Secondo Emmanuel Levinas, la casa è la condizione di base tramite cui qualsiasi uomo può attivarsi. Così si conoscerà a livello intellettuale, ci si manterrà in vita, si prenderanno le decisioni pratiche ecc… Tutti gli uomini esistono nel loro mondo dal momento che si trovano in quello. Ma va precisata la fenomenologia del caso[1]. L’uomo si situa nel suo ambiente di vita nella misura in cui ha qualcosa. Martin Heidegger sostiene che ognuno di noi è essenzialmente “gettato”, al momento di nascere. Tale trovarsi per Emmanuel Levinas esprime pure (nel contempo) l’uomo ad una “proprietà”… in se stesso. Dunque subentra la percezione d’un dimorare? Più precisamente, ogni persona è tale siccome si fa “gettare” nel proprio mondo… “partendo da se stessa”. In altre parole, alla nascita noi già stiamo “avendo”. E’ un’occasione ove s’esprime la “proprietà… di sé”, grazie al possesso dell’intimità. Allora Emmanuel Levinas apre al simbolismo. Se l’uomo è tale nella misura in cui “parte”… da se stesso, ne deriva che egli va “dimorando”. Si respinge il soggettivismo dell’idealismo. Anzi, la coscienza di qualcuno si dà solo nella misura in cui essa può “dimorare”… sul proprio mondo di vita.
In via fenomenologica, una casa si percepisce sempre tramite l’oggettività. Qualcosa che si ponga in via del tutto esteriore, unicamente a limitarsi “dall’aperto”. Se l’essenza del dimorare non deriverà dall’idealismo, si dovrà anche evitare di condizionarla sul realismo. Ricordiamo la classica metafora del barricarsi in casa. Lì allacceremmo l’intimismo del ritrovare se stessi… Ma la situazione è possibile solo perché dapprincipio si dà una concretissima abitabilità. Parimenti la dimora non sembra “anonima” quanto la terra, l’aria o la luce. Questi elementi si percepiscono bene nella materialità del nostro vissuto. Per Emmanuel Levinas, la casa simboleggia la condizione fenomenologica in cui l’uomo si fa “gettare” nel proprio mondo (ambiente) esistenziale… “partendo da se stesso”. Noi “avremo” comunque… un’interiorità, pure a prescindere dal voler “barricarci” in essa[2]. Emmanuel Levinas non segue il realismo, ma la fenomenologia. Una casa esprimerebbe il “possesso della condizione esistenziale” per cui l’uomo è tale in quanto (da sempre) “costretto… a possedere”. Qualcosa che “rompa” con l’assolutezza anche metafisica della Totalità. In quest’ultima, tanto l’Essere quanto il Nulla dialetticamente rischiano di coincidere l’uno sull’altro. Ma la dimora simbolicamente permette che nasca un uomo. Qualcuno che “si trovi” ad esistere unicamente “nella proprietà”… di se stesso.
Ma quanto la vita avrà come sua metafora “il barricarsi per interfacce” d’una fiamma? L’interiorità spesso è malcelata (tramite le reazioni emotive). Per Paul Virilio, il piacevole focolare simboleggerebbe bene la residenza nella propria dimora[3]. L’architettura contemporanea ama percepirsi “nell’interfaccia” di se stessa[4]. Molti palazzi, avendo le pareti di vetro, si rifletteranno fra di loro.
Paul Virilio immagina che così l’architettura contemporanea esibisca il “focolare” del cielo. L’interfaccia va percepita nella concavità o nella convessità della propria riflessione. Esteticamente, sarà l’evoluzione d’una lampadina elettrica (inventata da Thomas Edison). La sua concavità o convessità soltanto materiale (dal bulbo di vetro) giungerebbe persino ad astrarsi, e sull’intermittenza dell’insegna pubblicitaria (caratteristica dei palazzi metropolitani).
Piace “barricarsi” nella mente, pensando. S’attenderà l’idea che “s’accende come una lampadina”, in seguito al “saliscendi” del ragionamento. Per Gaston Bachelard, a volte una camera non è solo una porta, bensì una porta… e tre gradini. Si può dire che, tramite la rammemorazione, il pensiero avrà un proprio saliscendi. La nostra casa sempre ci custodisce. La camera in cui salire consentirebbe al mondo esterno d’essere per noi, complice la visuale panoramica (a 360°). Invece, la cantina simboleggerebbe una nostra “discesa” nell’introspezione.
Per Gaston Bachelard, conta sapere che non è consentito all’uomo il vivere… ad un solo “piano”[5]. La memoria appunto salirà o scenderà, fra il “radicamento” nel passato ed i “germogli” per il futuro. Così, la vita non sarà mai “appiattita” in se stessa. Gaston Bachelard contesta l’urbanizzazione moderna, coi palazzi attaccati l’uno sull’altro (senza “fronde”), e solo adagiati all’asfalto (se le radici comunque “sprofondano”). Esteticamente, vi sarà un “appiattimento” pure sul… “relax” della “vista panoramica”?
Per Paul Virilio, spesso s’accede agli edifici contemporanei tramite porte d’ingresso che fanno circolare la gente. In ambito architettonico, salterà una netta distinzione fra la dimensione del pubblico e quella del privato. Citiamo gli ingressi antitaccheggio dei negozi, i caselli autostradali, i tornelli allo stadio ecc… Varcandoli, in realtà pare che non andiamo da nessuna parte. Mancherà una chiara separazione fra lo spazio interno e quello esterno. Per Paul Virilio, questo comporta la cosiddetta estetica della sparizione. Gli abitanti non ci sono più, sostituiti dagli individui perdutamente in transito. Qualcosa che ci farà dimenticare l’ossimoro del “focolare riposante”, in compagnia dei familiari o degli amici, una volta rincasati da lavoro.
Nella vita contemporanea, lo status sociale può contribuire a determinare il consumo d’un certo prodotto. Qualcosa da percepire in via orizzontale. Infatti, staticamente soltanto alcuni consumeranno i prodotti di qualità, a cui molti non potrebbero “risalire”. Per Jean Baudrillard, la pubblicità ha un “imperativo” subliminale. Essa c’invita a comprare un dato prodotto, perché < Così saremo giudicati da… >, o perché < Sempre lo accettiamo in chi… >. Per Jean Baudrillard, la pubblicità si basa sulla percezione d’uno standing[6]. Sarà vero che uno status symbol va sempre rivendicato. Qualcosa da percepire in via verticale, e da un imperativo essenzialmente pubblicitario[7]. Il suo “edificarsi” finirà a “barricarci” nell’ansia d’una massificazione sociale (per i gusti che non potremo personalizzare).
In natura, forse la verticalità diverrà meno “impegnativa” alla vista… Per Gaston Bachelard, facilmente noi sogneremmo che le case esistano addirittura tra i fiori. Almeno, lo si potrà studiare in chiave poetica. Jean Laroche scrive che la peonia è una casa incerta, in cui ciascuno ritrova la notte. Più genericamente, nel calice del fiore dimorerà il nostro sguardo. La peonia rossa certo permetterà a qualche insetto d’addormentarsi, di notte[8]. Citiamo in aggiunta il lirismo di Jean Bourdeillette. Per lui, il papavero o la peonia sarebbe un paradiso silenzioso.
Citiamo la poesia Trieste, di Umberto Saba[9]. Lì egli descrive di risalire un’erta, chiusa da un muricciolo. Trieste avrebbe una grazia scontrosa, simile a quella d’un ragazzaccio le cui mani siano troppo grandi per regalare un fiore. Qualcosa da percepire alla “carezza” d’un muro. Per Umberto Saba, Trieste consterebbe principalmente di cantucci. L’affetto verso la città natale si percepirà nella pesantezza d’una “carezza urbanistica”. Fra i cantucci, Umberto Saba tenderà a pensare e ripensare, parendo schivo con gli altri. Più in generale, un’urbanizzazione “naturalmente floreale” apparterrà ai borghi antichi?
Sonia Serravalli immagina che il suo foulard voli, e verso l’uomo amato. Ciò accadrà non per nostalgia, bensì per magia. Un foulard comunque scopre il proprio “accartocciarsi”. Esso dunque “rivitalizzerebbe” ogni “caduta” mediante il raggrinzire. Per Sonia Serravalli, un foulard scivola sui vetri, e così include il mondo. Soprattutto le costruzioni edili si percepiscono “accartocciando” il loro sorvolo. Ciascun uomo sente l’impulso ad abitare. Il foulard potrà terminare il suo volo sui “ventricoli” più trasparenti dell’amore?
Certo la casa cela simbolicamente un “arredo” di “cuori più o meno emotivi”. Ernesto Francalanci scrive che ogni porta “ostenta” la sua maniglia[10]. Essenzialmente, trattasi di qualcosa che bisogna prendere. In tal modo, accade una vera e propria ostentazione dell’apertura. Nello stesso tempo, la maniglia si percepirebbe più simbolicamente “all’ospitalità”… di se stessa. Prima che varchiamo una porta, dobbiamo stringerci a questa. E’ qualcosa d’utilmente ospitale. Ma quanto la maniglia rilascerà “l’emotività” da una “forma ventricolare”?
L’urbanizzazione cittadina rischia di far perdere alle case la propria autenticità, “uccidendone l’anima”. I piani regolatori “appiattiscono” gli stili, subito smorti da percepire. L’urbanizzazione metropolitana intacca le campagne[11]. Essa soprattutto si sviluppa nel “relativismo” d’un piano regolatore. Modernamente, chi vive in città avrebbe una mobilità di stampo nomade. Si frequentano più case; i percorsi in bus o metropolitana sono rapidi e parecchio ripetuti. Alla fine, ci sembrerà che non possediamo più un “nostro” luogo. Nella città contemporanea, l’uomo si muove in maniera centrifuga. Ci mancherà il “fuoco” della dimora personale. Per Luisa Bonesio, grazie alla metropoli un uomo si muove dentro il “deserto” dell’urbanizzazione omologante[12]. Si perde principalmente la percezione “ospitale” della naturalità in campagna.
Forse l’urbanizzazione contemporanea tende ad addensare il più possibile le costruzioni. Il nostro occhio non si distenderebbe tra il verde dei prati e l’azzurro dell’aria… Fondamentalmente i grattacieli “schiacciano” l’urbanizzazione, ed impediscono di percepire ogni impressione sulla profondità. Il verde dei prati e l’azzurro del cielo sarebbero dei colori “a sedativo”, nella distensione d’un paesaggio. Il grigiore dell’urbanizzazione conferma l’appiattimento del cosmopolitismo, per cui nella massa nessuno rivendicherà le sue preferenze. L’architettura che “ci schiaccia” però sembra “eccitare”, mentre noi la temiamo. In città il giallo delle luci mette in allerta, contro l’oscurità dei vicoletti.
Ma, per Carlo Michelstaedter, la società contemporanea tenderà ad eliminare (tramite le sue istituzioni) l’intelligenza e la “fatica” del momento, quando noi dobbiamo superare un imprevisto. La “sicurezza” della riflessione concettuale consentirà letteralmente il “trasporto” della caducità materiale sull’universalità astratta. Un marinaio ad esempio sarebbe più esposto all’imprevedibilità della vita. Trattenendo la vela od il timone della barca, egli dovrà riequilibrare il vento sul mare. Non sarà mica facile vincere il pericolo del naufragio… Il viaggiatore del transatlantico, urtante uno scoglio, perderà ciascuna certezza verso la “prepotenza” del tonnellaggio o delle caldaie (che finiranno a picco nell’abisso, e come un piccolo sasso)[13]. Ovviamente la moderna abitabilità è protettiva anche nell’indistinzione fra “le onde” dei tetti condominiali. Carlo Michelstaedter precisamente criticava la cristallizzazione del benessere sociale. Ciò valeva ad esempio tramite la tecnologia, la quale avrebbe “rammollito” gli uomini, nelle situazioni d’emergenza, quando una manualità sarebbe servita loro.
La contemporaneità sviluppa una percezione del “galleggiamento” che scansa “l’inabissarsi”, ad esempio perché la concorrenza del mercato favorisce lo “zapping” fra i vari prodotti in vetrina. Ma, in chiave soltanto tecnologica, pensiamo al personal computer, al televisore, al display elettronico ecc… Nessuno tiene una relazione faccia a faccia con simili oggetti. Il personal computer, il televisore, il display elettronico ecc… si mostrano dentro una dimensione fisica di tipo per così dire “galleggiante”. Quegli oggetti hanno piuttosto un’interfaccia, dove in teoria la nostra percezione paradossalmente potrà “saltellare” a zapping, fra molti gradi di risoluzione, e tutti nell’insieme validi. Paul Virilio ricorda che lì, a dilatare il tempo nella contrazione d’uno spazio, sarà la velocità della diffusione. La stessa architettura del contemporaneo si dà via interfacce. Molti palazzi si riflettono l’uno con l’altro, avendo il vetro oppure il plexiglas. Le porte scorrevoli ci mostrano un ingresso a più “facce”, principalmente in strutture dove le persone cambiano di continuo: gli alberghi, gli uffici, gli stadi ecc… L’estetica della sparizione si baserà sulla rapidità di spostamento.
Francesco Careri cita l’aforisma d’un anonimo, il quale (nel 1959 e riguardo l’Internazionale Situazionista) scriveva < Gli urbanisti del XX Secolo dovranno costruire delle “avventure” >[14]. Contava un nuovo uso del tempo (di contro a quello tradizionale). Per i situazionisti, l’architettura abbisognava di migliorarsi continuamente. I pregiudizi socioculturali sarebbero stati erranti, facendosi costruire e ricostruire. Si dovevano urbanizzare dei labirinti. In quelli, si potevano visualizzare i “camminamenti erranti” d’una coscienza sognante (lontana dal determinarsi, mediante i pregiudizi socioculturali). Qualcosa che avrà la sua miniatura al “rilassamento” della stanza conviviale…
Per Jean Baudrillard, le sedie moderne (come il pouf od il canapè) favorirebbero l’interazione sociale[15]. In quelle, il corpo deve fondamentalmente rilassarsi. L’uomo contemporaneo vive lo stress della settimana lavorativa. Rientrando a casa, di sera, il corpo dovrà dimenticare la sola postura dell’impiegato. Così, il pouf od il canapè virtualmente si faranno stringere, abbracciare, accarezzare ecc… con gli arti! Qualcosa che alleni ad interagire socialmente, prima d’uscire di casa (in tarda serata). Ma come potremmo percepire la virtualità d’un “camminamento errante” per l’arredo? Jean Baudrillard ci ha ricordato che oggigiorno la sedia non gravita più solo intorno al tavolo. Anzi, succede esattamente il contrario… E’ il tavolo a mettersi attorno alla sedia! Qui, Jean Baudrillard pensa al fatto che il mondo capitalistico si basa sulle “posizioni” sociali. Ognuno di noi ha una sorta di “sedia” esistenziale (più o meno importante).
Gaston Bachelard immagina che, scoperto un mobile lavorato armoniosamente, lì il nostro sguardo “prenda una dimora”. L’immaginazione sempre acuirà la sensazione. Il mobile va percepito custodendo gli abiti, le posate, i piatti, i quaderni ecc… Gli intarsi immediatamente acuiscono lo sguardo che vi si posa. Il singolo mobile dunque per Gaston Bachelard sarebbe già in se stesso un “salone del mobile”. Qualcosa che, mediante i propri intarsi, c’inviti ad avere uno sguardo rapido, un orecchio fine, un’attenzione aguzzata.
Nella società contemporanea, a “gravitare” su noi pare principalmente lo stress da lavoro. A casa nostra, quello è apparentemente “confinato” sull’inagibilità d’un vivere “appesi”, mediante l’orologio da parete. Qualcosa su cui al massimo vorremmo “buttare l’occhio”, e di tanto in tanto… Jean Baudrillard ricorda che oggigiorno l’orologio “contadino” (a pendolo) è molto ricercato sul mercato. Esso catturerebbe il tempo “nell’intimità” del mobile. Il tic-tac del pendolo si percepirebbe “consacrando” il ritmo della vita familiare. Qualcosa che regoli il rilassarsi al focolare, dandosi una vena “animistica”.
Per Jean Baudrillard, con la società della frenesia postmoderna (e sotto l’alienazione dello stress) l’orologio a pendolo alla fine sparisce dalle nostre case[16]. Noi lo sostituiremo tramite il display elettronico. Qualcosa da percepire con più tensione. Gli uomini guardano il display principalmente regolandosi col loro count-down esistenziale (negli obblighi di lavoro o familiari). La funzionalità del timer sarebbe quasi emblematica. Con questa, subentra lo stress per l’attesa del momento finale. Il “vecchio” tic-tac dell’orologio a pendolo era certo più “riposante”. Esso consentiva virtualmente di “riecheggiare”… il battito del mero cuore. L’orologio a pendolo si percepiva in maniera più affettiva. Le lancette erano pure racchiuse nel legno. Lo stesso accadrà per l’armadio ad ante, dove nascondiamo i nostri effetti personali.
Per Mark O’Connor, l’orologio Congreve ha una pallina d’argento, che compie un cammino zigzagante, lungo una tavola inclinata alternativamente, e soprattutto riproducendo il Mito di Sisifo[17]. Il tempo sembra una rampa di lancio (dal passato al futuro). Ma quanto la pallina tenterebbe vanamente d’affermare una misurazione? Per Mark O’Connor, l’orologio da parete in casa fungerà genericamente da reliquiario. Noi percepiamo l’abitare in via sempre protettiva. Seduti alla poltrona, il trascorrere del Tempo si farà “intrappolare”. Mark O’Connor cita le antiche piramidi. Forse quelle furono costruite secondo un criterio astronomico, che scandisse le ore da dedicare ai lavori. Mark O’Connor immagina le piramidi a “liofilizzarsi”, fra le stelle ed i deserti. Qualcosa che “intrappoli” l’unione del mondo terreno con quello celeste.
Ma anche le stanze più intime proveranno virtualmente “ad aprirsi”. Così, per Jean Baudrillard nel design contemporaneo gli specchi si svincolano da una funzione solo estetizzante. Non si tratterà più d’appenderli per decorare una stanza[18]. Ciò spiega ad esempio la rinuncia allo sfarzo (in apparenza inutile) nelle vecchie cornici. Oggi, lo specchio serve sul serio a riflettere chi lo guarda! Esso si relaziona esteticamente con tutta la stanza. Per Jean Baudrillard, lo specchio contemporaneo ha una vena essenzialmente spaziale. Esso richiede la precisione d’una luce o d’una parete. Ma quanto conterebbe sul serio pure “un’apertura” verso la propria introspezione?
Pierre Von Meiss ha scritto che la scultura e l’edificio isolato esercitano un “irraggiamento”, definendo attorno a se stessi un campo più o meno preciso. Naturalmente, bisognerà esperirne lo spazio. Sia con lo sguardo sia col… “piede”, noi giriamo intorno ai palazzi ed alle statue. Una percezione “dell’irraggiamento” è favorita dalla prospettiva grandangolare. I palazzi o le statue s’impongono mentre li raggiungiamo.
In via fenomenologica, bisognerà ricostruire la dialettica fra il girare attorno le fondamenta ed il fermarsi alla facciata. Nell’epoca moderna, Emmanuel Levinas ha espresso un sincero “interesse” per l’iconoclastia, senza respingerla. Per lui, il comportamento etico si darebbe amando la nostra alterità ancor prima di conoscerla. Basterà una percezione del “suo volto”, il quale, e pure con l’esperienza comune, racchiuderà in se stesso l’immediatezza d’una persona.
L’alterità si vede nel nascondimento di sé, amorevolmente. Sarà una forma d’iconoclastia positiva. Essenzialmente, il Dio ebraico si dà solo “ritraendosi” da se stesso. Ciò comporta per il credente la testimonianza d’una Fede. Più materialmente, un volto muta da persona a persona, potendo al massimo “ridursi” male, attraverso una somiglianza.
In chiave fenomenologica, ci abituiamo quando conosciamo “al nascondimento”… d’una meccanicità. Ma ad Emmanuel Levinas interessa la familiarità. Tramite questa, una “dolcezza” si diffonde sul Volto Trascendente. La familiarità diventa il manifestarsi d’Altri “al raccoglimento”… d’una meccanicità[19]. Il corollario è il guadagno dell’intimità, percepita dialetticamente “al godimento” d’un abbraccio. Quest’ultimo per Emmanuel Levinas si simboleggerà mediante la Donna. Certo la nostra intimità con lei dovrà mantenersi “alla sua discrezione (riservatezza)” d’un Volto Trascendente. Vi si percepirà il dolce, non il conturbante[20]. La Donna fa dimorare senza “l’anonimato” del suolo naturale, lungi però dal prenderne possesso. L’abbraccio con lei sarà percepibile al “girare intorno” un “dolce affacciarsi”.
L’intimità in seno alla dimora permette il “partire” da se stessi al fine d’affrontare tutte le “sfide” che la vita riserverà “al di fuori”. Ma l’urbanizzazione contemporanea rischia di farcelo dimenticare. La metropoli diverrebbe sempre più “apatica” e convenzionale. Qualcosa che “soffochi” la nostra libertà d’azione personale.
Umberto Galimberti ci ricorda che un perimetro di sicurezza sulla propria casa non serve solo a proteggersi. Diversamente dagli animali, l’uomo sa abitare. Una casa ordina la nostra vita, rispetto alle intemperie della natura[21]. Ma è soprattutto un primo “allenamento”, in funzione della più “aperta” società. Certo il nomade conosce il mondo proprio perché deve mutare continuamente il suo domicilio. L’agricoltore poi traccia la terra (fra i solchi e gli appezzamenti) intorno ad un granaio.
Gaston Bachelard scrive che la casa può farsi abitare come “una crisalide”. Contro la freddezza della sera, quando la luce avrà i cristalli di ghiaccio, noi ripareremo fra le coperte, dormendo. All’alba, la “crisalide” del letto s’aprirà, assieme alle finestre “come ali”, per “l’accensione” del giorno. Gaston Bachelard ricorda che il nostro corpo è pur sempre piccolo. Noi dovremmo proteggerlo del tutto, cosicché la grandezza dispersiva della casa non gli basterebbe. Per la piccolezza del corpo, serve un rannicchiarsi nella “crisalide” del cantuccio: fra il focolare, il letto, la tavola ecc…[22] Gaston Bachelard poi conclude che la nostra casa virtualmente si farà ritagliare come un “abito”, a giusta misura[23]. Ovviamente la crisalide è immaginabile “all’allenamento” del vivere. Subito, anche alla zoologia interesserà il perimetro tracciante una sicurezza.
Gaston Bachelard ricorda che il mollusco ha il privilegio di vivere in funzione dell’abitare. Sin dalla nascita, esso porta con sé il guscio (la conchiglia). Un mollusco vive esclusivamente “in quanto abitante”. Ovviamente la conchiglia funge da vera e propria “casa in miniatura”. Di contro, un uomo deve costruirsi nel tempo l’abitabilità, staccato fisicamente da questa. Il mollusco vive per “farsi casa”, mentre noi “ci facciamo la casa” per vivere. Allora Paul Valery rimpiangerà in poesia la condizione banalmente “utilitaristica” dell’uomo[24]. Di contro, il mollusco vive per l’ideale della “perfezione”, in quanto una conchiglia tende sempre alla simmetria della forma. Qualcosa di simile si dà nello sviluppo d’un fiore o d’un cristallo. Noi invece abitiamo nella casa esclusivamente per proteggerci. Una necessità carica di pragmatismo, e nulla più. Per Gaston Bachelard, almeno, vale pure nell’uomo l’idea che la vita comincia da un “giro”, anziché da uno “slancio”. Ovviamente la conchiglia tende a crescere, avviluppandosi. Tuttavia qualcosa di simile avverrebbe pure nel nostro stato d’embrione. Nel caso del “fortunato” mollusco, il guscio sarà per Gaston Bachelard lo “slancio” d’un “giro vitale” che tenda alla perfezione della simmetria.
Tale immaginazione forse si svilupperà mediante una post-metafisica. Per Martin Heidegger, necessariamente l’uomo “si troverebbe” ad essere, avendo un proprio mondo. Presa una dimora, quasi si percepirà di “cavalcare” l’esteriorità. Sempre ci troveremmo ad essere, “sbattuti” da un presente che già trapassi. Ne deriverà che abiteremo solo “in una zattera” del Mondo. Per Emmanuel Levinas, il singolo uomo non può mai farsi possedere da tutti gli altri. Ciò varrà sia a livello pratico (senza l’incorporazione), sia a livello conoscitivo. Qualsiasi presupposto per cui il singolo uomo sia possedibile (o di contro non possedibile) comunque ne registrerà la presenza.
Evidentemente, Emmanuel Levinas deve respingere l’accentrarsi idealistico. Tutti i giudizi d’una riflessione intellettuale accadano indirettamente, giacché avviati dalla “mera presenza” d’un Altro. Dunque, chi vogliamo conoscere non si farà mai “possedere”. Ma il presupposto per il quale l’Altro è “alla mera presenza” di sé potrà avere una metafora, ed attraverso un Volto Trascendente. Esso si percepirebbe assolutamente “estraneo” alla propria conoscibilità. Il Volto Trascendente d’Altri si darebbe tramite “la necessità del rivolgersi”; e ne deriverà che noi lo potremo unicamente… “vedere” con la mente.
Ma quanto Emmanuel Levinas avrebbe “aggiornato” (in via fenomenologica) l’Idea dell’Infinito, da Blaise Pascal[25]? Il vedere sarebbe un senso “perduto” nella propria spazialità, prima di farsi inquadrare mediante la riflessione intellettuale. Pare che Emmanuel Levinas mantenga se non l’infinità almeno l’eccedenza, nel Volto Trascendente per “mera presenza” d’Altri. Il linguaggio “si banalizzerà” nella comprensione, soprattutto con l’idealismo. Ma il Volto Trascendente per Emmanuel Levinas avrà un senso contestuale od interpretativo, tramite un’interazione “persa” al suo “rivolgersi” (in presenza solo d’uno spazio). Noi non potremo nemmeno guardarlo… e “basta”, sotto l’empirismo. Secondo Emmanuel Levinas, è il Volto Trascendente a manifestarsi[26]. Qualcosa da immaginare come una miniatura per il “dimorare” del Sé, e dove la “prominenza” sull’esteriorità “giri intorno” al suo “riflettersi” per concettualismo. Emmanuel Levinas preferirà “l’innocenza” dell’infinito / indefinito.
Più universalmente, una teoretica post-heideggeriana offrirà una “casa” dell’Essere in cui le immagini metafisiche (del Motore immobile, della Res cogitans, dello Spirito ecc…) non vantino una “prominenza” sulla fenomenologia. Il volto diventa interessante. Quello non servirà tanto ad “avviare” il linguaggio per significazioni interculturali, bensì a “stringere” in un < Guarda la trascendenza sull’impulso a convivere! >.
Bibliografia:
- G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999
- J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004
- L. BONESIO, Oltre il paesaggio, Arianna Editrice, Bologna 2002
- F. CARERI, Walkscapes, Einaudi, Torino 2006
- E. FRANCALANCI, Estetica degli oggetti, Il Mulino, Bologna 2006
- U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006
- E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998
- C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2002
- M. O’CONNOR, Fire-stick farming: selected poems 1972-90, Hale & Iremonger, Sydney 2000
- U. SABA, Trieste, Mimesis, Roma 2013
- P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998
[1] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 155
[2] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 161
[3] P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 90
[4] P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 10
[5] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 54
[6] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 244
[7] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 211
[8] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 80
[9] U. SABA, Trieste, Mimesis, Roma 2013
[10] E. FRANCALANCI, Estetica degli oggetti, Il Mulino, Bologna 2006, p. 142
[11] P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 13
[12] L. BONESIO, Oltre il paesaggio, Arianna Editrice, Bologna 2002, p. 99
[13] C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2002, p. 158
[14] F. CARERI, Walkscapes, Einaudi, Torino 2006, p. 79
[15] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 56
[16] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 29
[17] M. O’CONNOR, Fire-stick farming: selected poems 1972-90, Hale & Iremonger, Sydney 2000
[18] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 28
[19] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 158
[20] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 159
[21] U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 129
[22] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 89
[23] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 90
[24] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 130
[25] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 202
[26] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 205
A PHENOMENOLOGICAL DWELLING WITHOUT THE PROMINENCE OF THE IDEALISM
According to Emmanuel Levinas, the house is a basic condition through which every man can do something. So we will know at the intellectual level, we will preserve our life, we will take the practical decisions etc… All men exist in their world for the reason that they are located in that one. However we have to specify the phenomenology of this situation[1]. The man is located in its living environment for the reason that he has something. Martin Heidegger affirms that everybody of us is essentially “thrown”, at the moment of his birth. This locating according to Emmanuel Levinas also (in the same time) expresses the man at a “property”… in himself. So does the perception of a dwelling move in? More precisely, every man is such given that he allows to “throw” himself in the own world… “starting from himself”. In other words, at our birth we already are “having”. This is a situation where we express the “property… of ourselves”, through the possession of an intimacy. So Emmanuel Levinas opens up to the symbolism. If the man is such for the reason that he “starts”… from himself, the conclusion is that he is going to “dwell”. We repulse the subjectivism of the idealism. On the contrary, the awareness of somebody happens only for the reason that it can “dwell”… on the own world of life.
In a phenomenological way, a house is always perceived through the objectivity. Something that poses itself in a way completely exterior, only delimiting itself “from the outdoor”. If the essence of dwelling will not come from the idealism, we also will have to avoid its conditioning on a realism. We remember the classic metaphor of barricading ourselves inside home. There we will connect the intimism of finding ourselves again… But that situation is possible only because initially a very concrete habitability happens. Equally the dwelling does not seem “featureless” as the earth, the air or the light. These elements are well perceived in the materiality of our living. According to Emmanuel Levinas, the house symbolizes the phenomenological condition where the man allows himself “to be thrown” in the own existential world (environment)… “starting from himself”. We however will “have”… an intimacy, also regardless of our will of “barricading” in itself[2]. Emmanuel Levinas does not follow the realism, but rather the phenomenology. A house would express the “possession of the existential condition” for which the man is such because (forever) “is forced… to possess”. Something that “breaks” with the absoluteness also metaphysical of a Totality. On this last one, both the Being and the Nothingness dialectically risk coinciding each other. However the dwelling symbolically allows that a man is born. Somebody who “is located” to exist only “in the property… of himself”.
But how much will the life have as its metaphor “a barricading by the interfaces” of a flame? The interiority often is thinly concealed (through the emotive reactions). According to Paul Virilio, a pleasant hearth would well symbolize a residence in the own dwelling[3]. The contemporary architecture loves to be perceived “in the interface” of itself[4]. Many buildings, having the glass walls, will reflect each other.
Paul Virilio imagines that in this way the contemporary architecture shows a “hearth” of the sky. The interface has to be perceived in the concavity or in the convexity of the own reflection. Aesthetically, that will be the evolution of an electric light bulb (invented by Thomas Edison). Its concavity or convexity only material (from the glass bulb) would arrive even to abstract from itself, and on the intermittence of an advertising sign (typical of the metropolitan buildings).
We like to “barricade” on the mind, when we think. We will wait for an idea which “turns on as a light bulb”, after the “rise and fall” of a reasoning. According to Gaston Bachelard, sometimes a bedroom is not only a door, but rather a door… and three steps. We can say that, through the remembrance, the thought will have an own rise and fall. Our house always shields us. The bedroom where we climb up would allow the exterior world to be for us, complicit a panoramic view (at 360°). Instead, a cellar would symbolize an own “descent” in the introspection.
According to Gaston Bachelard, it’s important to say that man is not allowed to live… in only one “floor”[5]. The memory indeed will climb up or descend, between the “rootedness” in the past and the “buds” for the future. So, the life will never be “dulled” in itself. Gaston Bachelard criticizes the modern urbanization, with the buildings attached each other (without the “fronds”), and only laid down on the asphalt (if the roots however “sink”). Aesthetically, there will a “levelling down” be also on the… “relaxation” of a “panoramic view”?
According to Paul Virilio, often some contemporary buildings are turned on through the doorways which allow people to circulate. In the scope of architecture, a clear distinction between a dimension of the public and a dimension of the privacy will go out. We mention the anti-theft doorways in the shops, the motorway toll booths, the turnstiles at a stadium etc… Crossing those, actually it seems that we don’t go anywhere. A clear distinction between an internal space and an external space will be lacking. According to Paul Virilio, that situation leads to a so-called aesthetics of disappearance. The inhabitants are no longer present, replaced by the individuals perpetually in transit. Something that will allow us to forget the oxymoron of a “relaxing hearth”, with the relatives or the friends, after we get home from work.
In the contemporary life, a social status can help to determine the consumption of a certain product. Something that we perceive in a horizontal way. In fact, statically only a few people will consume the quality products, to which the majority of people could not “climb up”. According to Jean Baudrillard, the advertisement has a subliminal “imperative”. That invites us to buy a certain product, because < We will be evaluated by… >, or because < Always we accept that one in somebody who… >. According to Jean Baudrillard, the advertisement is based on the perception of a standing[6]. We will accept that a status symbol has always to be claimed. Something that we perceive in a vertical way, and from an imperative essentially advertising[7]. Its “building” will end “barricading us” in the anxiety of a social massification (by the trends that we could not personalize).
In nature, maybe the verticality will become less “demanding” at the sight… According to Gaston Bachelard, easily we would dream that the houses exist even between the flowers. At least, we can think the same in a poetical key. Jean Laroche writes that the peony is an uncertain house, where everybody finds again the night. More generically, in a flower’s corolla our look will dwell. The red peony certainly will allow some insect to fall sleep, at night[8]. We mention also the lyricism of Jean Bourdeillette. According to him, a poppy or a peony would be a silent paradise.
We mention the poem Trieste, by Umberto Saba[9]. There, he describes to climb a slope, closed by a low wall. Trieste would have a rough grace, as the same in a bad guy, whose hands are too much big to offer a flower. Something that we perceive at the “caress” of a wall. According to Umberto Saba, Trieste would be principally made by nooks. An affection for the hometown will be perceived in the heaviness of an “urban” caress. Between the corners, Umberto Saba will tend to think and to rethink, seeming shy with the others. More in general, will an urbanization “naturally floral” belong to the old villages?
Sonia Serravalli imagines that her foulard flies, and into the loved man. That will happen not by a nostalgia, but by a magic. A foulard however uncovers its “shriveling up”. So it “would revitalise” every “loss” through the wrinkling. According to Sonia Serravalli, the foulard glides over the glasses, and so including the world. Principally the buildings are perceived “shriveling up” their overflying. Every man feels the impulse to dwell. Could the foulard end its flight on the “ventricles” more transparent of a love?
Of course a house symbolically conceals a “decor” of “hearts more or less emotive”. Ernesto Francalanci writes that every door “shows off” its handle[10]. Essentially, this situation is about something that we have to take. In the same time, a handle would be perceived more symbolically “at the hospitality”… of itself. Before we cross a door, we have to tie us round that one. That is something useful for hospitality. But how much will a handle release “the emotionality” from a “ventricular shape”?
The city urbanization risks allowing houses to lose the own authenticity, “killing their soul”. The local strategic plans “flatten out” the styles, immediately lifeless by their perception. The metropolitan urbanization undermines the farmlands[11]. That one principally develops itself in the “relativism” of a local strategic plan. In a modern way, somebody who lives in a city would have a mobility in a nomadic way. We attend many houses; the itineraries by bus or subway are rapid and very repeated. Finally, we will seem unable to possess whatever place “for us”. In the contemporary city, the man moves in a centrifugal way. We will be lacking of the “fire” of a personal dwelling. According to Luisa Bonesio, through a metropolis, a man moves inside the “desert” of a homologating urbanization[12]. We principally lose the “hospitable” perception of a naturality, in the countryside.
Maybe the contemporary urbanization tends to thicken as much as possible the buildings. Our eye will not be stretched out between the green of fields and the blue of air… Principally the skyscrapers “press” the urbanization, not allowing to perceive every impression on the depth. The green of fields and the blue of sky would be colours “as sedative”, stretching out the landscape. The greyness of urbanization confirms the flattening of cosmopolitanism, for which in the masses nobody will lay claim to own preferences. An architecture which “presses us” however can “excite”, while we are afraid of it. In a city, the yellow of the lights alerts, against the darkness of little alleys.
However, according to Carlo Michelstaedter, the contemporary society will tend to eliminate (through its institutions) an intelligence and a “struggle” of the moment, when we have to pass the unforeseen. The “security” of a conceptual reflection will allow literally the “transport” of material finitude on the abstract universality. A sailor for example would be more exposed to the unpredictability of life. In a boat, holding on the sail or the helm, he will have to balance the wind on the sea. There the dangerous shipwreck will be avoided with a great difficulty… A traveller in the transatlantic, bumping into a cliff, will lose every certainty about a “presumption” of the tonnage or the boilers (which will sink in the abyss, as a little stone)[13]. Of course the modern habitability is protective also in the indistinction between “the waves” of the condo roofs. Carlo Michelstaedter precisely disapproved a crystallization of the social wealth. That was possible for example through the technology, which would have “softened” the men, in the emergency situations, when a manual skill would have served to them.
The contemporary age develops a perception of a “flotation” which dodges “its sinking”, for example because the competition on the market favours a “channel hopping” between the different products in the window. But, in a way only technological, we think about the personal computer, the television set, the electronic display etc… Nobody of us keeps a relationship face to face with all those objects. The personal computer, the television set, the electronic display etc… show themselves inside a physical dimension in a way so to speak “floating”. Those objects rather have an interface, where in theory our perception paradoxically could “skip” in “channel hopping”, between many degrees of resolution, and all them overall with a value. Paul Virilio remembers us that there the velocity of a diffusion will be able to dilate the time in the contraction of a space. The same architecture in contemporary age happens through the interfaces. Many buildings are reflected each other, having the glass or the plexiglass. The sliding doors show us a threshold with more “faces”, principally in structures where people change continually: the hotels, the offices, the stadiums etc… The aesthetics of disappearance will be based on the rapidity of movement.
Francesco Careri mentions the aphorism of an anonymous author, who (in 1959 and about the Situationist International) wrote < The urbanologists in the 20th Century will have to build some “adventures” >[14]. There a new use of the time (against the traditional use) gained a value. According to the Situationism, the architecture had to improve continually. The sociocultural prejudices would have been wandering, in their building and rebuilding. Some labyrinths had to be urbanized. In those, we could visualize the “wandering walkways” of a dreaming awareness (far from its determination, through the sociocultural prejudices). Something that will have its miniature at the “relaxation” of a convivial room…
According to Jean Baudrillard, the modern chairs (as the pouffe or the canapé) would favour a social interaction[15]. In those, the body has fundamentally to relax. The contemporary man lives the stress for the working week. Coming back to home, in the evening, the body will have to forget the only posture of an employee. So, a pouffe or a canapé virtually will be tightened, embraced, caressed etc… through the limbs! Something that trains to a social interaction, before we go out (in late evening). But how could we perceive the virtuality of a “wandering walkway” for the decor? Jean Baudrillard remembered that nowadays a chair does not gravitate only around a table. In fact exactly the contrary happens… So the table puts itself around a chair! Here, Jean Baudrillard thinks about our capitalistic world, that is based on the social “positions”. Everyone of us has a sort of existential “chair” (more or less important).
Gaston Bachelard imagines that, after we discover a piece of furniture harmoniously embellished, there our gaze “takes dwelling”. An imagination will always sharpen a sensation. A piece of furniture has to be perceived shielding the clothes, the silverwares, the plates, the notebooks etc… The marquetries immediately sharpen the gaze laid on there. So the single piece of furniture according to Gaston Bachelard would be already in itself a “furniture exhibition”. Something that, through the own marquetries, invites us to have a rapid gaze, an acute ear, a sharpened attention.
In the contemporary society, it seems that the stress from work principally “gravitates” around us. In our house, the stress is apparently “detained” on being condemned from a “hung” living, through the wall clock. Something where at most we would “take a look”, and from time to time… Jean Baudrillard remembers that nowadays the “farming” (pendulum) clock is very sought-after on the market. It would capture the time “in the intimacy” of a piece of furniture. The tick-tock of a pendulum would be perceived “consecrating” the rhythm of a familiar life. Something that regulates the relaxation at the hearth, getting an “animistic” vein.
According to Jean Baudrillard, in the society of postmodern frenzy (and under the alienation for the stress) the pendulum clock finally disappears from our houses[16]. We will replace it through the electronic display. Something that we will perceive with more tension. Men watch the display principally to regulate their existential countdown (by the duties at work or for the family). The functionality of a timer would be almost emblematic. Through this one, the stress, waiting for the final moment, moves in. The “old” tick-tock of a pendulum clock was certainly more “relaxing”. It virtually allowed to “echo”… the beat of a mere heart. The pendulum clock was perceived in an affective way. The hands were also enclosed in the wood. The same situation will happen for the wardrobe with shutter doors, where we hide our personal effects.
According to Mark O’Connor, the Congreve clock has a silver ball, which completes a zigzag walk, along a board alternatively sloping, and principally in a reproduction of the Myth of Sisyphus[17]. The time seems a launching pad (from the past to the future). How much will the ball try vainly to affirm a measurement? According to Mark O’Connor, instead the wrist watch at home will function as a reliquary. We perceive the dwelling always in a protective way. Sitting on the armchair, the passing of Time will be “entrapped”. Mark O’Connor mentions the ancient pyramids. Maybe those were built according an astronomical criterion, which scanned the hours dedicated to the works. Mark O’Connor imagines the pyramids in their “freeze-drying”, between the stairs and the deserts. Something that “entraps” a union of the earthly world with the celestial world.
But also the rooms more intimate will try virtually “to open themselves”. So, according to Jean Baudrillard, in the contemporary design the mirrors emancipate themselves from a function only overrefined. That will be no more the case of their hanging to decorate a room[18]. So we can explain for example why we give up to a pomp (apparently useless) in the old frames. Today, a mirror really serves to reflect somebody who watches it! It is related aesthetically with all the room. According to Jean Baudrillard, a contemporary mirror has a vein essentially spatial. It requests the precision of a light or a wall. But how much would really also “an opening” be important, into our introspection?
Pierre Von Meiss wrote that the sculpture and the isolated building exercise an “irradiation”, defining around themselves a field more or less precise. Of course, we will have the experience of its space. Both with the gaze and with the… “foot”, we go around the building and the statues. A perception of an irradiation is helped by the wide-angle perspective. The buildings or the statues stand out while we reach them.
In a phenomenological way, we will have to rebuild a dialectic between going around the foundations and stopping at the facade. In the modern age, Emmanuel Levinas was sincerely interested in the iconoclasm, without repulsing it. According to him, a ethical behaviour would happen loving our alterity still before we know it. So a perception of “its face” will be enough; and that one, also by the common experience, will enclose in itself the immediacy of one person.
The alterity is seen in the hiding place for itself, lovingly. That will be a form of positive iconoclasm. Essentially, God for Jews happens only “withdrawing” from himself. That entails for a believer the testament of a Faith. More materially, a face changes from one man to another man, at most being able to “reduce” badly itself, through a similarity.
In a phenomenological way, we get used to something when we know “at the hiding place”… of a mechanization. But Emmanuel Levinas is interested in the familiarity. Through this one, a “sweetness” spreads itself on a Transcendent Face. The familiarity becomes the manifestation of Others “at the absorption”… of a mechanization[19]. The appendix is the profit of an intimacy, dialectically perceived “at the enjoyment” of an embrace. This one according to Emmanuel Levinas will be symbolized through the Woman. Of course our intimacy with her will have to remain “at its discretion (confidentiality)” of a Transcendent Face. There we will perceive the sweet part, not the perturbing[20]. The Woman allows a dwelling without “the anonymity” of the natural soil, however far from taking possession of it. An embrace with her will be perceived “going around” a “sweet fronting onto”.
An intimacy within a dwelling allows men to “leave” from themselves because they face all the “challenges” that the life will reserve “outside”. However it’s something that we risk forgetting, through the contemporary urbanization. A metropolis would always become more “apathetic” and conventional. Something that “suffocates” our freedom of personal action.
Umberto Galimberti remembers us that a perimeter of security on the own house does not only serve to our protection. Differently than animals, a man is able to dwell. A house orders our life, respect the weather-beaten nature[21]. However this is principally a first “training”, on the basis of a more “open” society. Of course a nomad knows the world exactly because he has to change continually his domicile. Then a farmer traces the ground (between the furrows and the parcels) around a granary.
Gaston Bachelard writes that the house could be resided as “a chrysalis”. Against the evening’s cold, when the light will have the ice crystals, we will take refuge between the blankets, sleeping. At sunrise, the “chrysalis” of a bed will be open, together the windows “as wings”, through the “ignition” of a day. Gaston Bachelard remembers that our body is however small. We should protect it completely, so a dispersive prominence of the house does not be enough to that. Considering the body’s littleness, there a cuddling up in the “chrysalis” of a nook serves to us: between the hearth, the bed, the table etc[22]… Then Gaston Bachelard concludes that we virtually cut out our house… as a “dress”, customizing it[23]. Of course a chrysalis can be imagined “at the training” of living. Immediately, also the zoology will be interested in the perimeter tracing a security.
Gaston Bachelard remembers that a mollusk has the privilege of living on the basis of dwelling. That one from birth brings its shell. A mollusk lives exclusively “because it is an inhabitant”. Of course the shell functions as a real “house in miniature”. On the contrary, a man has to build over time a habitability, detaching himself physically from this one. The mollusk lives to “become a house”, while we “get our house” to live. So Paul Valery will regret in poetry the condition banally “utilitarian” of men[24]. On the contrary, a mollusk lives for an ideal of the “perfection”, because a shell always tends to the symmetry of the shape. Something of similar happens in the development of a flower or a crystal. Instead we dwell in a house exclusively to protect us. This is a need that is loaded with pragmatism, and nothing more. According to Gaston Bachelard, at least also in men the idea for which the life starts from a “turn”, instead of from a “jump”, is important. Of course a shell tends to grow, enveloping itself. However something of similar would happen also in our embryonal state. In the case of a “lucky” mollusk, the shell will be according to Gaston Bachelard the “jump” of a “vital turn” which tends to the perfection of the symmetry.
This imagination maybe will develop itself through a post-metaphysics. According to Martin Heidegger, necessarily the man “would be located” to be, having an own world. Taking a dwelling almost we will perceive to “ride” the exteriority. Always we will be located to be, “beaten” by a present which already passes away. From this situation we will conclude that we will dwell only “in a raft” of a World. According to Emmanuel Levinas, the single man can never be possessed by all the others. That situation will happen both in practice (without an incorporation), and in the level of knowledge. Every prerequisite for which the single man can be possessed (otherwise not possessed) however will notice its presence.
Evidently, Emmanuel Levinas has to reject the centralization by the idealism. All the judgements of an intellectual reflection happen indirectly, because they are started by a “mere presence” of one Other. So somebody, who we want to know, will never allow to be “possessed”. But the prerequisite for which the Other is “in the mere presence” of himself could have a metaphor, and through a Transcendent Face. It would be perceived absolutely “extraneous” to the own knowability. The Transcendent Face of Others would happen through “the necessity of its aiming at”; something that finally we could only… “see” with the mind.
But how much would Emmanuel Levinas have “updated” (in a phenomenological way) the Idea of Infinity, from Blaise Pascal[25]? The sense of sight would be “lost” in the own spatiality, before it allows its framing through an intellectual reflection. It seems that Emmanuel Levinas preserves maybe not the infinity but at least the exceedance, in the Transcendent Face for a “mere presence” of Others. The language “will be trivialized” in a comprehension, principally with the idealism. But the Transcendent Face according to Emmanuel Levinas will have a contextual or interpretative sense, through an interaction “lost” at its “aiming at” (in the presence only of a space). We could not either watch it… “that’s all”, under the empiricism. According to Emmanuel Levinas, a manifestation starts only from the Transcendent Face[26]. Something that we imagine as a miniature for a “dwelling” of the Self, and where the “prominence” on the exteriority “goes around” its “reflection” for a conceptualism. Emmanuel Levinas will prefer the “innocence” of the infinite / indefinite.
More universally, a post-heideggerian theoretics will offer a “house” of Being where the images of the metaphysics (of the Unmoved mover, the Res cogitans, the Spirit etc…) don’t boast about a “prominence” on the phenomenology. A face becomes interesting. This one will not so much serve to “start” a language for intercultural significations, but rather to “tie” through a < Look at the transcendence on the impulse for living together! >.
Bibliography:
- G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999
- J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004
- L. BONESIO, Oltre il paesaggio, Arianna Editrice, Bologna 2002
- F. CARERI, Walkscapes, Einaudi, Torino 2006
- E. FRANCALANCI, Estetica degli oggetti, Il Mulino, Bologna 2006
- U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006
- E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998
- C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2002
- M. O’CONNOR, Fire-stick farming: selected poems 1972-90, Hale & Iremonger, Sydney 2000
- U. SABA, Trieste, Mimesis, Roma 2013
- P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998
[1] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 155
[2] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 161
[3] P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 90
[4] P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 10
[5] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 54
[6] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 244
[7] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 211
[8] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 80
[9] U. SABA, Trieste, Mimesis, Roma 2013
[10] E. FRANCALANCI, Estetica degli oggetti, Il Mulino, Bologna 2006, p. 142
[11] P. VIRILIO, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 13
[12] L. BONESIO, Oltre il paesaggio, Arianna Editrice, Bologna 2002, p. 99
[13] C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2002, p. 158
[14] F. CARERI, Walkscapes, Einaudi, Torino 2006, p. 79
[15] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 56
[16] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 29
[17] M. O’CONNOR, Fire-stick farming: selected poems 1972-90, Hale & Iremonger, Sydney 2000
[18] J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2004, p. 28
[19] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 158
[20] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 159
[21] U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 129
[22] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 89
[23] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 90
[24] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 130
[25] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 202
[26] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, p. 205
Be First to Comment