Di Pili W. www.scuolafilosofica.com
Dalla mia vita è sempre emersa una verità inoppugnabile, ovvero come io sia una persona incline al movimento, al gioco, all’osservazione, all’avventura. Ed è infatti per questo motivo, che posseggo un luogo a me più caro rispetto ad altri. In questo caso, voglio parlarvi della casa al mare di mia nonna, in particolare di una sorta di capannone, ormai entrato nella leggenda dei più, che fungeva un tempo da magazzino, ora funge a farmi sentire felice, un motivo molto nobile oserei dire. Immerso in mezzo al verde da ottobre a maggio, in mezzo alle sterpaglie e ai forasacchi in quella stagione che profuma di fico e mosto, si erge su un ordinato cumulo di pietre nere, un capannone metallico, costruito agli inizi del secolo. Visto da fuori presenta un qualcosa di cupo e misterioso: è lì, alto e fermo con delle finestrelle coi vetri rotti con vista sul mare blu e color smeraldo. Affianco al capanno, un vecchio rudere in legno, di quella che al suo tempo era un’elegante iole celeste: ora i topi possono rosicchiarla felici! Dietro di questa un grande fico; nelle ventilate giornate in cui soffia il maestrale, sbatte le sue fronde robuste sul tetto metallico, creando un rumore simile a quello che fa un bicchiere beccato da un cucchiaino, o da quello di una pentola di alluminio che cade a terra. Qualche metro dietro al capanno, un rudere abbandonato, un tempo una villa di qualche famiglia ricca, non certamente amante del mare. Da lì arrivano davvero rumori inquietanti. Credo si tratti di un fantasma: cerco di spiarlo dalla finestrella rotta del capanno, ma credo mi eviti… meglio! Eravamo dunque rimasti a descrivere l’esterno, ma entriamo dentro, in quel luogo polveroso, dove i miei sogni per qualche minuto diventano realtà. Una porta metallica cigolante, munita di una serratura unta e grassa (la chiave di questa è gelosamente custodita dalla nonna, ma ad ogni buon pro, sono riuscito a farne una copia dal vecchio ferramenta del paese a qualche chilometro da lì); entro dentro, buio e un odore di marcio entra nelle mie narici, dandomi una sensazione di nausea, ma subito cerco di aprire le piccole ante delle finestrelle, nascoste fra grappoli di aglio rosso, quello forte, e pannelli di legno che un tempo venivano utilizzati per riparare dalle intemperie le persiane. Finalmente riesco ad aprire le finestre, e la luce del verde e del mare si fonde, spargendosi nel capanno. Ora riesco a distinguere bene tutti gli oggetti, soffermandomi prima a guardare dove avevo sbattuto la testa: sì! Era proprio un grappolo d’aglio di frè Pietru. La stanza ora splendente comincia a riempirsi di buon odore, metto un po’ d’ordine: cacciaviti arrugginiti nei cassetti di legno tarlato, idem le pinze, in dei canestri di canna poggio delle funi e delle cime un po’ più grosse, senza dubbio rosicchiate da qualche topolino, o forse qualche ratto. Quando ero bambino e quel posto era molto più malconcio, mi divertito a guardarli e a dargli nomi: ad uno mi ero pure affezionato. Era bianco e piccolo con gli occhi neri ed espressivi, l’avevo chiamato Bongus, nomignolo che tra l’altro fu affibbiatomi da mio fratello. È da un po’ che non ci mettevo piede qua dentro. Prendo una nassa rotta e impiego un po’ del mio tempo a riparare l’entrata, dalla quale il pesce può entrare, ma non uscire. Afferro un pezzo di giunco bello elastico che mi convince e la nassa è bella che riparata. Mi affaccio alla finestra, osservo il mare e vedo che mio fratello è sulla vecchia barca a preparare le esche e la vela dell’albero: più tardi si va a pesca, verso il tramonto, quando il vento dà le sue ultime raffiche di furore. Mi giro sento un rumore, non vedo niente: dev’essere un fico maturo caduto dal tetto. Resto dentro e mi siedo sulla vecchia sedia in legno, rassomigliante però più ad uno sgabello, e resto fermo, pensieroso, in contemplazione della vita. Ruoto lo sguardo da una parte all’altra; affianco alla finestra un crocifisso intriso di abbandono: da troppo tempo non ci passa un buon cristiano là dentro. La polvere sfigura il viso di Gesù Cristo, ma per chi crede questo non importa, anzi. Il mio sguardo continua a ruotare verso il punto in cui la parete diventa più grossa: ma sì! Eccolo, il vecchio motore Johnson nel piedistallo in piedi per miracolo. Accanto c’è anche il serbatoio rosso e una sassola. Mi alzo e sistemo meglio il motore, lì, lì per cadere. Poi sento una voce: è mio fratello che mi grida “Forza Bongus, afferra le sferzine e il secchio! La vela della carcassa è pronta a sventolare.” Meno male che le sfrezine le avevo già preparate. Lo scampata grossa. Chiudo le finestre in fretta. Prendo la chiave e la faccio girare nella serratura oleosa. È chiuso. Resterà un segreto fra me e te, oh lettore, quello che per me il capannone significa: un locus amoenus magico!
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