(courtesy to rivista Kritika, che in origine aveva pubblicato questo articolo)
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A Venezia, per la Biennale d’Arte Contemporanea, era visitabile il Padiglione Internazionale dell’Asia Centrale. Commissionato dallo HIVOS (Istituto Umanistico per lo Sviluppo della Cooperazione), il suo allestimento ha coinvolto la “bella cornice” del Palazzo Malipiero. Il Padiglione “dell’Asia Centrale” precisamente era stato curato da due artisti, trasferitisi in Norvegia: Ayatgali Tuleubek (kazaco) e Tiago Bom (portoghese). Le cinque repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale (ergo il Turkmenistan, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Kazakistan ed il Tagikistan) attraversano un periodo di fermento politico. Il caratteristico “miraggio” dell’occidentalizzazione si scontra con la necessità d’una giustizia sociale. Qualcosa da percepire dentro una conflittualità “invernale”.
Conosciamo la “freddezza” dell’apparato sovietico, la quale, fra le steppe ed i deserti dell’Asia Centrale, si sarebbe “lentamente depositata”. L’inverno sembrerebbe la stagione della vita che “copra” se stessa. Le giornate s’accorciano, favorendo il calare del buio. Con la nebbia, noi percepiremmo “l’appesantirsi” dell’aria. La vegetazione sarà in parte rinsecchita, e comunque l’infiorescenza scarseggerebbe… Solo la “freddezza” della neve conferirà virtualmente una “chioma”, coi rami ad “irrobustirsi” nel “lento deposito” della loro linfa. L’apparato politico dell’ex-Unione Sovietica, nei cinque paesi dell’Asia Centrale, oggi “fermenterebbe” sotto le conflittualità latenti della steppa e del deserto. Il Mar Caspio, nonostante la sua vicinanza al più “caldo” Medio Oriente, continua a percepirsi freddamente, chiuso come un lago. La vitalità della steppa “calpesterà” se stessa: gli steli della graminacee timidamente “s’inchinano” al vento. L’aridità del deserto “fermenterà” dalle rocce assolate, ma verso l’astrattezza della loro frammentazione.
L’esibizione veneziana al Padiglione Internazionale dell’Asia Centrale è stata intitolata Winter (Inverno), da un poema del kazaco Abay Qunanbayuli (il quale visse nell’Ottocento). La commissione aveva selezionato otto artisti, provenienti da paesi diversi. La percezione “invernale” (cioè latente) della conflittualità certo sociale, ma a volte anche politica, positivamente spunterebbe come l’erba della steppa. Nella democrazia, i diritti civili sarebbero dilatati il più possibile, sotto la “timidezza” del dialogo sociale. Nella steppa, avremo il simbolismo delle graminacee, “inchinate” sotto la condivisione del cielo (cui mancheranno i “ritagli”, fra i rami degli alberi). L’inverno rinsecchisce la vegetazione, ma solo così in primavera si vedrà la favorevole germinazione. Dalla conflittualità politica (quando la popolazione non sopporti più “d’inchinarsi” al governo centrale, fra la “foschia” del malessere sociale), poi potrebbe aprirsi la condivisione d’una coscienza civile. La percezione della steppa, dunque, sarà “freddamente” (astrattamente) depositaria d’una “timida” germinazione, in cui la singola persona rinunci a se stessa. Bisognerà rientrare nella comunità. Lo stelo della graminacea ci parrà simbolicamente “inaridito” solo nella “frammentazione” più positiva del pensiero democratico, sopra la grande “distesa” dell’aggregazione sociale. La politica non può impedire la “conflittualità” del governo: la minoranza resta! Quantomeno, seguendo una coscienza civile, si deve “dilatare” al massimo il “rientro” sulle proprie idee (favorendone l’aggregazione sociale). Esteticamente, la percezione “invernale” della steppa o del deserto ha il simbolismo della “primavera” politica. Le graminacee “si frammentano” per aprirsi alla condivisione del cielo. Le rocce desertiche si depositano lentamente, come la coscienza civile dalla conflittualità sociale.
A Venezia l’artista Aza Shade (cresciuta in Uzbekistan ed in Kirghizistan) ha esibito una videoinstallazione. In quella, si racconta il conflitto generazionale, fra due donne. Precisamente, una madre ricostruisce una sorta di “siparietto” etnografico. Ad esempio, lei distende un tappeto, all’aperto, “decorando” la terra molto solitaria. Si vede la profondità della steppa, tagliata centralmente da un binario morto. Qualcosa che per noi ospiterebbe un piccolo carrello, terminante in riva all’acqua, dove la comparsa d’una barca in legno avvierebbe il commercio del pesce. Si vede anche un ripostiglio (che forse conterrebbe i remi, le corde, le reti ecc…). Una bicicletta del tipo a “Graziella” favorirebbe l’attività commerciale. In realtà, la madre si percepirà nella mera “sussistenza” del proprio “siparietto”. A lei interessa immortalare l’ambiente circostante, per venderlo banalmente come la più economica cartolina da viaggio. I turisti avrebbero dovuto fotografare il tipico “siparietto” della pesca, forse? Naturalmente, c’è la desolazione della steppa, anche un po’ paludosa. Qualcosa che scoraggi l’inoltrarsi avventuroso dei turisti… Non si percepisce il marketing delle cartoline da viaggio, bensì la sussistenza della loro fissità spaziotemporale. Così, la figlia contesterà la “presunzione” della madre. Bisognerà abbandonare il tradizionalismo etnografico. La figlia avvierebbe un vero commercio, scambiando i vestiti locali (“astrattamente” lunghi), per importare quelli occidentali (corti, e dunque più “sbarazzini” o perfino sexy). Esteticamente, è la metafora d’una conflittualità freddamente latente nella “steppa” dell’autorità. La madre, cercando d’immortalare l’ambiente circostante tramite la sua “cartolina”, si limita a “depositare” i valori tradizionali (che lei accetta a prescindere). Un “laccio” che la figlia di contro spezzerebbe, così da emanciparsi. La barca ha un suo simbolismo, esteticamente. In quella noi salpiamo, perdendo gli ancoraggi alla terra. La barca affronterà la grande distesa dell’acqua, dove la “ristrettezza” dell’uomo s’aprirà alla “condivisione” del cielo. La madre invece resterebbe ancorata al “binario morto” del tradizionalismo soltanto “ingenuo” (incapace d’ammodernarsi), soprattutto mistificandolo in via quasi “esotica” (con la complicità dei “fotoamatori” in tour). Il tappeto sembra davvero “intimidito”, decorando il rifugio dei pescatori nella sua “germinazione” stantia, per la maniera del “siparietto”. Nella videoinstallazione di Aza Shade, le tipiche graminacee della steppa farebbero “starnutire” la fissità del tradizionalismo. C’è un fotogramma in cui la figlia pare caricarsi virtualmente sulle spalle il “peso” della barca, ormai inutilizzabile… Uno starnuto accade all’improvviso, come lo “sbotto” contro l’autorità (anche genitoriale, per l’adolescente). Esso si trascina, mentre qui la figlia “cavalcherebbe le onde” soltanto sconosciute (e dunque imprevedibili) del marketing occidentale. C’è un fotogramma sul pontile ligneo, sopra il ghiaccio. Vi passano le due donne, in bicicletta (dallo sfondo verso di noi). Nelle zone più fredde della Terra (come fra le montagne del Kirghizistan, lo stato che Aza Shade rappresentava, alla “Biennale” di Venezia) il permafrost causa “l’ondeggiamento” delle costruzioni artificiali. Qui tornerà la percezione imprevedibile o sconosciuta della “germinazione” invernale, che simbolicamente frammenti il “deposito” del tradizionalismo, confidando di “dilatarlo” nella “primavera” del conflitto democratico.
Emil Cioran ha avanzato una filosofia dove “s’ironizzasse” fra l’esistenzialismo ed il nichilismo. Per lui, l’Essere si percepirebbe nel proprio “sospetto”. Con la fenomenologia, noi sempre ci poniamo verso qualcosa. Si ha coscienza d’un tavolo, d’un numero, d’un desiderio, d’un ideale ecc… Per Cioran, tale necessità del posizionarsi su qualcosa (tanto materiale quanto astratta) si percepirebbe in via “sospettosa”. L’Essere pare a “ritirarsi” da se stesso, continuamente, tramite la coscienza dell’uomo. Sospettando, noi ci poniamo verso qualcosa che “si nasconda”. Se un tavolo, un numero, un desiderio, un ideale ecc… è comunque (per la nostra coscienza), allora tutti quelli “s’annulleranno” fra di loro. Noi li percepiremo nel “ritiro” da se stessi. Possiamo unicamente “sospettare” che esista la totalità, perdutone il riferimento alla parzialità. La dialettica si percepirà in via nichilistica. Se un tavolo, un numero, un desiderio, un ideale ecc… è comunque (per la nostra coscienza), allora una semplice esistenza “fonderà” l’universalità dell’essenza. Chi sospetta non ha bisogno di conoscere (in via concettuale). Gli basterà che qualcosa “si ritiri” da se stessa, essendo “comunque” (tanto realmente quanto solo virtualmente). Così, l’esistenzialismo di Cioran si percepisce in via “negativa”. Chi sospetta inevitabilmente ha una certezza solo nella mancanza di se stessa.
A Venezia, gli artisti Kamilla Kurmanbekova ed Erlan Tuyakov (entrambi nati in Kazakistan) esibivano un’installazione, riconfigurando la tradizionale yurta. Con questa, s’intende l’abitazione mobile adoperata dai popoli nomadi, nell’Asia Centrale. Normalmente, nella yurta s’assemblano più segmenti di legno, dai loro incroci ad ‹ X ›, impiantandoli in cerchio. Per la copertura sovrastante, funzioneranno le stuoie ed i tappeti di feltro. I due artisti hanno accresciuto la nostra percezione nomade della yurta. Sopra l’incrocio dei segmenti lignei, il feltro può aprirsi (ad impedire virtualmente la protezione dagli agenti atmosferici). Il visitatore del Padiglione camminerà dentro la yurta. Questa non si percepirà più nella sicurezza del cerchio “accogliente”, bensì “nell’incognita” di trovare l’uscita. La yurta degli artisti kazachi sarebbe solo transitoria. Non la potremmo abitare neppure per una notte… Avendo la “novità” del corridoio, la yurta si riconfigurerà come una “ciambella”! Esteticamente, noi percepiremo il suo “ritiro” in se stessa. Tramite il nomadismo, si vive nel contempo dappertutto e da nessuna parte. Solo chi abita stabilmente non può nascondersi. I popoli nomadi “si ritirano” di continuo, “sospettando” che la “semplice esistenza” fondi l’essenza della totalità. Loro si fanno vedere “solo negativamente”, mancando a se stessi. I due artisti dal Kazakistan ci aiutano a percepire “l’incognita” del nomadismo. La yurta di Venezia ha il feltro aperto, e la “ciambella” rientra in se stessa, come “l’ipnotica” spirale. E’ suggestivo sapere che normalmente i pali s’incrocino tramite la ‹ X ›: la lettera dell’incognita. Il visitatore del Padiglione, entrato nella yurta, “sospetterà” il suo disagio, mancandogli la protezione (per il feltro aperto ed il corridoio spiroidale). Sarà meglio ritirarsi all’esterno. Simbolicamente, la yurta di Venezia potrebbe accusare il rischio dello stanziamento socioculturale. Solo chi “nasconda” i suoi pregiudizi “all’esterno” accetterà “d’aprirsi” all’incognita della loro condivisione. Il nomadismo, comunque, favorisce l’incontro!
Per Cioran, le idee (le essenze) letteralmente si ritirerebbero dalla loro particolarizzazione, fra gli enti. Noi avremo il “sospetto” che i secondi “unicamente manchino” le prime. Un esistenzialismo che le idee (o le essenze) dovranno negare, giustificando la loro “preminenza”. Cioran ha aggiunto che la vita si percepirebbe come la deviazione e l’avvilimento dell’Essere. La nascita si rassegna alla morte. La seconda “si nasconde” sul “ritiro” della prima. Se il tavolo, il numero, il desiderio, l’ideale ecc… sono “comunque”, così da negarsi fra di loro, allora quelli, riuscendo a vivere, avranno in aggiunta il “sospetto” che la morte “unicamente manchi” la nascita. Naturalmente, Cioran pensava al caso ben più realistico dell’uomo. La nostra vita “svilirebbe” il “sospetto” universale dell’Essere (continuamente “negato” dalla sua particolarizzazione), attraverso “il doppione” della morte che “manchi” la nascita. L’uomo però non può resuscitare, almeno sulla Terra, come le stagioni. Per Cioran, noi “sviliremmo” l’Essere.
Al Padiglione “dell’Asia Centrale”, il fotografo giapponese Ikuru Kuwajima aveva rappresentato di nuovo il Kazakistan (paese in cui lui vive da tempo). Esteticamente, egli ama molto il paesaggio architettonico. Nel 1997, il governo del Kazakistan spostò la capitale ad Astana. Furono alzati più grattacieli, attraverso i quali la vita civile doveva percepirsi nella “tropical resort” di se stessa. La vegetazione abbondò di palme, lungo i piani dal pavimento addirittura sabbioso. Qualcosa che contrastasse le temperature tipicamente rigide del Kazakistan, nei mesi invernali. C’è una fotografia di Kuwajima in cui percepiamo il paradosso della “megalomania” architettonica, innanzi alla “povertà” del terreno stepposo. Tre grattacieli paiono spuntare come i funghi, dal “fogliame” delle case più vecchie. I vetri avranno uno “squarcio” centrale, che li ricolori calorosamente (tramite il giallo). La sua “sinuosità” contribuisce ad “insabbiare” la rigidezza del clima invernale. Nello scatto di Ikuru Kuwajima, la steppa innanzi ai grattacieli è innevata. In primo piano, qualcuno avrebbe impiantato la sua tenda. Nasce così il contrasto alla magnificenza dei grattacieli. La tenda, complice il gelo invernale, si percepirebbe come un igloo. La neve copre in maniera omogenea, diversamente dalla sabbia in spiaggia (che può ondularsi, esposta al vento). La scelta d’urbanizzare coi grattacieli “tropicali” andrà a “svilire” la povertà della steppa, avendola inutilmente raddoppiata. Pare che si voglia giustificare la mancanza d’un clima adatto al benessere, “dichiarandola” apertamente. Se le case più vecchie “si seccassero” come il fogliame, sotto la rigidezza invernale, allora i grattacieli le “devieranno” (tramite la sinuosità del vetro) sino a farle “resuscitare”, sognando il dolce “accartocciamento” della duna tropicale. Una steppa manca a se stessa, percependo che questa “si rassegni” alla condivisione del cielo, dilatato al massimo (senza le chiome alberate), “nell’inchino” degli steli. Allora, è completamente inutile (e “svilente”) raddoppiarne la negazione, dichiarata dal “sogno” d’una risurrezione… sulle dune tropicali. Anche queste “s’inchinerebbero”, ma nel benessere del calore vitale.
Più in generale, converrà che “si sottragga” ogni grandezza al pericolo della sua magniloquenza. Il “doppione” della morte, che manchi la nascita, andrà a “svilire” l’Essere con l’intellettualismo della coscienza. Le idee (le essenze) “si rassegneranno” alla loro inutilità, annullando le particolarizzazioni sotto la “magniloquenza” dell’universale. Per Cioran, invece l’Essere più semplicemente “sottrarrebbe” (ritirerebbe) se stesso, differenziando la realtà. Manca completamente il “carico” d’un finalismo, di contro alla vita (quando la nascita cresce per la morte). L’Essere si pone per il suo “nascondimento” (differenziando la realtà), mentre la riflessione concettuale ci “nasconde” il suo porsi (sotto la “pienezza” dell’idealismo). Per “sottrarre” una grandezza al pericolo della magniloquenza, noi principalmente ironizzeremo sulla prima, “nell’insonnia” o nell’eresia della seconda. Sia “convinti sinceramente” da qualcosa, sia di contro “criticandola”, questa si percepirà nel “carico” della nostra inutilità, giacché noi strettamente non le apparterremmo. Cioran preserva sia l’esistenzialismo sia il nichilismo.
Gli artisti Anton Rodin e Sergey Chutkov (entrambi nati in Tagikistan) avevano scelto le pareti del loro padiglione per appendervi una serie di missive. Queste sono state realmente scritte, da diverse persone. Più precisamente, gli artisti avevano coinvolto i loro conoscenti nel Tagikistan, chiedendo loro come se la passassero. Le lettere ci raccontano d’un tessuto sociale abbastanza problematico. Il Tagikistan, lasciata l’Unione Sovietica, purtroppo dal 1992 al 1997 conobbe la guerra civile… Ai due artisti, ora interessava un giudizio complessivo, sviluppato da connazionali d’etnia e cultura differente. C’è un mittente che ad esempio pare rassegnato: un’altra guerra civile potrebbe aprirsi da un momento all’altro, mentre le forze internazionali di pace chiederanno senz’altro “qualcosa in cambio”… Prettamente, lui si lamenta che ai giovani tagiki nessuno insegni la protesta solo pacifica, rispettando la democrazia. Tutto deriverebbe da un “disfattismo” generale, allorché non si creda più a nulla. Un secondo mittente avverte il contrasto fra le bellezze del Tagikistan (ricco di frutti, cotone, verdure ecc… intorno alle montagne sempre imbiancate) e l’emigrazione dei suoi connazionali, per la maggiore in Russia. Persino si scapperebbe per futili motivi (contro l’alta tassazione, e la mancanza del riscaldamento o dell’elettricità). Ma vivendo altrove alla fine non cambierebbe nulla: si rischierà d’affrontare i medesimi problemi. Esteticamente, le missive raccolte da Anton Rodin e Sergey Chutkov ci faranno percepire il Tagikistan nella “sottrazione sociale” di se stesso. Il popolo sarebbe negativamente “rassegnato”. Alla sottrazione degli “agi” civili (come l’elettricità oppure il riscaldamento), corrisponderà “l’insonnia” dei valori in cui credere. La stessa “protesta” dei connazionali qui accade un po’… “di nascosto”, tramite la loro spersonalizzazione sulla missiva. Quantomeno, il “ritiro” della posta diventerebbe “eretico”. Agli occhi dell’arte, la coscienza civile dei tagiki ora maturerà, contro il loro farsi “rinchiudere” in casa, da parte dei politici più estremisti (colpevolmente incapaci di democratizzare il paese). Le missive a Venezia erano state appese al muro. Qualcosa da percepire in via quasi “eretica”.
Nel convincimento a prescindere, la vitalità “si sottrae” alla “pienezza” della profondità. La marionetta trascina il mero “nascondimento” della sua essenza. L’eretico vorrebbe liberarsi da qualche codice. Ma questo si giustifica proprio “osando” a demitizzarlo… In entrambi i casi, noi percepiremo l’ironia sulla grandezza “sottratta” alla propria magniloquenza. In via nichilistica, Cioran scrive che l’uomo dovrebbe vivere fondendo la rassegnazione con l’estasi, fra la “freddezza” dello stoicismo e l’invasamento della mistica. Un sospettante si pone verso il “mero nascondimento” di qualcosa. Sarà facile percepire il “freddo invasamento” del suo dubbio. Sospettando qualcosa, questa “si ritirerà”, dalla realtà verso la virtualità.
A Venezia, l’artista Vyacheslav Akhunov (nato in Kirghizistan) aveva riportato una vecchia installazione del 1976. Questa voleva ironizzare sulla “falsa magnificenza” della propaganda politica. Negli anni ’70 si conosceva il regime sovietico… Ingrandite in via quasi “architettonica”, le lettere dell’alfabeto cirillico si percepiranno nella propaganda di se stesse. Oggi Vyacheslav Akhunov vive in Uzbekistan, dove secondo lui la politica non potrà rischiare il ritorno alla banalità del regime. Così, egli sceglie di recuperare la vecchia installazione del 1976, attualizzandola. Nel convincimento a prescindere, assuefatti dalla propaganda, le persone vivranno passivamente, come le marionette… E’ la “sottrazione” dell’individualità, rispetto al codice “cubitale” della società. L’installazione lignea di Vyacheslav Akhunov evoca la “freddezza” dell’architettura sovietica. Forse, soltanto lo spiritualismo geometrico di Tatlin (col suo Monumento alla “Terza Internazionale”) avrebbe scosso il vissuto “spartano” (o rassegnato!) della dialettica marxista, oltre l’apparato dell’ideologia. Nel contempo, l’installazione di Vyacheslav Akhunov si percepisce come sottilmente “invasata”. Con il carattere cubitale, il codice della società guadagnerebbe in “segretezza”, toccando persino il Cielo. Pare che le lettere dell’artista abbiano uno sguardo “oracolare”. Simbolicamente, noi dovremmo almeno sospettare che la “falsa magnificenza” della propaganda ancora esista, in certi paesi del mondo. Così, “l’oracolo” di tali lettere si percepirà nella segretezza d’un monito, per le nuove generazioni.
L’ipnotizzato o l’insonne si nasconderà “stoicamente” all’invasamento della sua “profondità”. L’eretico “sospetterà” che la “rassegnazione” alla realtà (costruita sui pregiudizi socioculturali) più “freddamente” debba “ritirarsi” nella virtualità (“negata” dalle situazioni contingenti). Se qualcosa ci convince, o la critichiamo, allora essa “invaserà” la nostra inutilità, ironicamente. L’ideale, il numero, il tavolo, il desiderio ecc… sono comunque, e questo si percepirebbe “sospettosamente”, parendo che ciascuna differenza “si ritiri” da se stessa. L’insonne o l’eretico vive la “freddezza” dell’invasamento. Cioran ama il nichilismo dell’autoironia! La “freddezza” dell’invasamento si percepisce in chiave paradossale. Se la realtà “nasconde” (nega) in se stessa la propria virtualità, ciò si farebbe quantomeno “ritirare” (sottrarre), tramite il “carico” profondamente inutile sia della “rassegnazione” (nell’insonnia) sia della “sospettosità” (nell’eresia).
Al Padiglione “dell’Asia Centrale”, era stata invitata pure l’artista Saodat Ismailova (nata in Uzbekistan). La sua videoinstallazione ha una ragione abbastanza personale. Da bambina, l’artista veniva svegliata dalla nonna, d’inverno, riconoscendo l’ultima “stella” in cielo: Venere. Si tramandava che là misteriosamente fosse ricomparsa una ragazza. Perse le fattezze umane, lei in seguito poteva solo risplendere. A Venezia, la videoinstallazione dell’artista ci mostra proprio una ragazza, coricata a letto. Il ricorso all’inquadratura fissa favorisce la nostra percezione d’una vitalità in letargo. Subito, il visitatore penserà che lei non s’alzi più, in tutta l’apertura giornaliera del padiglione… Esteticamente, noi percepiamo che il letargo permetta alla vita di “ritirarsi” nell’invasamento di se stessa. Chi sogna ha i pensieri rasentanti sull’intimità, interamente preso dalla sua coscienza. Nel letargo, più “freddamente” la vitalità tenderebbe a ritirarsi. Accettando il mito, la ragazza addormentata in terra si risveglierà solo fra lo splendore di Venere. Un pianeta bollente, e tuttavia dentro la “freddezza” dell’alba (né annullante per il buio, né differenziante al chiaro). L’ultima “stella” della notte si percepirà nella sua “insonnia”. A qualcuno parrà che la videoinstallazione dell’artista ci mostri una vitalità rassegnata. Ma il “ritiro” del letargo, almeno secondo il mito, porterà la ragazza a farsi invasare, tramite il “freddo splendore” di Venere.
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