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Vita di Anselmo d’Aosta
Durante il medioevo alcuni chierici andavano di città in città per diffondere la parola di Dio oppure erano dei letterati, teologi o filosofi costretti a dirigersi in centri diversi dalla loro città natale per potersi confrontare apertamente su temi di difficile fruizione. Questo ruolo dell’intellettuale vagabondo è ricoperto da moltissimi filosofi nel medioevo, tra cui Anselmo d’Aosta. Con Anselmo non ci troviamo di fronte a un teologo come oggi s’è soliti indicare, infatti, la teologia razionale sarà materia di “riflessione rigorosa” a partire dalla canonizzazione della riflessione da parte di Tommaso d’Aquino. Anselmo nacque ad Aosta nel 1033, fu discepolo di Lanfranco di Pavia e si trasferì nell’abbazia benedettina di Beck in Normandia. Qui compose le sue opere più importanti. Strinse amicizia con l’allora arcivescovo di Canterbury al quale successe nel 1091. In questo ultimo periodo ebbe difficili rapporti con il Potere inglese sull’argomento centrale in quel tempo: la lotta per le investiture. Morì nel 1109 a Canterbury.
Opere
Monologion.
Proslogion.
De grammatico.
De veritate.
De libertate arbitri.
De casu diaboli.
Epistole de incarnatione dei cur deus homo.
Schema di ragionamento della prova ontologica
Ipotesi A(nselmo)1: “Dio è l’essere di cui non si può pensare il maggiore”.
Specifica a: il predicato “essere di cui non si può pensare il maggiore” si può riscrivere nei termini di “essere più grande”.
Specifica b: l’”essere più grande” è una pseudoproposizioni giacché essa non denota nulla. (1) “essere” non è un “nome proprio” né una “descrizione definita”, dunque, è come usare un quantificatore senza specificare cosa quantifichi, (2) “più grande” è una relazione tra due grandezze, dunque, se non si specificano le due grandezze allora la relazione non ha senso. Dire “l’essere più grande” è come dire “il qualcosa maggiore di”.
Specifica c: bisogna concepire l’ipotesi in via intuitiva.
Ipotesi A2: Di un entità finita si può pensare qualcosa di più grande.
Ex.: Un lago è più piccolo di un mare più piccolo di un oceano più piccolo della crosta terrestre più piccolo del sole etc..
Inferenza: Se Dio è l’essere di cui non si può pensare il maggiore, se di un’entità finita si può pensare qualcosa di più grande, allora Dio è più grande di qualsiasi entità finita.
Tesi I: dunque, Dio è più grande di qualsiasi entità finita.
Corollario A: Dio è infinito.
Inferenza: Se Dio è infinito, allora esiste necessariamente.
Tesi II: Dio esiste necessariamente.
Specifica a: Se Dio non esiste allora non è infinito, giacché sarebbe solo una pura essenza ( si può dubitare che Dio stia, ma non che Dio sia-definibile, che Dio sia-proprietà ). Ma “Dio è l’essere di cui non si può pensare maggiore”, dunque dalla sola definizione di Dio segue che egli esiste necessariamente.
Specifica b: il “necessariamente” è posto dalla dimostrazione “logica” tale per cui se fosse negata la dimostrazione, si cadrebbe in contraddizione.
Filosofia di Anselmo d’Aosta
Anselmo d’Aosta fu uno dei padri della scolastica insieme ad Abelardo e Tommaso. Il problema all’epoca più dibattuto era la conciliazione tra fede e ragione. Per lo studio di Anselmo non si può non tenere sempre presente la riflessione agostiniana. Fermo restando che si deve avere prima la fede per capire perché prima si deve aver esperienza di Dio, del Verbo, della verità e solo poi cercare di comprendere la conoscenza del divino, è anche vero che il processo conoscitivo tende costantemente all’infinito.
La conoscenza di Dio non può che essere infinita, secondo Anselmo d’Aosta. La ragione divina infatti contiene la ragione umana la quale non può e non deve far altro che tentare di ridisciogliersi nella mente di Dio. La ragione ha il suo fondamento in quella divina ed in questa si ritrova. La ratio di Dio è il fondamento, la sostanza a cui inerisce la più limitata ragione umana. L’intelletto divino è ciò che rende l’uomo capace di cogliere il divino in se stessi, riprendendo ancora una volta un tema tipicamente agostiniano. E’ Dio, che con il suo gratuito dono della grazia, concede all’uomo la possibilità di ritrovare il senso autentico, un senso divino, che altrimenti sarebbe inaccessibile. Per il cristiano è una duplice ricerca: da una parte l’uomo deve ricercare Dio per comprenderlo e, contemporaneamente, deve accettarne il mistero, dall’altra parte è Dio stesso che, come padre, aspetta il ritorno dell’uomo e l’accoglie in se stesso[1].
Per accettare il divino, l’uomo dovrà capire e cogliersi nel suo limite e accettarsi in questo rapporto di inferiorità tra sé e il Dio. Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma ciò non significa che, siccome parte di Dio, l’uomo sia pure la divinità stessa. L’uomo, comunque, ha doppia scelta, se accettare la fede o meno, mentre Dio non necessita di credere giacché egli sa[2].
La ricerca di Dio è legata a tutte le altre sfere dell’uomo perché se questi accetta la verità della rivelazione essa diventa un’esperienza totalizzante giacché investe tutte le attività, pratiche e conoscitive dell’uomo. L’uomo di fede è spinto a intingere di quella convinzione qualsiasi cosa egli veda e la reinterpreterà con le proprie categorie mentali. Inoltre, il fatto che tale interpretazione si fondi su una ragione ultraterrena, infalsificabile fa sì che il credente non si senta in contraddizione con nulla, nel suo procedere, e giustifichi il suo operato a partire da quell’idea divina e, dunque, indiscutibile.
Dio non è solo una questione di ragione, esso non si disvela esclusivamente a partire dall’intelletto, ma anche dalla sensibilità, intesa nel suo significato prettamente emotivo. Il cristiano vede Dio nel mondo, riflesso nella miseria e nella sofferenza, in primo luogo dalla sua sensibilità: egli ritrova il Dio a partire dal “cuore” e non dalla ragione. Dio da soddisfazione al bisogno del cristiano di amore perpetuo che, secondo i teologi, l’uomo non può trovare che nella divinità.
Il Cristo, su un piano filosofico, è la verità incarnata, l’idea, che nella sua perfezione, rivela se stessa. Se i greci avevano elaborato delle dottrine che non erano totalizzanti, nella loro fede (i miti non erano mai univoci e si prestavano a varianti ed interpretazioni diverse senza mai reclamare la verità assoluta, unica) così non poteva essere per il credo cristiano, in generale (nelle varie interpretazioni possibili) giacché esso si fonda su un unico testo e su un una visione unica della realtà divina: essa è unica e solo lei è dispensatrice della luce. Non a caso, da Agostino a Galileo sono passati ottocento anni, prima che fosse ammissibile una separazione tra Natura e Dio e solo con l’Illuminismo, soprattutto con Voltaire e Kant, vi sarà la definitiva autonomia della Ragione e della conoscenza dalla Teologia razionale e, in generale, da un’interpretazione della Ragione stessa e della realtà, viziata da pregiudizi religiosi[3].
L’etica del cristiano avrà, come premessa, la convinzione di dover diffondere la parola di Dio e il vero credo, giacché esistono molte versioni della fede in disaccordo con l’interpretazione valida di esso. L’azione pratica nasce da due esigenze: in primo luogo, quella di aumentare le anime salvate, in quanto colui che non è cristiano sarà perduto nell’altra vita; in secondo luogo il cristiano stesso, rivedendo Cristo nel povero e nel marcio, deve trovare soddisfazione nell’aiuto del prossimo e nella sua salvezza. Non essendoci verità all’infuori del credo cristiano, tutti coloro che non lo sono, saranno giudicati in modo inferiore, menomato, rispetto ai credenti. Per ciò, vanno aiutati.
La vita deve essere, secondo Anselmo d’Aosta, la ricerca di una conciliazione dei misteri divini, dove Fede e Ragione sono due momenti della conoscenza di Dio.
Ma ciò che rese celebre Anselmo d’Aosta è senza dubbio la sua prova ontologica, ovvero a priori, dell’esistenza di Dio. La sue proposta è quella di riunire in un unico concetto i due significati dell’essere, vale a dire, essenza e presenza. Dio è l’essere di cui non si può pensare maggiore: se posso pensare a qualcosa di più grande di un lago, se posso pensare a qualcosa di più grande di un mare non posso pensare che ci sia qualcosa di più grande di Dio. Se Dio fosse solo essenza senza presenza allora potrei pensare a qualcosa di può grande. Ma Dio è l’essere di cui non si può pensare maggiore allora egli è sia presenza che essenza. In questo senso, dalla sola definizione di Dio (l’entità di cui non si può pensare un’altra più grande) si deduce che esso stia. Esso è e sta (da qualche parte).
Bibliografia
Adorno, Gregory, Verra, Manuale di storia della filosofia ( voll. 2. ), Laterza, Roma-Bari, 1996.
Mori M., Storia della filosofia antica e medioevale, Laterza, Roma-Bari, 2005.
Severino E., Filosofia dai greci al nostro tempo. Filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 2004.
Severino E., Antologia filosofica, Rizzoli, Milano, 1988.
[1] Anche se ciò è tutt’altro che un passaggio logico, dal momento che la Grazia è un dono Gratuito, dunque, non necessario. Su questo punto importante Lutero fonderà una delle sostanziali tesi della sua interpretazione del cristianesimo giacché la Grazia discrimina il buono dal malvagio ed essa è già pre-stabilita da Dio sin dalla creazione. In questo senso, la ricerca dell’uomo di Dio è inutile se Dio non ha già elargito la Grazia.
[2] Dunque, l’uomo deve accontentarsi di credere sulla fiducia, mentre un Dio non avrebbe questo problema perché egli è certo di se stesso. In ultima analisi, in questo rapporto di squilibro v’è tutta la dipendenza dell’uomo al Dio. Ma, a ben vedere, come si può impostare un ragionamento non contraddittorio su questa base? O Dio è conoscibile o Dio è inconoscibile. Se Dio è inconoscibile come posso asserire che egli esiste o non esiste? Se invece Dio è conoscibile allora non v’è più bisogno di credere ma è una verità certa, in qualche modo. Ma ciò contraddice il fatto che bisogna credere in Dio giacché se io so, smetto di credere, giacché so. Dunque, se conosco Dio allora non credo, se non conosco Dio allora non posso crederci giacché esso non è diverso da una qualsiasi entità astratta.
[3] In ciò sta la grande modernità di un filosofo antico come Senofane
[4] Per le due definizioni, rimandiamo alla scheda presente in Parmenide.
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