Non così poco si conosce di Niccolò da non potersene creare una rappresentazione mentale abbastanza definita verso la quale poter, nel caso, anche prendere posizione di simpatia, d’aperta ostilità o, infine, d’indifferenza.
A me Niccolò sta simpatico. Questo fatto soggettivo è probabilmente dovuto, e, se possibile, anche l’ipotesi (probabilmente vera) che questo fatto sia generalmente diffuso in chi si trovi per caso o per fortuna a conoscere Niccolò, è dovuto all’accidentalità che si conosce il poeta più attraverso l’immagine che di esso ne danno i suoi carmi che attraverso dati biografici di altra (prosaica) provenienza, dunque all’intrinseca poeticità (per non dire probabile distorsione fantastica, ma la questione forse non è così semplice) della figura del Nostro.
Intendo dare prima qualche cenno di biografia, per poi passare ad occuparmi (liberamente e piuttosto) del contesto storico-culturale e della poesia di Niccolò.
Probabilmente Niccolò nasce ad Arco nel 1492 o 1493 (per queste date argomentano M. Welber e G. Rill, contro A. Pranzelores che, in una pubblicazione precedente risalente al 1901, e a sua volta in polemica con altri, fa nascere Niccolò nel 1479 da mamma Cecilia Gonzaga) dal conte Odorico o Udalrico o Ulrico e da Susanna, figlia del conte Antonio di Collalto, e seconda moglie d’Ulrico.
Della fanciullezza si sa ben poco. Viene educato con i classici, e lo immaginiamo studiare ancora giovinetto la poesia latina all’ombra di qualche ulivo, alzare lo sguardo verso il Benaco e rivolgere un pensiero: ora triste alle guerre detestate, ora calmo al sereno e chiaro paesaggio naturale ch’a dinanzi.
Dopo un periodo come paggio presso l’imperatore tedesco, decide di dedicarsi agli studi universitari, a lui certo più congeniali e senz’altro preferiti alla carriera militare. Studia a Pavia, dove entra in contatto con gli intellettuali della città, quali Paolo Ricci, Giasone Mayno, Gianfranco Pico della Mirandola (nipote e biografico del Pico conosciuto), Matteo Curzio etc. – ma non solamente con gli intellettuali, ebbe, infatti, molte amichette, fonti di gioie ma forse più di disperazioni d’amore, di cui rimangono i nomi: Flavia, Philena, Lalage, Neaera. Se qui si tratta di poliginia verbale o meno è questione del tutto trascurabile in relazione alla valutazione dell’uomo come poeta, ché il suo fuoco non arde meno nell’ipotesi della poliginia verbale. È anche a Bologna, dove entra in amicizia con Marcantonio Flaminio, e a Padova, dove diviene amico, ad esempio, di Girolamo Fracastoro e dove compone gran parte dei suoi carmi d’amore. Durante gli studi ha modo di conoscere anche Bernardo Clesio, che sarà vescovo di Trento.
Conclusi gli studi sposa la marchesa Giulia Gonzaga, che gli dà diversi figli: otto, di cui due femmine, letterate, una anche poetessa. Vivendo poi Niccolò in un periodo attraversato da innumerevoli guerre, non può egli, appartenendo alla famiglia più potente d’Arco, permettersi di gettare la spada nella Sarca, dunque combatte (valorosamente, si dice), ad esempio, per sedare la rivolta dei rustici trentini (epifenomeno della riforma luterana), in aiuto all’amico e vescovo di Trento Bernardo Clesio, nel 1525.
Niccolò non vive solo nell’amata Arco, ma anche nelle altrettanto amate Mantova (gestita da Gonzaga decisamente sensibili all’arti) e Cavriana (paesino a nord di Mantova, tra questa e il lago di Garda), dove ha dei possedimenti, ottenuti dal primo matrimonio del padre (con una Gonzaga). A Mantova il conte può darsi alla bella vita, a Cavriana e ad Arco può trovare la tranquillità poetica di una pennichella all’ombra di qualche alberello, cullato dalla dolce, calda e soprattutto piacevole aria dell’estate (il Nostro odia particolarmente il freddo invernale).
La vecchiaia di Niccolò non è troppo felice. I rami della famiglia d’Arco sono tra loro in discordia. I parenti a lui avversi tramano una congiura che costringe il poeta e la sua famiglia a lasciare l’Italia in fretta e furia per la Germania, dove poter chiedere l’intervento dell’imperatore (siamo nel 1542). L’anno successivo Niccolò può già tornare in patria, e probabilmente ricevere di ritorno i suoi beni (tra cui i suoi scritti, che aveva dovuto lasciare in Italia per scampare all’attentato dei parenti) e feudi, ma pur sempre in un clima ostile. Ritirato a Cavriana il poeta s’ammala di podagra (gotta) e muore nel tra la fine del 1546 e l’inizio del 1547 – e sarebbe morto senza pubblicare i suoi versi se non fosse stato per l’amico Giovanni Fruticeno che, rubatogli le poesie, le fa pubblicare a Mantova nel 1546. Basti questo come quadretto biografico.
Più interessante è forse l’ipotesi di quadretto psicologico che emerge soprattutto dall’immagine che il poeta da di sé nei suoi componimenti (quelli rimasti), ma anche, senz’altro, dalle sue vicende biografiche (quelle conosciute). Di lui è possibile formarsi un’immagine solo attraverso la poesia (quella rimasta nei Numeri, unica opera di Niccolò tramandataci) e le vicende biografiche perché, di fatto, della sua produzione letteraria in prosa non rimane nulla. Niccolò si sarebbe occupato di filosofia (De Judicio Libri tres), di teologia, avrebbe composto poesie didascaliche, orazioni e dialoghi morali – ma delle sue opere relative a questi temi non rimangono che i titoli. Da quanto detto risulta evidente che la visione che possiamo avere del Nostro non può essere che parziale, dunque un approccio anche soggettivo (ovvero a dire: la mia è una capita tra tante) verso la parzialità può essere, in certe sedi, adeguato, dal momento che non può essere la ricerca della verità psicologico-storica del personaggio ad interessare, essendo questa necessariamente un lontano miraggio. Ciò non significa che si voglia operare stravolgimenti fantastici sulla figura di Niccolò conte d’Arco.
La figura del poeta, causa o forse in parte effetto della simpatia che da parte mia l’accompagna, è quella d’un giovane (non in senso anagrafico) e allegro aristocratico, spensierato, ma al contempo disperato anche per piccole questioni amorose (nugae senz’altro), umile e bonario, serio nello scherzo, faceto nei suoi atteggiamenti seri, forse amareggiato nella vecchiaia ma pur sempre giovane e sereno lungo tutto l’arco della sua esistenza, lieto, gagliardo, terso umorista, gentile per natura, semplicemente buono di una bontà calma e immediata, tenero come un padre con la figliola, misurato ma pure a tratti incontrollato, come quando è aspramente critico verso i poetastri, gli scribacchini e i pedagoghi, soprattutto perché amante della semplice sincerità e verità, dell’ozio benestante e poetico ma profondamente autentico, della tranquillità dell’animo, per questo anche avversatore della guerra, di ogni guerra, ma non per questo pacifista, infatti guerriero quando la necessità lo chiede, seppur a sua volta sempre lamentante l’assurdità e la crudeltà della guerra – ragionevole, solare, semplice, chiaro, felice, bonariamente osceno, interessato con sanità al mondo, alle sue gioie, ai suoi dolori, e alle sue zone di tranquilla ombra sotto il sole secco delle estati tanto amate. È poeta ch’anche quando si lamenta mette allegria e sa essere vicino a chi lo legge.
Ma cerchiamo di essere più precisi. Cerchiamo di chiarire innanzitutto la relazione tra il Nostro poeta e il contesto storico-culturale, e poi le caratteriste della sua poesia, dunque le caratteristiche stesse del poeta (non distinguiamo molto fra le due, da qui il carico di fantasia che ci permettiamo di trasportare in queste pagine).
Niccolò appartiene alla famiglia d’Arco, la quale già dalla prima metà del XII secolo si era insediata nella rocca d’Arco (dove ancora tutt’oggi rimangono le rovine del castello, ora proprietà del Comune), e nel 1413 aveva ottenuto finalmente, dopo lotte durate secoli, contro altre famiglie e contro Venezia, il diploma di conti dall’imperatore Sigismondo. In questo modo la contea diventava un piccolo principato dell’impero, con la sua autonomia dalla vicina Trento (e da Venezia, che dovettero combattere prima a fianco dei Visconti e poi a fianco di Massimiliano I imperatore del Sacro Romano Impero) e con la possibilità sviluppare caratteristiche proprie, specie in ambito culturale.
Se, a cavallo tra il quattrocento e il cinquecento, in tutta Italia risorgono le arti e il pensiero, si esce con decisione dal medioevo attraverso il ritorno ai modelli classici e anzi già da Dante, Petrarca e Boccaccio (la triade dei manuali scolastici) si usa il volgare, se, ad esempio, Venezia è città molto viva e libera culturalmente, così come Padova, città di studio, Bologna, Pavia, Roma, per non parlare delle varie accademie che nascono un po’ ovunque sulla penisola, il Trentino per contro non vanta uno sviluppo culturale interessante. A Trento si stampa poco, in latino e in tedesco. La cosa forse più rilevante stampata a Trento in questi anni, quando la penisola fiorisce d’intelligenza e sensibilità, è la Catinia di Sicco Ricci detto Polenton (1482), che parrebbe essere la prima commedia in volgare stampata in Italia. Poi, per altro, per lungo tempo non si stampa nulla di artisticamente rilevante. Il ritardo culturale del Trentino è per altro testimoniato dal fatto che i letterati e gli artisti del primo cinquecento nati sul suo suolo (es. il Polenton, lo stesso Niccolò, Giovanni Lagarino, i pittori Dosso, lo scultore Alessandro Vittoria etc.) ebbero tutti ad emigrare.
Un’eccezione a questo ritardo era costituita dalla cittadina d’Arco, con la sua piccola corte dei Conti, più vicina geograficamente alle città di maggior lustro culturale della pianura padana oltre che alle parti del Trentino ch’erano sotto Venezia. In questa parte di Trentino (la parte occidentale e meridionale) nascono letterati che, dopo essere stati a studiare nelle grandi città del rinascimento, tornano nelle loro terre d’origine portando un certo sviluppo culturale. Per Arco (e ci limitiamo ad essa) possiamo ricordare i Betta, Jacopo Vargnano e Niccolò. Arco fu centro di rinascita culturale, e, in particolare, vide lo sviluppo della poesia latina, ché, sotto l’influsso dell’umanismo dominante in Italia, è l’antica lingua latina ad essere ancora adoperata – e si dovrà aspettare Cristoforo Busetti (1540 ca. – 1569), il Petrarca trentino, per arrivare alla poesia scritta in volgare.
Il Nostro è figura centrale nell’ambiente culturale archese. Ma cerchiamo di delinearne meglio la figura di poeta (la sola passibile di delineazione, in quanto per le altre – es. filosofo, teologo etc. – non rimane nulla su cui basarsi). In poesia i maestri di Niccolò sono i poeti romani come Catullo, Virgilio, Lucrezio, Properzio, Tibullo etc. Ma egli non è un imitatore patinato e banale, ma piuttosto, dominando perfettamente la lingua, tratta in poesia degli argomenti più disparati, con una certa originalità. I carmi oscillano continuamente tra il basso e il volgare e l’alto e l’ideale, intrecciano sacro e profano, spiritualità ed erotismo, serio e faceto, intrecciano sentimenti opposti perché espressioni d’un forte trasporto emotivo.
Possiamo individuare così la divisione delle poesie di Niccolò: carmi funebri o elegie di morte, egloghe pastorali, carmi erotici, carmi d’amore, satire e componimenti umoristici, carmi in lode (encomiastici) di nobili personaggi ma anche di nobili paesaggi.
Partiamo da questi ultimi, i carmi in lode ai nobili paesaggi. Niccolò è il bardo d’Arco, proprio perché egli canta la sua terra con lirismo affezionato e sincero. Egli, in verità, ha una parola dolce ed incantata per ogni posto ch’ebbe a frequentare, dunque non solo per Arco, ma anche per la città di Mantova e la campagna di Cavriana. Nondimeno lascia incantate e caratteristiche descrizioni del paesaggio d’Arco e dintorni. Egli rende viva la natura cantata, entra in dialogo con essa proprio come se essa fosse un’amante, ed ai suoi occhi è certamente una calda e presente amante. C’è in generale in tutta la produzione poetica di Niccolò la tendenza ad antropomorfizzare la natura, e a trascrivere il sentimento dell’uomo nei confronti di questa persona-natura, ora ammirata, ora sospirata, ora temuta.
Accanto alle lodi della natura, e in continuità con esse, ci sono chiaramente le egloghe pastorali, le quali delineano la figura di Niccolò come cantore della tranquillità, filosoficamente un epicureo, anche se non programmaticamente tale. Il poeta preferisce cantare la pace, Cerere e Apollo piuttosto che Marte, i pascoli e le campagne, la tranquillità del riposo pomeridiano tra gli ulivi, l’ozio e un’Italia finalmente unità, fiorente e in pace con se stessa. Ma Niccolò non è un epicureo (piuttosto ha tratti epicurei), infatti canta in più carmi l’ebbrezza procurata dal vino, le sbornie e le abbuffate con gli amici, la sfrenatezza e il piacere di stare nell’allegria anche oltre misura. Il Nostro è soprattutto poeta, e, in quanto tale, canta il sentimento, ovvero non vuole darci un sistema filosofico in poesia. Per questo troviamo contraddizioni nella sua poesia, ad esempio laddove prima canta il sospirato ritiro in solitudine lontano dal mondo e poi piange la lontananza dei compagni di baldoria, laddove prima canta i piacere infiniti dell’amore e poi i dolori altrettanto infiniti che altrettanto l’accompagnano, è l’odi et amo di Catullo, che porta sia a cercare l’amore, sia a fuggirlo, senza mai capire cosa sia meglio fare in definitiva con le donne.
Vicino ai carmi d’amore, che comunque rappresentano forse la parte centrale, più originale e più caratterizzante del poeta, ci sono i carmi erotici, messi all’indice o censurati nei secoli successivi, che lo avvicinano a poeti e umanisti suoi contemporanei come Celio Calcagnini, Elio Crotto e Francesco Franchini. L’amore è forse ciò che rende più vivo e disperato il poeta, che lo canta con ambivalente attitudine e lirismo, quest’ultimo per altro presente fortemente anche nei carmi funebri. Relativamente celebre è il carme intitolato Nenia de morte matris, secondo diversi critici uno dei momenti più lirici di Niccolò, dov’egli piange e ricorda la madre morta anni prima e prematuramente. Conosciuto è anche l’epicedio composto per l’amico Marco Antonio della Torre, dove il paesaggio naturale dei dintorni del Benaco è partecipe della tragedia umana. Il sentimento del poeta interloquisce con la natura, elemento umanizzato, vivo e partecipe del triste avvenimento.
Accanto a questo nobile e puro intrecciare di versi sussiste, abbiamo notato, il filone erotico, definito sconcio, triviale e nausente, e questa sussistenza ci mostra un poeta e un uomo complesso, interessato a mettere in versi il proprio sentimento, piuttosto che il canone della morale comune. Tutta la poesia di Niccolò è attraversata da un forte sentimentalismo, forse accentuato dai toni semplici e per questo immediati caratteristici della sua poesia. Il conte d’Arco non è un poeta barocco ma un trascrittore fedele e chiaro delle voci del proprio cuore, ora voci di sofferenza, ora voci di felicità, ora per la tranquillità e l’amenità di un sereno paesaggio, ora per la sfrenatezza d’una serata alcolica tra amici o per l’amore d’una donna.
In conclusione un saggio della poesia di Niccolò (nella traduzione che si trova in Pranzelores); prima un saggio del suo appassionato sentimento verso le donne, un idillio all’amata Flavia, che deve lasciare a seguito di un trasferimento, poi uno del suo lieto umorismo.
Quam tristis Ticini recedo ab Urbe, Dum te candidulam miser relinquo. Sed vates meus, et meus sodalis Ducit me in patriam mei Catulli. **************************** Quis me tristior infacetiorve? Cum nil sit mihi vel boni aut beati, Dum linquo lepidos meos amores. Verum haec spes superest meo dolori (Paucis si mihi Dii favent diebus) Rursus me referam ad meam puellam. Tunc risus profugi, chachinnulique, Et mecum hic aderunt mei lepores, Lepores mihi, quos dedit Cupido. Tu mellita labella mordicabis, Et mellita labella mordicabo. Tu mi denticulis notam relinques Impressam, et tibi dentibus relinquam, Et tu basia mille, ego et ducenta, et mille, Et mille in roseis genis relinquam. Duces stamina, ducam ego ad lucernam, Hibernis quoque noctibus recensens Fabellas vigilabo, et otiosus Sorbillabo merum Thionianum … O tristezza partire da Pavia! O tristezza lasciare la mia bella! Ma il mio amico e poeta mi conduce alla patria del caro mio Catullo. *************************** Chi più triste di me? Chi più deluso? Non ho più alcuna gioia, più alcun bene, se abbandono l’amica mia diletta. Ma il dolore mi lascia la speranza di poter, col favore degli dei, ritornare alla cara donna mia. Torneranno così le risatine e gli scherzi scomparsi e le mie gioie, gioie già a me concesse da Cupido. Morderai le mie labbra delicate, morderò le tue delicate labbra. Lasceranno una traccia i tuoi dentini, lasceranno una traccia i denti miei. Mille baci tu mi darai, io mille e duecento sulle tue rosee labbra. Nelle notti d’inverno veglieremo al chiarore d’una lucerna, e mentre filerai mi vedrai sorbire vino tioniano narrandoti storielle. Hesterno male me mero obruisti, Madruti, pater omnium leporum: Bissenos calices bibens relevi; Sulcavi insolita ebrius carina Euxinum, Ioniumque, Caspiumque. Hinc dens me assiduo premit dolore, Torquet me mala tussit et gravedo; Nec sat officium suum facit mens. Decrevi tamen advolare Thennum, Ut stem pollicitis, fidemque servem. Quid sodalitio hoc magis beatum est? Men’ relinquere tam bonos sodales? Hoc si inter moriar, lubens peribo … Ieri tu m’hai gonfiato del tuo vino, o Madruzzo, che eccelli negli scherzi. Ho vuotato ben dodici bicchieri e ho solcato con strana e traballante ebbra nave il Mar Nero e l’Ionio e il Caspio. Mi son preso così un gran mal di denti, pesantezza di testa e forte tosse, e il cervello non fa più il suo dovere. Ho deciso però di andare a Tenno [dove ci sarà un’altra festa] per serbare lealmente la promessa. Nulla vale più che la nostra unione. Che io debba lasciare tali amici? Io fra loro amerei anche il morire.Bibliografia
– Balduino, A. & Da Pozzo, G. Il cinquecento: la dinamica del rinnovamento (1494-1533), tomo I. Casa editrice Vallardi, 2006.
– Riccadonna, G. (1986). Niccolò D’Arco. Il momento della riscoperta dell’umanesimo. Studi Trentini di Scienze Storiche. A. LXXV, Sezione 1-4, p. 417-430.
– Rill, G. ARCO, Nicolò d’. Dizionario biografico degli italiani. Vol. 3, 1961.
– Pranzelores, A. Niccolò D’Arco. Società Tipografica Edit. Trentina, Trento, 1901.
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