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William James – Il praticalismo

Di Notman Studios (photographer) – [1]MS Am 1092 (1185), Series II, 23, Houghton Library, Harvard University, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16250941

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Di seguito si propone un sunto, ragionato ma fedele, del discorso Concetti filosofici e risultati pratici, tenuto da James nel 1898 all’Unione Filosofica dell’Università di California. Il testo del discorso, pubblicato nel 1904 con il titolo The Pragmatic Method, secondo una visione diffusa «sancisce ufficialmente la nascita del pragmatismo» (Vimercati, 2000).[1]

In via introduttiva è utile chiarire quale sia la posizione di James nei confronti del pragmatismo di Peirce. Posto che, come afferma Peirce, il significato di una concezione (metafisica, ad esempio) è chiaribile solo attraverso la comprensione della condotta (o dell’abito) che essa ispira o comunque che da essa discende, per James è naturale allora prendere in esame, nella considerazione e di fronte ai dilemmi metafisici o più in generale filosofici, la condotta pratica, ovvero propriamente la vita, piuttosto che la logica. In sostanza, James si propone di ampliare il messaggio e il metodo di Peirce; dove Peirce intende il pragmatismo come un metodo sperimentale non tanto volto a stabilire verità, quanto piuttosto a chiarire concetti e dissolvere problemi, mostrandone l’inconsistenza, James opera uno spostamento di obbiettivo: il praticalismo o pragmatismo, o meglio, la massima pragmatica di Peirce, servirebbe a chiarire e distinguere il vero dal falso. Di fronte al dilemma, il filosofo deve stabilire quali siano le condotte che discendono da entrambi i corni, e stabilirne le differenze, per poi operare una scelta in favore della concezione che implica per noi la condotta più conveniente e a noi più consona: e questo corno del dilemma sarà quello vero, dal momento che la nozione di verità è chiarita nei termini delle conseguenze pratiche sensibilmente apprezzabili prodotte dalla teoria. Ma vediamo con maggior chiarezza come si delinea, nello scritto, questa visione ed evoluzione del pensiero di Peirce.[2]

Il discorso di James, come poi qualsiasi altro discorso (filosofico), non si propone d’esser conclusivo, ma solamente indicativo d’una direzione: quella che probabilmente è la corretta: ovvero, quella che con più probabilità porta alla verità. D’altre parte, la funzione del filosofo è quella di «segnavia che la scure dell’intelletto umano incide negli alberi della foresta dell’esperienza, la quale altrimenti non porterebbe alcuna traccia». I filosofi sono, ma forse è più appropriato in questo contesto dire ‘debbono essere’, guide per la vita di ognuno, altrimenti sono inutili e possono smettere di fare filosofia. L’esperienza intera non è e non sarà mai esauribile dalla conoscenza umana, il centro della foresta dove risiede la verità, dove il sentiero si esaurisce, non vedrà il filosofo riposare, ché questo vive propriamente e necessariamente di traguardi procrastinati. Perciò James è solamente indicativo a proposito del sentiero che porta alla verità.

La direzione è inizialmente indicata dal principio di Peirce, così enunciato (e correttamente inteso) da James, e che consegue dalla psicologia della mente di Peirce per cui il pensiero in movimento tende allo stato di quiete, ovvero alla credenza, la quale permette l’azione (credenza come regola d’azione e funzione del pensiero identificata nel formare abiti d’azione), che rimette in moto il pensiero:

… per conseguire la massima chiarezza di pensiero intorno a un oggetto dobbiamo unicamente considerare quali effetti di natura concepibilmente pratica può implicare l’oggetto in questione – quali sensazioni ci attendiamo e quali reazioni ci prepariamo a esibire. La nostra concezione di quegli effetti è per noi l’intera concezione dell’oggetto in questione, nella misura in cui tale concezione presenta un qualche significato positivo.

Ora, l’intento di James è propriamente enunciare il principio di Peirce in maniera più ampia. Così:

il reale significato di qualsiasi proposizione filosofica può sempre essere ricondotto a qualche conseguenza particolare nella nostra esperienza pratica futura, sia essa attiva o passiva; poiché essenziale è che l’esperienza sia pratica e non che sia attiva.

Per convincersi dell’importanza e centralità per la filosofia di un tale principio, per James, occorre applicarlo al caso concreto.

Ancora in generale, il punto è questo: che quando ci si trova di fronte a due proposizioni o tesi filosofiche apparentemente in contraddizione tra loro, e attorno alle quali, in seno alla materia, si sviluppa una discussione, l’atteggiamento serio[3] e corretto è questo: interrogarsi sulle concepibili conseguenze pratiche che assumere la verità della tesi comporterebbe per un dato individuo a un certo tempo. Bene, se assumendo come vera una tesi non è possibile trovare conseguenze pratiche diverse da quelle trovate assumendo come vera la tesi contrapposta, allora le tesi sono in verità equivalenti, sono formulazioni differenti di uno stesso contenuto. Altrimenti detto, «non può esistere una differenza che non ‘faccia’ differenza». Il compito essenziale della filosofia allora è la delucidazione delle concepibili conseguenze pratiche discendenti dall’assumere come vera una certa concezione filosofica.

Per rendersi conto della verità di quanto appena affermato può aiutare pensare a concepire quanto senso avrebbero le astratte discussioni filosofiche e religiose nella situazione in cui mancasse l’orizzonte pratico: ad esempio, nell’ultimo istante del mondo. Se non è possibile dedurre dalle tesi filosofiche «nessun fatto di esperienza o di condotta futura», ad esempio quando si considerino le tesi opposte di teismo e materialismo, il dibattito tra queste è «ozioso e insignificante», e va senz’altro abbandonato.

Prendiamo ad esempio di caso concreto il dibattito tra le tesi opposte di materialismo e teismo. Nel nostro mondo, che ancora ha un futuro, dove cioè le persone vivono fino alla morte in un certo orizzonte pratico, per James l’alternativa tra le due concezioni ha «connotazioni fortemente pratiche». Le opzioni sono certo indifferenti se si considera il passato, ma non se si considera il futuro; ovvero, assumere come vero il teismo implica per l’uomo conseguenze pratiche e prospettive d’esperienza diverse dall’assumere come vero il materialismo, se si considera l’esperienza presente e futura. Così, chi assume la tesi del teismo (la tesi che c’è un Dio), di contro a chi non l’assume, ha il vantaggio pratico di a) garantire un ordine ideale permanente (e un ordine morale eterno, secondo James esigenza profonda dell’uomo), b) avere la speranza in una vita eterna, dove invece il materialismo implica la credenza che tutto è destinato a dissolvere e niente a rimanere. La differenza tra le due concezioni è proprio questa, ovvero è di natura pratica:

il materialismo implica semplicemente la negazione che l’ordine morale sia eterno e l’esclusione della speranza ultima, il teismo comporta invece l’affermazione di un ordine morale eterno e la libertà della speranza.

A questo punto viene spontaneo obbiettare a James, che a) sembra difficile che queste implicazioni, essendo talmente remote, abbiano una qualche implicazione nella vita pratica quotidiana dell’uomo, e che b) piuttosto è probabile abbiano invece qualche implicazione pratica (emotiva) per l’uomo che vive l’ultimo istante della realtà. Se James non risponde in questo testo a b), cerca però di rispondere ad a). Così: i termini dell’esperienza religiosa e filosofico-speculativa (l’assoluto, l’ultimo) sono parte integrante e fondamentale di ogni esperienza di pensiero umano; solo l’uomo superficiale vive in assenza di questa parte del pensiero.

Tuttavia, se anche è criticabile che vi siano differenze praticamente rilevanti concernenti la sorte finale del mondo, certamente, posta la verità della tesi teista, è probabile che si diano manifestazioni nel mondo così come concepito dall’individuo e nella vita dell’individuo che non si darebbero se la tesi fosse falsa. Le differenze relative alla nostra esperienza nel caso in cui Dio esista, sono il significato del concetto di Dio. Dunque, «nella misura in cui implica determinate esperienze, Dio ha per noi un significato e può essere reale». Le differenze sono quelle che discendono dalla considerazione (pratica e poi teorica) degli attributi di Dio: in particolare degli attributi di onniscienza, giustizia divina, ubiquità, eternità, bontà etc.[4] In sostanza, le differenze d’esperienza sono: “le conversazioni con l’invisibile, voci e visioni, risposte a preghiere, mutamenti di stati d’animo, liberazioni da stati di timore, offerte d’aiuto, garanzie di sostegno etc.” L’elenco non sembra chiaro e nemmeno esaustivo, ma lo prendiamo per buono, data la sua funzione all’interno di una discussione puramente esemplificativa.

Ma, attenzione, è del tutto ininfluente ai fini del discorso di James il giudizio sulla realtà o illusorietà dell’esperienza religiosa, che, per altro, come ogni esperienza umana, è propensa all’illusione e all’errore. Nondimeno, queste esperienze sono la fonte e la costituzione dell’idea di Dio. Che poi il Dio astratto della teologia esista o meno è poco praticamente rilevante; quello che è rilevante, per il credente che vive la propria spiritualità, è il Dio di quelle particolari esperienze. Pensare il caso in cui fosse falso che Dio esiste per quei credenti.

Un altro caso pratico è questo: la discussione tipicamente metafisica se il mondo sia uno o molteplice. La questione è priva di senso, dal momento che in termini pratici con il termine ‘uno’ si intende esattamente la stessa cosa che s’intende con il termine apparentemente opposto di ‘molteplice’, quando si pretende di applicare il termine all’universo. Chiedersi: come l’uomo agisce differentemente nei riguardi di un universo ‘uno’, rispetto a quando è invece ‘molteplice’? Qui l’applicazione della massima di Peirce dissolve la questione.


[1] I passi citati provengono tutti da: Vimercati, F. a cura di, (2000). Che cos’è il Pragmatismo? (testi di Peirce e James). Jaca Book: Milano.

[2] Noto preliminarmente due cose. Primo: il discorso di James non è (negli intenti) tecnico e pertanto lascia spazio al sorgere di (inquietanti?) perplessità sul significato di ciò che va scrivendo e sull’uso di alcuni termini chiave. Ad esempio l’uso vago di termini come ‘pratico’ ‘concepibilmente’ ‘significativo’ ‘verità’ ‘esperienza’ pongono infiniti problemi, molti di più di quelli che James si propone di risolvere o solo chiarire con lo scritto che presento. Secondo: io non riporto la parte finale del discorso, dove James pone il pragmatismo in relazione alla tradizione filosofica inglese, giacché mi sembra troppo superficiale e discorsiva (per quanto James possa essere nel vero o comunque degno di essere approfondito).

[3] Più avanti è detto: «Quale serietà può esserci nel dibattere intorno a proposizioni filosofiche che non produrranno mai un’apprezzabile differenza nelle nostre azioni? E che cosa importa quali proposizioni siano dette vere o false, se tutte sono praticamente insignificanti?»

[4] Anche se bisogna notare che la teologia ha reso sterile la considerazione di questi attributi, dove invece la considerazione di questi attributi dovrebbe far parte, per il credente, della vita pratica. Di fatto, le facoltà di teologia non sono che un effetto a posteriori di un’esperienza religiosa incarnata primitiva, quotidiana e concreta.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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