Riporto un interessante articolo (intitolato The Normative Insignificance of Neuroscience) di Selim Berker (professore di filosofia presso l’Università di Harvard) uscito nel 2009 su Philosophy & Public Affairs, nel quale viene esposta una critica alla tesi per cui vi sarebbe un ruolo dei risultati neuroscientifici trovati da Greene et al. nell’argomento di Greene per cui le intuizioni tipicamente deontologiche sono dubbie, sulla base del fatto che sono sottese da processi emotivi e dunque poco affidabili, o comunque sono da lasciar da parte a favore delle intuizioni tipicamente consequenzialiste, invece sottese da processi deliberati e coscienti.
Procediamo con ordine per capire bene di cosa si tratta. Fa parte del clima culturale formatosi attorno alla recente fioritura dello studio neuroscientifico l’idea che gli studi fMRI possano avere profonde implicazioni anche per la filosofia, ovvero per la soluzione di problemi tipicamente filosofici. Un esempio particolare di tale idea è la tesi per cui la ricerca neuroscientifica di Greene sulle basi neuronali delle nostre intuizioni morali dovrebbe e potrebbe portarci a cambiare le nostre opinioni sull’attendibilità di quelle stesse intuizioni. Singer e Greene sostengono che se la teoria empirica di Greene volta a spiegare ciò che causa il giudizio morale è vera, allora ipso facto si è autorizzati a trarre certe conclusioni su quali giudizi morali siano da darsi. In altre parole, la tesi è che una teoria empirica ha implicazioni normative. L’implicazione normativa è che dobbiamo ignorare o comunque sospettare le nostre intuizioni deontologiche (ovvero quelle basate su una reazione emotiva).
Dobbiamo preliminarmente dire, al fine della comprensione di quanto segue, qualcosa sullo studio empirico condotto da Greene, volto a comprendere i correlati neuronali della nostra presa di decisione morale. Greene, al fine di studiare il giudizio e l’intuizione morale, e i correlati neuronali dei processi psicologici in gioco nella presa di decisione morale, utilizza come stimoli dei dilemmi morali. I più conosciuti sono il ‘trolley dilemma’ e il ‘footbridge dilemma’. Rimando il lettore ad un qualsiasi altro testo (es. Greene et al. 2004) per la spiegazione esaustiva dei due dilemmi e del problema (il cosiddetto ‘trolley problem’) che nasce dal fatto che si riscontrano risposte differenti ai due dilemmi, nonostante abbiano una struttura del tutto simile. Qui esaurisco l’argomento in poche note. I dilemmi morali chiedono di giudicare l’appropriatezza di violare una norma morale, come uccidere una persona, per ottenere un grande bene, come salvare cinque vite. Greene ha categorizzato le tendenze di risposta in questo modo: il soggetto può rispondere in modo consequenzilista (è giusto massimizzare il numero di persone salvate, o minimizzare il numero di persone morte), o deontologico (non è comunque giusto uccidere). Il ‘trolley problem’ consiste nel fatto che a due dilemmi simili per struttura (‘trolley dilemma’ TD e ‘footbridge dilemma’ FD) i soggetti rispondono diversamente. La struttura dei dilemmi è la stessa (uccidere una persona per salvarne cinque vs lasciarne morire cinque mentre uno si salva), quello che cambia è la modalità d’uccisione: nel TD l’agente deve tirare una leva che sposta un treno sul binario dove si trova una sola persona, quando il treno è invece diretto verso cinque persone, destinate alla morte per investimento – nel FD l’agente deve spingere un grassone dal ponte in modo da fermare il treno diretto verso le cinque persone. Al TD i soggetti rispondono in modo consequenzialista, al FD in modo deontologico. Greene et al. spiegano la differenza col fatto che FD implica una violazione morale personale, la quale fa sorgere una reazione emotiva tanto forte da vincere sul ragionamento consequenzialista, mentre TD non l’implica, ed è il ragionamento freddo consequenzialista a vincere. Il punto empirico centrale di questo studio è che si mostra come la differenza tra i due casi sia dovuta alla diversa sorte della competizione tra almeno due sistemi psicologici distinti. Secondo la griglia interpretativa degli autori infatti le risposte deontologiche sono guidate da una forte risposta emotiva, vinta dal ragionamento nei soggetti che rispondono in modo consequenzialista. Infatti, a livello neuronale, Greene, supportando l’ipotesi della competizione tra processi distinti nella presa di decisione morale, trova un significativo aumento dell’attivazione della corteccia cingolata anteriore ACC (la quale si attiva nei casi di conflitto tra istanze che si attivano simultaneamente) e l’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale DLPFC (la quale sottende il controllo cognitivo), per il giudizio consequenzialista. Quello che soprattutto interessa qui è che la spiegazione data da Greene della differente attitudine dei soggetti nei confronti dei due dilemmi è nei termini di una differenza: il primo dilemma chiede dell’opportunità di scegliere una violazione morale personale, il secondo chiede dell’opportunità di scegliere una violazione morale impersonale. La violazione morale è una violazione che implica un contatto personale fisico tra vittima e carnefice, l’impersonale invece non implica il contatto fisico. Immaginarsi di compiere una violazione morale avendo un contatto fisico con la vittima darebbe vita nel soggetto ad una reazione emotiva e dunque ad un giudizio deontologico per cui non è giusto compiere la violazione, mentre immaginarsi di compiere una violazione morale impersonale non darebbe vita ad una reazione emotiva e dunque il soggetto valuterebbe come opportuno compiere la violazione, se questa fosse in grado di produrre un bene più grande del male procurato alla vittima (calcolo consequenzialista).
In due parole, la teoria empirica di Greene dice che l’essere umano possiede due sistemi psicologici (di cui Greene individua i correlati neuronali) che entrano in competizione tra loro quando si tratta di giudicare un caso morale (proposto ai soggetti nella forma di un dilemma – vedi Greene et al. 2004), l’uno emotivo e intuitivo/immediato, il quale da vita a giudizi tipicamente deontologici, l’altro cognitivo e cosciente/deliberato, il quale da vita a giudizi tipicamente consequenzialisti.
La validità della tesi dell’implicazione normativa della teoria empirica di Greene è discussa da Berker. Riporto le sue osservazioni, partendo dalla sua conclusione che i risultati empirici della neuroscienza non sono rilevanti nel supportare l’argomentazione normativa; ovvero, nel caso di Greene, non si dà la possibilità di derivare implicazioni normative dall’analisi dei fatti neuronali relativi a come costruiamo psichicamente i nostri giudizi morali.
Iniziamo dall’assumere la validità (perlomeno generale) della teoria empirica di Greene. La domanda che ci pone è cosa segua dal fatto che tale teoria sia vera.
Prima di analizzare e criticare l’argomento principale di Greene a sostegno della sua tesi, Berker si sofferma a criticare tre cattivi argomenti, a cui secondo lui occasionalmente Greene e Singer si appoggiano per dare maggiore forza retorica alle loro conclusioni.
Esistono tre cattivi argomenti in supporto della tesi per cui i risultati empirici di Greene forniscono buone ragioni per concludere che le intuizioni morali caratteristicamente deontologiche non devono essere assecondate da parte dell’individuo che è impegnato in una decisione moralmente connotata. Vediamoli in ordine.
Il primo argomento è: poiché le intuizioni deontologiche sono guidate dalle emozioni, e le consequenzialiste dal ragionamento astratto e deliberato, le intuizioni deontologiche, diversamente dalle consequenzialiste, non hanno forza normativa. L’argomento è cattivo, secondo Berker, perché noi non abbiamo alcuna ragione sostanziale per pensare che le intuizioni prodotte dalle emozioni sono meno affidabili rispetto a quelle prodotte dalla ragione. Qui la contro-argomentazione di Berker è debole, perché in realtà si possono trovare buoni ragioni a sostegno del fatto che il ragionamento deliberato è più affidabile rispetto all’emozione.
Il secondo argomento è: poiché le intuizioni deontologiche sono guidate dalle emozioni, e le consequenzialiste dal ragionamento astratto e deliberato, e poiché, in altri domini diversi da quello morale i processi emotivi tendono a coinvolgere euristiche veloci e per così dire frugali, dunque inaffidabili, anche nel dominio morale i processi emotivi che guidano le intuizioni deontologiche coinvolgono euristiche veloci e frugali, dunque inaffidabili, e allora le intuizioni deontologiche, diversamente da quelle consequenzialiste, per le quali evidentemente il discorso non vale, sono inaffidabili. L’argomento è cattivo poiché quando si categorizza qualcosa come un’euristica, si ha anche un’idea di quale sia la soluzione (a cui l’euristica può portare) corretta e quale sia sbagliata, ma poiché nel contesto morale non è per nulla chiaro quali siano le soluzioni corrette e quelle scorrette, l’inferenza che porta dall’osservazione che in vari contesti i processi emotivi sono euristiche all’affermazione che è così anche nel contesto morale, non è sicura. Inoltre non sembra secondario notare altri due punti: non è vero che negli altri domini le euristiche veloci e frugali correlati di processi emotivi sono inaffidabili, spesso invece è proprio vero il contrario; non sembra possibile che le decisioni consequezialiste non siano prese anche per mezzo di euristiche (l’uomo spesso non ha ne il tempo ne la capacità di computare tutte le casistiche e le possibilità), dunque se l’argomento vale le intuizioni deontologiche deve valere anche per le consequenzialiste.
Il terzo argomento è: poiché le intuizioni deontologiche guidate dall’emozione sono un prodotto evolutivo ch’era originariamente adatto a rispondere ad un ambiente diverso dal nostro, nel quale bisognava perlopiù rispondere in modo immediato a violazioni personali, esse sono prive di genuina forza normativa. L’argomento è cattivo perché le intuizioni consequenzialiste sono un prodotto dell’evoluzione proprio come le deontologiche, e dunque l’appello alla storia evolutiva non può fornire un criterio di discriminazione.
Veniamo ora all’argomento principale presentato da Greene e Singer a sostegno della loro tesi. Poiché le nostre intuizioni deontologiche rispondono a fattori moralmente irrilevanti, non sono affidabili. L’argomento è il seguente: poiché i processi emotivi che producono l’intuizione deontologica rispondono a fattori che rendono un dilemma personale piuttosto che impersonale, e che questi fattori sono moralmente irrilevanti, tali processi rispondono a fattori moralmente irrilevanti e dunque le intuizioni deontologiche, diversamente dalle consequenzialiste, non hanno alcuna genuina forza normativa. Il punto di Greene è che siccome abbiamo buone ragioni per pensare che le intuizioni morali deontologiche riflettono l’influenza di fattori moralmente irrilevanti, ne abbiamo anche per affermare che è poco probabile che esse individuino la verità morale. In sostanza le intuizioni deontologiche sono riducibili a risposte emotive verso fattori moralmente irrilevanti, e quindi sembra strano che possono fondare adeguatamente una risposta morale.
L’argomento suscita qualche perplessità. Innanzitutto, dal momento che la sovrapposizione tra la distinzione dilemma personale – impersonale e la distinzione portante-a-giudizio-deontologico – portante-a giudizio-consequenzialista è stata messa definitivamente in discussione, la prima premessa dell’argomento è falsa. Anche la seconda premessa non sembra essere sicura. Infatti, mettere in discussione la sovrapposizione implica non avere un criterio di separazione tra i due tipi di dilemmi, e dunque scommettere che la facoltà che risponde alla caratteristica (qualunque questa sia) che distingue i due dilemmi, risponde comunque a caratteristiche moralmente irrilevanti. Sembra in sostanza azzardato definire moralmente irrilevante una caratteristica che ancora non si conosce. Ma poniamo pure che le premesse siano vere. Possiamo comunque mettere in discussione il fatto che la seconda conclusione segua di fatto dalla prima. La verità che le caratteristiche suscitanti le intuizioni deontologiche sono moralmente irrilevanti non implica per sé la falsità che le caratteristiche suscitanti le intuizioni consequenzialiste sono moralmente irrilevanti, dunque la possibilità che anche le caratteristiche suscitanti le intuizioni consequenzialiste sono moralmente irrilevanti non è stata ancora tolta. Perciò non è possibile concludere con sicurezza che è meglio privilegiare l’ascolto di un tipo di intuizione su un altro. Infine, è qui veniamo alla conclusione dell’insignificanza normativa della neuroetica, i risultati neuroscientifici di Greene non sembrano avere nessun ruolo rilevante nel determinare l’argomento, piuttosto sembra essere il tipo di caratteristica del mondo al quale la facoltà risponde la cosa rilevante da cui dipende l’efficacia epistemica dell’intuizione.
Per chiarezza è meglio operare tre distinzioni: (1) bisogna distinguere i dilemmi che suscitano processi emotivi dai dilemmi che suscitano processi cognitivi; e così (2) i dilemmi che suscitano giudizi deontologici dai dilemmi che suscitano giudizi consequenzialisti; e (3) i dilemmi morali personali dai dilemmi morali impersonali.
La teoria di Greene presuppone o ipotizza che la prima distinzione si sovrapponga alla seconda. Al fine di verificare empiricamente quest’ipotesi, Greene identifica la seconda distinzione con la terza, e poi testa se la prima distinzione si sovrappone alla terza. Tuttavia l’argomento dell’irrilevanza morale delle caratteristiche a cui risponde la facoltà morale impegnata in un giudizio deontologico, dipende solamente dall’identificazione della seconda distinzione con la terza. Pertanto è chiaro che i risultati neuroscientifici (relativi alla prima distinzione) non coprono nessun ruolo nell’argomentazione della tesi principale di Greene. Ovvero, il motivo per cui le intuizioni deontologiche sono da scartare nella presa di decisione morale, non è che sono accompagnate da processi emotivi presunti inaffidabili, ma che la facoltà che si impegna in intuizioni deontologiche sta rispondendo a caratteristiche del mondo che non sono moralmente rilevanti. L’appello alla neuroscienza sarebbe dunque una falsa pista poiché gli elementi essenziali dell’argomento sono altri: primo, l’identificazione teorica tra la distinzione dilemmi che suscitano risposte deontologiche – dilemmi che suscitano risposte consequenzialiste, e la distinzione tra dilemmi morali personali e dilemmi morali impersonali; secondo, l’individuazione, sempre teorica, di alcune caratteristiche del mondo esterno come moralmente irrilevanti.
In definitiva sembra che si diano solamente due poco edificanti possibilità. La prima è appellarsi ad una problematica intuizione su quali caratteristiche nel mondo siano moralmente rilevanti e quali irrilevanti, considerando però i risultati neuroscientifici come non necessari all’argomento; la seconda è tenere conto dei risultati neuroscientifici nell’argomento, però facendo ricorso a uno di quei argomenti già criticati come cattivi.
Se abbiamo definito il risultato neuroscientifico non necessario e fondamentale nella teorizzazione normativa su quali intuizioni morali accettare e quali rigettare, è comunque possibile argomentare in favore di un ruolo indiretto per la neuroscienza nella teorizzazione normativa. Comprendere le basi neurofisiologiche delle nostre intuizioni morali non ci darà buone ragioni per privilegiarne alcune piuttosto che altre, ma almeno, si può sostenere con ragionevolezza, può suggerirci la direzione in cui guardare durante la nostra teorizzazione normativa.
Segnalo, in chiusura, che esiste una puntuale replica a questi argomenti formulata dallo stesso Greene, trovabile con facilità sul web (google: Greene Notes on ‘The Normative Insignificance of Neuroscience’ by Selim Berker).
Bibliografia
– Berker S. (2009) The Normative Insignificance of Neuroscience. Philosophy & Public Affairs, 37, pp. 293-329.
– Greene JD et al. (2004) The Neural Bases of Cognitive Conflict and Control in Moral Judgment. Neuron, 44, pp. 389-400.
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