiddetta “questione sarda”, e la propria identità, non sarà possibile pervenire a quell’unità necessaria, anche solo per pensare all’indipendentismo. Ma i piccoli passi si possono fare e promuovere questi ideali non è sbagliato, non è illegale, non è un reato. D’altronde se vuole essere dipendente un “padano”…
Aristofane ci insegna a sognare. Per questo bisogna credere in un mondo, in un futuro libero per la Sardegna.
[I] Quarta e penultima strofa dell’Inno della brigata Sassari. Traduzione: Rosso il cuore l’animo come il giglio, questi colori adornano il nostro stendardo e forti come i nuraghi siamo sempre vigili per mantenere la pace.
[II] Tratto da “Ziu Lilliccu”, canzone popolare dei Banda Beni, gruppo sardo cult negli anni settanta – ottanta del quartiere di Stampace a Cagliari.
[III] Espressione utilizzata da Demostene nelle sue orazioni. “Oh giudici” era riferito proprio all’uditorio che ascoltava l’orazione giudiziaria di solito letta dal sinegoro.
[IV] Si tratta della prima strofa di quello che viene considerato l’inno della Sardegna “Procurad’e moderare”, composta da Francesco Ignazio Mannu tra il 1794 e il 1796 in occasione probabilmente della cacciata dei piemontesi, proprio nel 1794, oppure in occasione della rivolta capeggiata da Giovanni Maria Anjoy nel 1796. Recita: “Baroni, cercate di moderare la vostra tirannia, altrimenti, a costo della mia vita, tornerete nella polvere per terra, la guerra contro la prepotenza è stata già dichiarata e nel popolo la pazienza inizia a mancare.”
[V] Alziator F., La città murata, non edita.
[VI] Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II Volume primo, Einaudi, Torino, 1982, p. 113.
[VII] De Gioannisi P. – Ortu G. – Plaisant L. – Serri G., La Sardegna e la storia, Celt Editrice, Cagliari, 1988, p. 30.
[VIII] Ibidem.
[IX] Traduzione: “che ti possa perseguitare il diavolo.”
[X] Traduzione: “che ti possa prendere la Giustizia.”
[XI] I Monti Frumentari erano dei piccoli crediti agrari che venivano concessi ai contadini. I Monti Nummari erano invece delle piccole banche con lo scopo di dare dei prestiti agli agricoltori e agli allevatori.
[XII] “Tanche recintate coi muri a secco, fatte “alla afferra afferra”, se il cielo fosse in terra, si spartirebbero anche quello.”
[XIII] Termine coniato da un famoso indipendentista Simon Mossa, in un discorso tenuto nella località di San Leonardo di Siete Fuentes a Santu Lussurgiu il 22 Giugno 1969.
[XIV] Vedi nota V. Ultima strofa dell’inno. Traduzione: “Questa, o popolo sardo, è l’ora di eliminare gli abusi. Abbasso le abitudini nefaste, contro ogni dispotismo. Guerra, guerra all’egoismo e guerra agli oppressori. È importante che questi piccoli tiranni vengano vinti.”
[XV] Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II Volume Primo: mari e litorali, Einaudi, Torino, 1982, p. 128.
[XVI] Dato pervenuto da www.lasardegna.info.
[XVII] Consiglio per questo tema la lettura di Pili G., La Storia della malaria in Sardegna, presente nel sito www.scuolafilosofica.com .
[XVIII] Tradizione dei pescatori di Cabras nel confezionare i muggini precedentemente bolliti nella ziba, una particolare erba palustre che cresce nelle rive degli stagni del Sinis, che da un gusto particolare ai pesci.
[XIX] Valery P., Viaggio in Sardegna. Isola Piana e Pesca del tonno, Ilisso, Nuoro, 1996, p. 187.
[XX] La prima persona a dare questa definizione della Sardegna, fu lo storico F. Braudel, già citato nelle note V e X.
[XXI] Murgia M., Viaggio in Sardegna, undici percorsi nell’isola che non si vede, Einaudi, Torino, 2008, p. 105.
[XXII] Rimando al capitolo 2.
[XXIII] Atzeni S., Passavamo sulla terra leggeri, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996.
[XXIV] Marx K., passo del Capitale.
[XXV] Pili G., La Storia della malaria in Sardegna, tratto dal sito www.scuolafilosofica.com .
[XXVI] G. Angioni, Le fiamme di Toledo.
[XXVII] Satta S., Canti, Preludio. Don Chisciotte, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1955, p. 43. Sebastiano Satta assume il valore di una sintesi storica e di un momento decisivo nella nuova vicenda umana del piccolo popolo sardo che si agita tra lo scorcio dell’Ottocento ed i primi bagliori del Novecento. Riassume le istanze dell’indipendenza dell’isola perseguite attraverso i lunghi periodi di oppressione contro i conquistatori di ogni dove.
[XXVIII] Aristofane, come detto, ce l’aveva a morte con i politici dell’epoca: nel 414 a.C., quando rappresenta gli Uccelli, Atene era governata da Cleone e la sua “cricca” per ritornare ad una parola e termine molto attuale, per cui Aristofane, nutriva un odio non indifferente. Ancora più eclatante in termini di polemica e dissenso, è la commedia delle Vespe o Calabroni, in cui i due protagonisti principali sono proprio chiamati “Filocleone” l’uno, e “Odiacleone” l’altro.
[XXIX] Traduzione di L. Cristante.
[XXX] Vedi nota XXIII. “Notte di San Silvestro.”
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