Di recente, parlando con il Master Chief di ScuolaFilosofica.it, Giangiuseppe Pili, è emerso che nel sito scarseggiano recensioni di libri scritti da russi. Indagando su questa curiosità, la conversazione si è defilata facilmente sulle idee personali circa la caratura delle varie letterature continentali, e da ambe le parti, ogni tanto, son partite scorribande di convinzioni individuali volte ad arrembare la solida nave delle convinzioni dell’altro.
Così, passando in rassegna i volumi degli autori Nobel alla letteratura, disposti con ordine cronologico su tre scaffali della mia libreria, occhi, dito e idee si sono fermati al trentunesimo libro. Si tratta di un piccolo volume, capace di stare nella tasca di una giacca – il tipico formato della Sellerio – dal titolo “L’affare dell’alfiere Elaghin”, di Ivan Bunin, scrittore insignito del premio Nobel nel 1933, il primo russo a riceverlo.
Seppure la lettura del volumetto risale a febbraio 2019 (sono solito annotare nella prima pagina bianca del libro le date di inizio e fine lettura, con l’aggiunta di qualche nota; nelle pagine bianche a fine libro, invece, annoto parole o riferimenti a brani che mi colpiscono) mi è bastato ben poco per richiamare dalle foschie del dimenticatoio gli elementi focali di questa lettura.
Bunin riporta sotto forma di racconto breve un triste e complesso fatto di cronaca nera: l’assassino dell’attrice polacca Visnovska. Si tratta di un omicidio passionale, perpetrato dall’amante della sventurata, un giovane alfiere degli ussari, colpevole di averla freddata con una pistola.
Il fatto, avvenuto nel luglio del 1890, all’epoca scosse fortemente l’opinione pubblica anche per la complicatissima trama mai del tutto chiarita. Fu pure oggetto di attenzione da parte di intellettuali di rilievo come Cechov, che ebbe modo di affermare quando segue: “È una storia così complessa e assurda che solo un Dostoevskij potrebbe trovarci un senso”.
Lo scrittore, che vergò il racconto da esule sulle Alpi Marittime, nell’infingimento letterario cambia i nomi dei protagonisti e altri dettagli della vicenda, ma lascia avvolte nell’imperscrutabile le ragioni che hanno stabilito il movente. Ed è qua che Bunin conferma tutta la disposizione naturale all’analisi degli anfratti più remoti della psiche umana propria degli scrittori suoi connazionali.
Il risultato finale è uno studio letterario di psicologia dell’amore, seppure oggigiorno, non del tutto a torto, si tende a ripudiare il coinvolgimento del più nobile dei sentimenti in vicende dagli epiloghi delittuosi.
Ma la protagonista di questa triste vicenda subiva un forte ascendente dall’aldilà:
“Ieri sono stata al cimitero alle dieci di sera. Che spettacolo opprimente. La luna inondava di raggi le pietre sepolcrali e le croci. Mi pareva di essere circondata da migliaia di morti. E mi sentivo così felice, gioiosa! Ci stavo molto bene…”
E ancora
“…aveva destinato una delle proprie stanze, com’ella si esprimeva, – specialmente al suicidio – là c’erano e rivoltelle, e pugnali, e boccette con ogni sorta di veleni e aveva fatto della morte l’oggetto costante e favorito delle conversazioni”.
Forse non è del tutto un caso se una storia simile è finita col richiamare le attenzioni e la maestria narrativa di un russo.
Bunin riceve il Premio Nobel alla letteratura nel 1933 e, come già riportato, è il primo scrittore russo a ricevere tale onorificenza, ma la riceve da esule, perché privato della cittadinanza russa e senza averne ricevuto nessun’altra, quindi riceve il prestigioso riconoscimento da apolide.
L’Accademia motiva la scelta come segue: “per la precisione artistica con la quale ha trasposto le tradizioni classiche russe in prosa”.
A me piace pensare che, almeno per estensione, tra le tradizioni classiche russe si possono ritrovare anche le spiccate capacità introspettive dell’animo umano.
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