Se pareba boves – Una prospettiva moderna dell’Indovinello Veronese
Chiunque abbia il piacere di approcciarsi alla filologia romanza ed italiana, andando dunque ad analizzare, per diletto o per maggior intento, le prime testimonianze scritte del volgare italiano, andrà sicuramente ad imbattersi nel celebre indovinello veronese. Il documento, scoperto da Luigi Schiapparelli nel 1924 in circostanze che sarà nostra premura approfondire, ha una datazione incerta, da collocarsi nella prima metà del IX secolo. È stato ampiamente considerato come il primo vero documento in lingua volgare italiana, una dicitura a dir poco coraggiosa se si considera l’assetto delle letterature romanze generali, il cui avvio consapevole, e che si discosti dall’uso formulario e burocratico per abbracciare l’intento puramente letterario, non vede significativi sviluppi prima del secolo XI. Il presente lavoro, che si colloca su un livello di ricerca puramente teorico ed esplicativo, tramite anche l’impiego di un codice linguistico di livello pressoché accademico, si premura di portare a compimento una puntuale analisi linguistica del documento, con l’adozione di una prospettiva diacronica e orientata sull’intero panorama romanzo, per ricostruirne la storia, le implicazioni e le influenze, e determinare se sia effettivamente un documento volgare a tutti gli effetti o meno. L’interesse da me riversato sul presente argomento di studio si basa principalmente sul carattere ampio di dibattitto attorno al presente frammento, volendo dunque chiarire la realtà filologica di questo documento in forza degli studi sin ora presentati sul campo filologico.
- Introduzione:
Il codice originale è stato vergato, come dimostrato da studi filologici, in Spagna all’inizio del secolo VIII. Luigi Schiapparelli, a seguito della scoperta, ne ha tracciato un percorso che vede il codice viaggiare dalla Spagna verso Cagliari, per poi giungere a Pisa, come attestato rispettivamente dalle firme di Sergio vicedomino della chiesa di Cagliari e di Maurizio di Liutprando, ed infine a Verona, dove fu oggetto di copiatura. La città di Verona si distinse notevolmente dal periodo alto-medievale sino al XIV secolo inoltrato per essere un centro propulsore di grande cultura sotto il governo stabile e culturalmente attento degli Scaligeri, attorno cui orbitarono ellitticamente personalità di spicco quali gli esimi Dante e Petrarca; la città venne definita dal vescovo Raterio, commissionante della celebre Iconografia Rateriana, come l’Atene d’Italia. Il testo, rivenuto sulla carta 3r del codice liturgico LXXXIX conservato alla Biblioteca Capitolare di Verona, si compone di due parti, vergate probabilmente da mani differenti[1], e recita:
separebabouesalbaprataliaaraba et albouersorioteneba et negrosemen
seminaba
gratiastibiagimusomnip(oten)ssempiterned(eu)s[2]
La traduzione, in prima istanza, può essere restituita come: teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati e teneva un bianco aratro e un nero seme / seminava. Recenti studi di Migliorini e Monteverdi hanno proposto una bipartizione della sezione volgare attribuendole una struttura ritmica ben definita, ossia in esametri ritmici caudati, impiegati ad esempio nei carmen latini e nella letteratura longobarda, il che andrebbe a dividere il frammento come segue: se pareba boves, alba pratalia araba / albo versorio teneba et negro semen seminaba. Ulteriore interpretazione ritmica, proposta da Tamassia e Scherillo, per quanto meno accreditata della proposta di Migliorini, suggerisce di anteporre la particella boves, idealmente da interpretare come un complemento oggetto, andando a creare così quattro versi brevi a rima incrociata, come segue:
Boves se pareba
Alba pratalia araba
Albo versorio teneba
Et negro semen seminaba
certamente non un’interpretazione univoca nel suo genere, lo stesso De Bartholomaeis propose di anteporre il verso terzo al secondo, creando così due distici a rima baciata, e addirittura Pio Rajna propose un livellamento delle desinenze con resa vocalica univoca di a in e, di modo da creare una quartina monorima.
- La realtà filologica della particella se
Dato per accertato che la risoluzione dell’indovinello è il copista[3], essendo questa una metafora per l’attività della scrittura, una prima interpretazione è restituita dagli studi di Monteverdi, Castellani e Roncaglia, i quali traducono “Da sé spingeva i buoi” interpretando pareva < PARARE con un metaplasmo di coniugazione, identificato come un tratto tipico dell’area veneto-orientale da cui la forma tutt’oggi viva in alta Italia di parare che vale spingere dinnanzi a sé, una dimensione interpretativa a cui protende anche la professoressa Silvia Morgana[4]. Sottraendo la forma ad un metaplasmo di coniugazione, dunque prestando maggior fedeltà alla forma, Contini interpreta come “Ciò (la mano che scrive) si assomigliava ai buoi” ed in forza di tale tesi, Migliorini propone “Ecco apparivano i buoi” con pareva < PARERE da tradurre come esserci. Tale interpretazione, che ebbe grande seguito, non è tuttavia congruente con i criteri imposti dalla legge linguistica Tobler-Mussafia[5] in quanto la particella se ad inizio frase è da interpretare immancabilmente come un pronome. Una soluzione è proposta da Serenella Baggio, che propone l’interpretazione di se < SIC. Di minor credito è invece la proposta di Ineichen, il quale ipotizza, sulla base di una conservazione, priva di attestazione, di una declinazione bicasuale di derivazione galloromanza nell’antico veronese, interpreta come “a lui essa (si intende la penna) sembrava un bue”. Infine, merita di essere menzionata la meno accreditata ipotesi di De Angelis (cfr. De Angelis, 2003) che interpreta se pareba come una forma univerbata dunque come resa volgareggiante di SEPARABIT, traducendo dunque con l’atto metaforico di separazione delle dita impugnando la penna, accanto all’ipotesi di Presa secondo cui la forma univerbata derivi, in forma non metaplastica, da assepàrere, ossia appaiare.
Considerate nel loro insieme le varie interpretazioni generali sul significato dell’indovinello, è ora opportuno apportare un’accurata e puntuale analisi linguistica per determinare lo stato di evoluzione del lemmario adottato dal copista.
In prima istanza, permane il problema di interpretazione della particella se, la quale, mi sento di poter affermare con relativa certezza, non è da ricondurre al latino SIBI come dativo di vantaggio quanto al latino SIC, in ottemperanza, come già esplicitato, della legge linguistica Tobler-Mussafia, anche in osservanza dell’attestazione settentrionale di resa di sì con se. Ragionando filologicamente sul panorama letterario dell’epoca, ed in fede a quanto proposto da Meneghetti (cfr. Meneghetti, 1997, p.72), è necessario tenere a mente come la stesura dell’Indovinello Veronese non sia avvenuta in una situazione di pura mimesi dell’oralità popolare, dunque in imitazione di un latino compromesso in direzione volgare abbracciandone anche le molteplici imprecisioni, tra cui l’infrazione della sopracitata legge linguistica, quanto da un panorama soggiacente relativamente acculturato, di elevato spicco in termini di conoscenza sintattico-lessicale (ciò prende maggior corpo se si addita come veritiera l’ipotesi che le due formule, volgareggiante e latina, siano delle prove di penna di due copisti diversi o, addirittura, del medesimo copista). Dunque, ipotizzare la volontaria infrazione della legge linguistica è a dir poco paradossale se si tiene conto della scarsissima attestazione di errori del genere. L’estrema rarità, combinata al religioso rispetto di una legge che ancora presenta durevoli attestazioni in Dante, fanno sì che interpretare se < SIBI sia ineccepibilmente errato, da un punto di vista filologico.
Differentemente da tale visione, è stato proposto di interpretare se come un pronome tonico, tuttavia tale tesi risulta disvalorata dalla richiesta della sintassi veneta di posposizione dei pronomi tonici, dunque nuovamente un’incongruenza blocca l’interpretazione. Adottando una visione prettamente critica e conforme a quanto ben imposto dagli studi sin ora citati, risulta corretto interpretare se < SIC, con fedeltà agli studi di Baggio, e pareba < PARERE, senza metaplasmo di coniugazione, in forza degli studi di Migliorini.
Di grande rilievo filologico, e dunque degna di particolar nota nel presente lavoro, è la tesi proposta dal dottor Diego Pescarini, dell’Université Côte d’Azur, il quale suggerisce, a sostegno della tesi di De Bartholomaeis (in De Bartholomaeis 1927:198) secondo cui l’incipit dell’Indovinello contenga effettivamente un pronome, e dunque che il se di nostro interesse altro non sia che un pronome debole[6]. A sostegno della propria tesi, la quale permette di assegnare il valore pronominale alla particella senza infrazione della Tobler-Mussafia, propone una serie di attestazione del medesimo fenomeno, relativamente valide per quanto connotate da una distanza diacronica non trascurabile; tra queste vi sono “…che me non me parea che fosse lo mio cuore” in Dante, Vita Nuova, 24 par. 2, e “Domine, te lodo” in Novellino, 74, r.17. La proposta di Pescarini risulta, a mio avviso, del tutto congruente con gli scenari presentati e dunque degna di fiducia, o quantomeno di attenzione. Tale proposta è inoltre arricchita dall’apposizione dell’intrigante scenario, ancora tuttavia da verificare in termini di totale affidabilità, secondo cui la particella di nostro interesse fosse un se passivante, proposta che potrebbe risolvere il dilemma del motivo per cui nel verso incipitario l’ordine OV appaia rovesciato in VO.
In forza degli studi da me condotti, ritengo dunque di massima affidabilità l’interpretazione di Pescarini che identifica la particella pronominale come un pronome debole, essendo tale ipotesi sorretta da numerosi studi ed attestazioni di italiano antico, nonché da una totale autorevolezza dei principi linguistici evocati.
- Primo documento italiano o documento tardo-latino?
Risolto il dilemma di interpretazione della particella, è necessario muovere ulteriori passi analitici per rendere noto il livello di arretratezza del codice linguistico impiegato, di modo da stabilire se sia più opportuno impiegare l’etichetta italiano volgare o latino circa romançum.
Innanzitutto, la forma boves, da interpretare come soggetto plurale del primo periodo (secondo le indicazioni di interpretazione sopra fornite), presenta ancora l’espediente morfologico di pluralità della forma, la desinenza dell’accusativo maschile plurale, ossia la sibilante /s/ in posizione finale, tipica del latino, caduta nelle lingue italoromanze, ha visto una conservazione nella penisola solamente nelle lingue più estreme geograficamente, in direzione nord-orientale, quali ladino, romancio e friulano, assieme alle varietà francoprovenzali[7]. La conservazione della sibilante finale, caduta interamente già nel primo ‘200 (come ogni altra consonante in posizione finale, fatta eccezione per le forme apocopate, per le particelle atone e per i latinismi grafici), è sintomatica di uno stato di forte precocità del linguaggio impiegato, una precocità che era tuttavia ancora diffusa sull’intero panorama italiano del secolo VIII, se si considera la sistematica presenza della -s finale anche nel quasi contemporaneo manoscritto senese contenente il Breve de inquisitione.
Passando oltre, è sintomatico di forte conservatorismo linguistico la forma albo/alba, i quali indicano la caratteristica cromatica del bianco. È interessante notare come la forma alba sia la forma più antica per esprimere il concetto, derivata dal latino albus, che rimase in uso sino al IX secolo, venendo poi soppiantata dal germanismo blanch, divenuto poi blank e infine bianco, stabilmente in uso a partire dal XII secolo[8].
Fortemente conservativa in direzione latina è la forma pratalia per indicare i prati (essenzialmente in forma plurale), che anticamente ammetteva la forma plurale in prata o pratoria, dunque con conservazione della desinenza dell’accusativo plurale neutro.
Perfettamente latina è invece la forma semen (da cui seme, dal latino semen, -inis), che conserva la desinenza del neutro, mentre molto compromessa in direzione di un volgare è la morfologia verbale. Le forme verbali sono tutte manchevoli della consonante finale come espediente morfologico di persona verbale. La forma corretta dovrebbe infatti presentare la /t/ finale, con le forme parebat, arabat, tenebat e seminabat. Tuttavia, è ampiamente attestato il carattere di debolezza e tendenza alla caduta sia della casistica latina[9], dunque tale fenomeno non appare come sufficiente a stabilire un carattere di progressione linguistica tale da far tendere il codice impiegato ad un volgare affermato. Inoltre, le forme verbali, per quanto manchevoli della consonante morfologica finale, sono anche manchevoli del precoce fenomeno di lenizione consonantica[10] che dalla forma pareba rende la moderna forma pareva, e così anche arava, teneva e seminava. La forma negro presenta da un lato il fenomeno di conservazione del nesso di consonante + rotante, che in italiano moderno termina con esito di caduta della consonante pre-rotante, ma dall’altro lato presenta già l’evoluzione vocalica i>e.
Spostando il focus dell’analisi dalle forme prettamente linguistiche alla forma metrica, quanto ne risulta è ampiamente interessante per inquadrare la mentalità del copista nel momento di stesura. I versi sono connotati da un grado ristretto di anisosillabismo, oscillando tra il senario ed il novenario in forma perfettamente crescente. Quanto interessa è di notare la posizione degli accenti nei vari versi:
Se pareba boves -> senario con schema – – + – + –
Alba pratalia araba -> settenario con schema + – – + – + –
Albo versorio teneba -> ottonario con schema + – – + – – + –
Et negro semen seminaba -> novenario con schema – + – + – – – + –
Osservando dunque la presente schematizzazione delle posizioni deboli e forti, traspare chiaramente come non vi sia una particolare attenzione alla congruenza delle posizioni, le quali sono sostanzialmente differenti se si tralascia la penultima tonica. I versi, ancora non entrati nell’uso della poesia in lingua italiana, non rispecchiano la canonicità che si è imposta sin dagli albori (cfr. Beltrami, 2021:68-73), difatti il novenario non presenta il tipico accento fisso in quinta così come l’ottonario non presenta l’accento in terza (per quanto per gli ottonari antichi tale regola fosse relativamente opzionale) ed il senario non presenta il tipico accento fisso in seconda. Ciò a dimostrazione della forte demarcazione che è ancora insita nella mente del copista rispetto alla prime esperienze realmente considerabili italiane. La mancanza di consapevolezza di maneggiare uno strumento letterario già posto sul binario di un codice linguistico a sé stante come l’italiano è il tassello fondamentale per relegare il presente documento nella categoria delle esperienze di latino circa romançum.
4. Attestazioni dell’Indovinello nella poetica romanza ed anglosassone:
Prima di giungere a presentare le mie conclusioni, è mio interesse riportare i due fenomeni più espliciti di attestazioni letterarie influenzate dall’indovinello veronese, di modo da mettere in luce la portata che questo frammento ebbe sin dalla sua stesura e, successivamente, dal momento della sua scoperta nel 1924.
In primis, è meritevole di menzione la terzina scritta dal vescovo anglosassone Sant’Aldelmo, che recita:
Procedo per diritto cammino attraverso i campi biancheggianti,
e lascio sulla candida via vestigie azzurrine,
i candidi campi macchiando con oscuri solchi
ed il distico dello storico e scrittore longobardo Paolo Diacono,
Candidolum bifido proscissum vomere campum
Visu et restrictas adii lustrante per occas
da tradurre come
Un campo biancheggiate solcato da un bifido vomere
Si presentò alla mia vista e avanzai esplorando tra i fitti solchi
da cui traspare chiaramente la presenza dell’elemento del bianco campo, teatro originale anche dell’Indovinello, un bianco campo che, nel distico di Paolo Diacono, non presenta un negro semen, ma presenta fitti solchi, i quali sono agevolmente interpretabili come i risultati dell’azione di scrittura, e dunque questo distico è interpretabile come una metafora dell’azione di lettura, quasi un rovesciamento della situazione dell’Indovinello Veronese. La terzina di Sant’Aldelmo pare invece restituire una metafora della scrittura, con l’attestazione dell’azione di creare oscuri solchi sul candido campo.
Seconda menzione, per ordine cronologico, sulle soglie della modernità letteraria, è da riscontrare nel quadernario di apertura della lirica Il Piccolo Aratore (da Myricae, 1891) che recita:
(…) Scrive… (la nonna ammira): ara bel bello,
guida l’aratro con la mano lenta;
semina col suo piccolo marrello;
il campo è bianco, nera la sementa (…)
in cui traspare chiaramente la trasposizione in una dimensione più quotidiana e privata, ossia di un aratore dalla giovane età intento all’opera ed ammirato dalla nonna, dell’Indovinello, di cui sono ripresi elementi quali l’aratro (il lemma è adattato al fiorentino emendato e soppianta la forma veronese versorio), il bianco campo e la nera sementa.
Terza e ultima menzione dell’Indovinello Veronese è quella, ben più esplicita, contenuta nelle pagine del romanzo Baudolino, di Umberto Eco, ambientato tra i secoli XII e XIII. Il testo viene citato in maniera esplicita, alba pratalia arabat et negrum semen seminabat, con i dovuti aggiustamenti grammaticali che lo riportano alla dimensione latina, nel momento in cui l’eremita istruisce Baudolino insegnandogli a scrivere.
- Prospettiva moderna:
Per ben comprendere quanto è mio interesse rendere chiaro, è valido affidarsi alla definizione di Cardinaletti-Egerland (2010:146), secondo cui: “Quando un pronome apparentemente libero si trova in it. Ant. al posto del pronome clitico corrispondente, abbiamo a che fare con un pronome debole. I pronomi deboli hanno la stessa forma dei pronomi liberi corrispondenti.” Quanto appena espresso gioca chiaramente a favore della tesi secondo cui il se dell’Indovinello altro non sarebbe che un debole, ipotesi sostenuta da numerosi e recenti studi sulla morfosintassi pronominale dei testi antichi, di un arco diacronico d’incipit contemporaneo all’Indovinello e che si estende sino a Boccaccio. Tralasciando i sopracitati esempi letterari di impiego di egual modalità (per cui si rimanda al paragrafo 2), di preziosa utilità è la nota di Bertoletti (in Bertoletti 2005:n.563) secondo cui, tra le numerose attestazione di impiego della particella se/sé in forma non dissimile a quella dell’Indovinello, si trovano nomi autorevoli quali il sé del Ritmo Bellunese (secondo una correzione proposta da Salvioni (cfr. Castellani, 1976:216)[11], nello Splanamento[12] del Patecchio e nel Lapidario Estense. Quanto mi preme portare alla luce è dunque il carattere estremamente ampio di diffusione di pronomi deboli nell’Italiano antico, il che avvalora sufficientemente l’ipotesi del dottor Pescarini. Ulteriore stimolo è dato dal lavoro di Serenella Baggio, dell’Università di Treviso, che presenta, nell’articolo da lei firmato, numerose attestazioni di studi su questa forma pronominale (per intendere, si tratta di esempi di forme di pronome debole, pleonastico ed anaforico), studi che vantano nomi di filologi d’altissimo calibro, quali Graziadio Isaia Ascoli, Wilhelm Meyer-Lübke e Silvio Avalle, i quali attestano studi sulla morfosintassi pronominale che giungono ad analizzare persino i testi del Boccaccio, che appaiono ricchi di tale forma pronominale. Di particolare interesse è l’attestazione veronese “perché s’a gh’à conparì la Madòna” (“perché sì gli è apparsa la Madonna), proveniente da Treviso per mano di Alberto Zamboni (cfr. Zamboni 1974:89).
- Conclusioni:
In conclusione, il percorso tracciato dal presente lavoro riguardo questo frammento si premura di condurre in direzione di un’interpretazione univoca di esso, concorde con l’idea che definirlo come il primo frammento recante un esempio di volgare italiano sia in un’etichetta a dir poco irrazionale nonché spropositata filologicamente e del tutto fuorviante rispetto a quanto vi è realmente dietro tale reperto. Il codice linguistico impiegato per la stesura di quella che è stabilmente riconosciuta come una prova di penna non presenta sufficienti elementi a supporto della tesi di un volgare ben affermato. Tenendo conto del percorso filologico tracciato da Meneghetti[13], è opportuno impiegare per questa testimonianza, così come per il coevo carmen alphabeticum veronese sulla Vita ritmica di san Zeno, l’etichetta di latino della parola[14], ossia un latino fortemente compromesso in direzione volgare ma ancora stabilmente ancorato a quelle che sono le origini linguistiche di partenza. L’Indovinello Veronese, che nel percorso tracciato svolge una funzione prettamente testimoniale, non è dunque identificabile come un esempio di lingua volgare italiana perché è assente, nella mente del copista che attua la stesura, la consapevolezza di appartenenza e riferimento ad un codice linguistico separato dal soggiacente latino. Le radici sono ancora profondamente radicate in un latino che, seppur corrotto, ancora non è stato soppiantato da un codice linguistico a sé stante. La lingua dell’Indovinello è manchevole di tutta una serie di tratti o lemmi che costituiscono la stabilità del codice linguistico italiano. Dunque, in conclusione, per etichettare questo frammento volgareggiante è corretto impiegare l’etichetta di latino della parola, mentre per il primo vero frammento di lingua volgare italiana, consapevole della propria autonomia linguistica, sarà necessario aspettare circa un secolo, con i Placiti capuani, ossia atti notarili che recano delle formule testimoniali con tratti già radicati nel panorama linguistico italiano[15].
Vi è di certo che quella che fu, al tempo, niente più che una prova di penna, ha catturato l’attenzione dei filologi per quasi un secolo, i quali si sono impegnati nel fornire una spiegazione filologica plausibile con l’iniziale entusiasmo di aver rinvenuto il primo frammento recante una lingua italiana propriamente detta, entusiasmo soppiantato poi dalla realizzazione di essere dinnanzi ad un latino iuxta rusticitatem[16], pur lasciando vivo un grande interesse filologico per un frammento di enorme importanza. Dunque, se il presente lavoro ha suscitato una sentimento di curiosità oltremodo viva per il frammento, non si manchi la visita alla Biblioteca Capitolare di Verona, dove è tutt’oggi possibile l’accesso ai numerosi documenti conservati.
La stesura del presente articolo ha inteso, come fine ultimo, quello di proporre al pubblico dei lettori di SF le principali prospettive sulla realtà filologica di questo documento, ancora ampiamente dibattuto, spesso in forme linguisticamente e filologicamente errate, avvalorando per giunta la tesi proposta da studi di data molto recente. Lo studio del dottor Pescarini è sufficientemente strutturato e poggia su fondamenta ben solide, che rendono questa teoria la prediletta nel campo di studio, etichettando come obsolete, senza tuttavia demonizzarne in alcun modo l’inestimabile valore filologico, le teorie che fino a quel momento avevano dominato la scena della filologia. Si tratta chiaramente del classico processo evolutivo della ricerca, in continuo mutamento e sempre ben disposta all’apertura nei riguardi di nuove teorie. In conclusione, è mia premura attestare, in chiusura di questo mio progetto di ricerca teorica, che la maggior validità filologia sia da attribuire alla tesi del se come un pronome debole, ponendo da parte il dibattito derivazionale tra SIC e SIBI, ed abbracciando questo nuovo punto di vista, che chiaramente getta una nuova luce sugli studi di morfosintassi pronominale dell’Italiano antico, ed apre a nuove entusiasmanti prospettive filologiche.
Bibliografia essenziale:
Baggio S. in Baggio, Serenella. (2020). Se pareba nell’Indovinello Veronese. Altri casi di SĪC iniziale *.
Beltrami P., La Filologia Romanza, Il Mulino, Bologna, 2017, pp.114-115
Beltrami P., Gli strumenti della poesia, Il Mulino, Bologna, 2021, pp.68-73
Bertoletti N., Testi veronesi dell’età scaligera, Esedra, Padova, 2005, n.563
Cardinaletti A., Egerland W., I pronomi personali e riflessivi, 2010, in Salvi G., Renzi L., Grammatica dell’Italiano antico, Il Mulino, Bologna, pp. 414-450
Castellani A., I più antichi testi italiani. Edizioni e commento, Patron, Bologna, 1976, p. 216
D’Achille P., Breve grammatica storica dell’italiano, Carocci Editore, Roma, 2021, pp.61-76
De Bartholomaeis Vincenzo 1927, Ciò che veramente sia l’antichissima cantilena
Boves se pareba, “Giornale storico della letteratura italiana” XC, pp. 197-204
Meneghetti M. L, Le origini delle letterature medievali romanze, Editori Laterza, Bari, 1997, pp.71-74
Morgana S., Profilo di storia linguistica italiana, p.195, in Bonomi I., Masini A., Morgana S., Piotti M., Elementi di linguistica italiana, Carocci Editore, Roma, 2021
Pescarini D. in Diego Pescarini, L’indovinello veronese e la sintassi dei pronomi. Lingua, cultura, tecnologie. L’eredità di Manlio Cortelazzo, Il Poligrafo, In press. hal-02420332
Petrucci A., Romeo C., L’orazionale visigotico di Verona: aggiunte avventizie, indovinello grafico, tagli maffeiani, in Scrittura e civiltà, 22, pp.13-30
Tomasoni P., Lapidario Estense, Milano, Bompiani, 1990
Zamboni A., Veneto, Pisa, Pacini, 1974, p. 89
Pagine web consultate:
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Ortis M., (2021), Scaligeri, la signoria che rese Verona una città ricca d’arte, https://verona.italiani.it/ , https://verona.italiani.it/gli-scaligeri-resero-verona-citta-artistica/
Treccani, Indovinello veronese, https://www.treccani.it/ , https://www.treccani.it/enciclopedia/indovinello-veronese/
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Note:
[1] Cfr. Petrucci-Romeo, 1998, p.21
[2] Per la resa è fatta adozione della trascrizione paleografica
[3] La risoluzione è stata proposta primariamente da Vincenzo De Bartholomaeis grazie all’intuizione di accostamento ad un celebre indovinello popolare da parte di una sua allieva.
[4] Cfr. Silvia Morgana, Profilo di storia linguistica italiana, pag. 195, in Elementi di linguistica italiana, 2021, Carocci
[5] La legge Tobler-Mussafia regola la distribuzione nei periodi delle particelle pronominali atone, imponendo che un periodo non inizi con un pronome atono il quale si deve immancabilmente legare con l’elemento sintattico tonico che segue. È il caso della forma rispuosemi (cfr. Dante, Inf. I, v.67).
[6] Un pronome debole risulta essere un pronome apparentemente libero e dalla forma identica a quella del clitico di corrispondenza, senza tuttavia seguirne le caratteristiche morfo-sintattiche.
[7] Per approfondimento si rimanda agli scritti di Graziadio Isaia Ascoli, quali Saggi Ladini e Schizzi Francoprovenzali
[8] La forma blank per bianco è attestata nell’intero panorama romanzo, in Italia è la forma prediletta dai poeti del due-trecento; in Francia, precisamente in Piccardia, è attestato ad esempio nell’anonimo Fabliau de Coquaigne
[9] Sono difatti numerosissime le attestazioni, contemporanee o di poco successive all’Indovinello, che presentano errori nella resa dei casi latini. A puro titolo esemplificativo, in Italia l’iscrizione della Basilica di San Marco a Roma o il Breve de inquisitione, in Francia la celebre Sequenza di Sant’Eulalia, le Laudes regiae e i Giuramenti di Strasburgo.
[10] La lenizione consonantica è un fenomeno di sonorizzazione della consonante sorda intervocalica, dunque il passaggio, ad esempio, dall’occlusiva bilabiale sorda p alla sonora b, che poi termina con una fricatizzazione, dunque la resa in v (ad esempio, RIPAM > riba > riva). Solamente in francese antico, principalmente nella zona della Guascogna, il fenomeno avveniva in posizione pre-rotante, dunque prima della consonante r.
[11] La particella di riferimento si trova nel v.4 del quadernario che recita con se duse li nostre cavaler (da Meneghetti 1997:228)
[12] Si tratta dello Splanamento de li Proverbii de Salamone, opera esposizionale con patina linguistica cremonese in distici di alessandrini in rima accoppiata, firmata da Girardo Pateg (da Beltrami 2017:236)
[13] Cfr. Meneghetti M. L., Le origini delle letterature medievali romanze, pp.53-59
[14] L’etichetta permise anche di separare i frammenti secondo le loro finalità, didattiche o testimoniali
[15] La prima delle tre formule dei Placiti recita: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. I fenomeni linguistici sono molteplici, tra cui spiccano: la forma sao come evoluzione di SAPIO; la presenza della forma moderna del dimostrativo kelle, con la grafia dialettale di una velare in sostituzione della labiovelare; la presenza di una dislocazione con ripresa da parte di un clitico, il che è definito in linguistica come costrutto marcato.
[16] L’etichetta indica propriamente un latino secondo l’uso rustico
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