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Melisso – Vita e opere

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Vita

Nasce a Samo e lì vive, si ipotizza tra il 444 e il 439 a.C.. Pare che, a differenza dei filosofi che abbiamo sino ad ora trattato, tutti abbastanza avversi alla vita pubblica, fu un uomo politico di una certa rilevanza. Fu sicuramente discepolo di Parmenide e di questi riprese diversi concetti, senz’altro l’impostazione generale e i problemi. Invece di sostenere per via indiretta o attraverso l’utilizzo di nuovi metodi argomentativi, come aveva fatto l’altro grande sostenitore di Parmenide, Zenone, Melisso si propone di parlare diffusamente e in maniera più chiara della dottrina del suo maestro. Ma, come spessissimo accade in questi casi, se non sempre, il filosofo di Samo finì per coniare una filosofia affine ma diversa da quella del suo maestro.

Questo è un caso tra i tanti della filosofia, ma capita spesso anche in tutti gli altri campi del sapere, dove uno che volle parlare più chiaramente del proprio maestro finì per creare una cosa nuova: il problema sta nel capire quanto ci sia di ingenuo e quanto di consapevole.

Opere

A Melisso è attribuito un trattato intitolato “Sulla natura” o “sull’essere” del quale ci sono giunti pochi frammenti. Egli si riproponeva di chiarire le dottrine di Parmenide.

Schema di ragionamento

Ipotesi M(elisso)1: l’essere è.

Specifica a: come sappiamo, questa non è una tesi originaria di Melisso. Egli condivideva gran parte delle tesi di Parmenide ed egli infatti si limita a sostenere ciò che, in larga misura, aveva sostenuto il suo maestro. Non deve a questo punto stupire che gran parte dei ragionamenti di Melisso siano sostanzialmente mutuati dalla filosofia di Parmenide.

Ipotesi M2: il non-essere non-è.

Specifica a: a differenza di Parmenide che, come abbiamo cercato di spiegare, ha interpretato l’essere come principio immateriale e, dunque, nel suo lato essenziale (“essere” per Parmenide è l’essere che usiamo per la definizione, che indica l’essenza non la presenza…) e non esistenziale. Melisso invece interpreterà l’essere anche come predicato di “esistenza”, quindi quando Melisso dice: “l’essere è” intende dire che esso è anche materia. Per questo motivo, Aristotele, che aveva in ciò visto molto bene, dirà che Melisso interpretò l’essere parmenideo non come principio logico (per Aristotele “formale”), causa formale delle cose, ma come principio materiale di tutto. In questo Aristotele ravvisa un regresso e non un progresso: la materia, in quanto ha un che di accidentale e ingovernabile è considerata come inferiore rispetto alla forma, nel mondo greco e non solo (per chi fosse interessato all’opinione di Aristotele di Melisso e Parmenide può leggere per il primo anche sotto, alla voce “riferimenti”, mentre per il secondo può andare alla relativa scheda alla stessa voce).

Specifica b: in questa diversa interpretazione del valore dell’“essere” sta quella sostanziale differenza tra Parmenide e Melisso e sarà anche la causa dei diversi attributi dell’essere per l’uno e per l’altro. Infatti per Parmenide l’essere per essere perfetto doveva anche essere finito, compiuto: solo ciò che è finito è completo e non tende ad altro. In questo senso, la perfezione della compiutezza è implicata dalla finitezza ( logica: ciò che è finito è perfettamente limitato ). Per Parmenide non si cade in contraddizione quando si asserisce che l’essere è uno e perfetto e limitato ( attributo che scaturisce proprio dall’attribuzione di perfezione ) e che esso è uno sfero. Questa immagine è, appunto, solo una immagine. Per Parmenide semplicemente non si può predicare altro che l’essere e l’immagine della sfera vuole solo sottolineare la perfezione, non che esista il non- essere: tutto ciò che esiste è l’essere e del resto “si deve tacere”. Al di là della sfera non c’è nulla che possa essere in contraddizione con l’essere.

Per Melisso invece c’è contraddizione, perché egli interpreta l’essere come principio materiale. Se si interpreta in questo modo l’essere, allora si finisce necessariamente per asserire che l’essere è infinito perciò è perfetto (e non l’essere è finito dunque perfetto, già dalle due frasi si vede che la principale si inverte con la consecutiva): infatti se fosse finito allora si ammetterebbe l’esistenza del nulla. Ma ciò è assurdo in quanto nega la stessa esistenza dell’essere.

Potremmo concludere dicendo questo: che Melisso deriva l’attributo di perfezione dall’infinito dell’essere, mentre Parmenide deriva l’attributo di limitatezza dell’essere dalla perfezione. In questo senso i due filosofi invertono la derivazione degli attributi e ciò è dovuto alla diversa concezione dell’essere, per il primo “presenza” per il secondo “essenza”.

Inferenza. Se l’essere è, se il non essere non-è, se l’essere è principio materiale di tutte le cose, se il non essere è nulla allora l’essere è infinito.

Tesi MI: dunque l’essere è infinito.

Specifica a: adesso siamo anche in grado di capire perché gli esperti suppongono che Melisso fosse entrato in contatto con la filosofia ionica, quella di Anassimandro in particolare: perché potremmo addirittura pensare che la filosofia di Melisso sia una somma di due principi: l’“essere” parmenideo immateriale e “il principio materiale” di Anassimandro. Se operassimo questa somma noteremo subito che l’“essere”, ora divenuto anche principio materiale, diventa anche infinito. Da un lato abbiamo la definizione di essere come uno, eterno, come avrebbe detto Parmenide, ma da un altro lato abbiamo anche il principio materiale che, per il solo fatto di escludere il suo opposto, ecco che diventa anche infinito, come avrebbe detto Anassimandro.

Specifica b: così abbiamo due possibili spiegazioni per la filosofia di Melisso: quella che vuole che egli derivi la sua filosofia dalla definizione di essere-materiale e quella che vuole che egli sommi la concezione parmenidea ad alcune idee di quella di Anassimandro. In quanto non si possono escludere né le due idee si escludono, riteniamo vere entrambe: sia da un punto di vista storico che da un punto di vista logico la filosofia di Melisso ci appare piuttosto coerente col pensiero greco di allora.

Filosofia

L’impostazione da seguire è quella tracciata da Parmenide: l’inesistenza della molteplicità e l’unico essere, la ragione sola può cogliere l’essere, la verità è una e le opinioni molteplici sono tutte idee già orecchiate. Fin qui Melisso non sembra avere tratti molto originali.

Melisso, però, a differenza del maestro, sostiene che l’essere sia anche infinito, oltre che unico, immutabile ecc., se esso infatti non fosse infinito allora sarebbe circondato dal nulla, ovvero dal non-essere e questo, lo sappiamo bene, “non si può né dire né pensare”. Da sfera finita e perfetta, l’essere rimane perfetto ma diventa anche infinito, sempre unico ed eterno.

Melisso esplicita anche l’impossibilità di esistenza del nulla ed prende sul serio l’impossibilità che dal nulla possa nascere qualcosa e che dall’essere possa nascere non-essere.

Per la connessione dell’essere all’infinito, alcuni studiosi ritengono che Melisso abbia anche avuto contatti diretti o indiretti con la filosofia ionica, in particolare ci viene in mente Anassimandro, che, per primo, sollevò il problema dell’infinito-indefinito come condizione di caos primordiale. Melisso tuttavia, a differenza di Anassimandro, ha una visione positiva dell’infinito e dunque ne rovescia il valore: infinito è predicato dell’essere, che è perfetto. Dunque, infinito e perfezione non possono essere termini antitetici ma convengono. In ciò sta una certa originalità del pensatore di Samo.

Concetti

Essere, infinito.

Riferimenti

Valgano i riferimenti già più volte dati ( vedi tutte le schede precedenti ).

Severino E. Antologia Filosofica, Mondo libri pp. 32. ( prima citazione ).

Aristotele, Primo libro della “metafisica”. A cura di Rossito e Berti. Editore Laterza. Pp 94-95 ( seconda e terza citazione ).

« Sempre era ciò che sempre sarà. Infatti se fosse nato è necessario che prima di nascere non fosse nulla. Ora, se non era nulla, in nessun modo nulla avrebbe potuto nascere dal nulla.

Dal momento dunque che non è nato ed è e sempre era e sempre sarà così anche non ha principio né fine, ma è infinito.

Perché se fosse nato avrebbe un principio ( a un certo punto infatti avrebbe cominciato a nascere ) e un termine ( a un certo punto avrebbe terminato di nascere ); ma dal momento che non ha né cominciato né finito e sempre era e sempre sarà, non ha né principio né termine. Non è infatti possibile che sempre sia ciò che non esiste tutto intiero ».

« Pare infatti che Parmenide intendesse riferirsi all’uno secondo la definizione, mentre Melisso a quello secondo materia ( e anche per questo motivo l’uno afferma che esso è limitato, l’altro che è illimitato ) (…) »

« Come abbiamo già detto, questi pensatori non devono essere presi in esame nella nostra attuale indagine, anzi due, Senofane e Melisso, devono essere del tutto scartati perché troppo rozzi (…) »

Contenuti speciali

La questione dell’infinito: uno spunto di riflessione ad amplissimo raggio.

Vale la pena di riflettere un attimo sulla delicata questione dell’infinito: cosa è infinito?

L’infinito ammette diverse definizioni, al variare della definizione varia anche la sua stessa concezione. Innanzi tutto bisogna notare come dell’infinito noi non abbiamo mai esperienza diretta. Di fatti si tratta sempre di una supposizione quella dell’esistenza dell’infinito: che lo spazio cosmico sia infinito è tutto da dimostrare ( tanto che si dice che l’universo non sia infinito ma in continua espansione… -dove si espanda una cosa in continua espansione non mi è chiaro- ) e anche che la retta o i numeri siano infiniti è una questione di parole, soprattutto. Che io sappia, ancora non sono riuscito ad arrivare ad un termine ultimo per dire: di questo so per certo che è infinito.

Ripercorrendo brevemente la storia della filosofia o la storia delle idee notiamo subito che l’infinito nasce come concetto negativo: come in-finito, “a-peiron”. Per Anassimandro l’infinito è ciò che non ha limiti nel senso che di ciò che non è ancora ordinato, che non ha confini precisi e demarcanti e, quindi, che non ha ancora acquisito un valore di armonica giustizia-giustezza.

Ma anche nella definizione di infinito data da Euclide scopriamo che la retta è definita in relazione ai due postulati fondamentali, il punto e il piano: la retta dunque si specifica di volta in volta cosa sia, ma potremmo definirla come la linea priva di inizio e fine passante per due punti. Se però ci riflettiamo un attimo questa definizione è di per sé dubbia in quanto definisce una cosa che è priva di inizio e di fine ovvero definisce una cosa priva di limiti. Se di fatto la definizione è ciò che de-finisce, che de-limita qualcosa, cosa abbiamo ottenuto definendo la retta?

Addirittura da un punto di vista meramente grafico sappiamo che è impossibile rappresentarla: chi ha un minimo di dimestichezza col disegno tecnico come c’è l’ho io, sa che per disegnare la retta bisogna tracciare tre lineette piccole frammentate da una parte e dall’altra del segmento che rappresenterà la retta, proprio per indicare la sua infinitezza. Scopriamo quindi che, in una certa misura, nella geometria la retta è un ente definito per via intuitiva e non per deduzioni.

Prendiamo ora la definizione matematica della retta: Y = mX + Q, semplificandola al massimo, Y = X. Si tratta di una equazione di primo grado e possiamo dare infiniti valori alle due variabili che subito ci renderemo conto che per tracciare la retta, di fatto, basterà avere due punti e supporremmo gli altri proprio perché il procedimento per ottenere i punti della retta è infinito: dunque non solo la retta è infinta ma anche i numeri che servono per tracciarla. Così anche i numeri sono infiniti. In questo senso però potremmo definire l’infinito come ciò che implica una procedura la cui fine rimanda indefinitamente all’inizio: per esempio, ad uno posso sempre sommare un altro uno ed è proprio così che arrivo alla definizione di qualunque numero naturale. E i numeri naturali sono infiniti.

Altra immagine dell’infinito può esserci suggerita a questo punto dall’indefinizione: è infinito ciò che è indefinito. E indefinito è per esempio il numero di punti di un segmento. Un segmento è una linea delimitata da due punti detti estremi. Ma tra i due estremi esistono infiniti punti. Così, anche se una definizione implica una delimitazione, se tale delimitazione ammette infiniti punti intermedi, ecco che l’indefinito implicherà una certa infinità.

Ancora possiamo guardare all’uso dei vocaboli per comprendere il significato della parola: infinito è definito attraverso una negazione. Infinito è ciò che non ha limiti. L’essenziale dell’infinito è l’essere senza limiti.

Un’altra definizione più interessante: l’infinito è ciò che si ripete sempre. L’infinito-ciclico in quanto la fine rimanda all’inizio. Sul piano dell’esperienza abbiamo già detto che di nulla abbiamo l’esperienza dell’infinito.

Melisso sostiene solo su base logica che l’infinito esiste ed è predicato dell’essere: l’essere è pura affermazione, se fosse negazione sarebbe anche non-essere e ciò non è possibile. Essere = finito = impossibile ( contraddizione ), da qui l’asserzione di Melisso: Essere = infinito. All’essere compete l’infinità. Va notato a questo punto che l’essere per Melisso è un che di materiale e, dunque, tale che se esistesse il nulla esisterebbe anche il suo contrario: se la materia è limitata allora deve esistere anche il nulla. Ma ciò è impossibile in quanto sarebbe del tutto contraddittorio. Così l’essere-presenza di Melisso deve essere infinito a meno di ammettere l’esistenza del vuoto, inteso come non-essere.

Per Parmenide questo non era un problema in quanto egli definiva l’essere semplicemente come ciò che è. Parmenide si limitava a definire l’essere come essenza, pura affermazione. Così egli non avrebbe affermato che l’essere era infinito perché la definizione stessa dell’essere è effettivamente finita, in questo senso, sul piano logico, non c’è alcuna necessità di definire l’essere come infinito. L’immagine della sfera serviva, probabilmente, solo a mostrare la perfezione-compiutezza dell’essere, nient’altro.

L’altro sostenitore delle teorie di Parmenide, Zenone, sfrutterà proprio questa proprietà dell’infinito di “implicare” altro infinito e, dunque, di non implicare mai un termine ultimo dal quale partire e sul quale rifarsi. In questo senso, in Zenone l’infinito è un termine logico-limite che serve solo per mostrare l’assurdità delle asserzioni degli avversari di Parmenide. Anche da questo fatto, ci sembra dubbio che Parmenide avrebbe potuto asserire che l’essere è infinito. Di fatto, egli non ne aveva alcun bisogno.

Esistono naturalmente molte altre definizioni di infinito: Cartesio e Spinoza, giusto per citarne due, ci costruiranno gran parte della loro metafisica che sarebbe in gran parte priva di appoggio senza quella. Ma a me premeva solo porre il problema a partire dalle informazioni che potevano avere i nostri filosofi fino ad ora trattati.

Veniamo a questo punto a una questione forse più stuzzicante: l’infinito è una cosa buona o cattiva? Diciamo subito che a seconda di come si è concepita la vita, l’essere, è cambiata la bontà o la negatività dell’infinito.

Già da subito abbiamo opinioni discordanti intorno all’infinito: Anassimandro per primo lo considera una cosa negativa, infinito come sregolatezza, parola ancora oggi ( chissà ancora per quanto ) denotata come negativa, seppure non sempre e non da tutti. L’infinito, in quanto caos, non è semplicemente ordinato, dunque non può essere una cosa positiva.

Ma Melisso sostiene che l’infinito è attributo dell’essere, abbiamo visto, e dunque è senz’altro una caratteristica positiva in quanto affermativa.

In generale gli antichi greci non erano molto propensi a pensare all’infinito ed era una concezione sostanzialmente alternativa alla finitezza. Ad ogni modo, per avere un vero e proprio ribaltamento ci vorranno i cristiani col Dio unico e onnipotente.

I cristiani hanno per lo più concepito l’infinito come positivo: pensiamo per esempio alla visione della vita ultraterrena, se ricongiunti con Dio: infinita felicità. E il Dio cristiano è un Dio onnipotente ( che può tutto ), onnisciente ( che sa tutto ), onnicomprensivo…

La nostra cultura in generale ha una visione continuamente altalenante, come su tante altre questioni, su tale argomento. Ma guardiamo piuttosto nel nostro intimo.

In generale l’infinito ci crea uno sgomento, sempre. Quando scopriamo che qualcosa è effettivamente senza limiti, o che noi, proprio non riusciamo a vederne i confini subito ci prende una sorta di angoscia: sappiamo che noi siamo limitati e che mai saremmo in grado di controllare ciò che è più grande di noi.

Per esempio, la morte ci fa paura perché la pensiamo come ad una condizione di infinita irreversibilità, infinito mutismo: assoluta solitudine. L’infinito temporale ci crea angoscia perché lo sperimentiamo quando ci annoiamo ( a morte! ) ovvero quando il tempo non fluisce mai e, dunque, sembra che non-finisca-più. E se pensiamo al nulla ( e che noi potremmo esserci e spesso ci finiamo ), allo spazio vuoto, subito si innesca in noi un rigetto: terribile è l’immagine di “Duemilauno odissea nello spazio” ( che consiglio a tutti i filosofi e non ) quando si vede l’astronauta che viene lasciato vagare nello spazio vuoto. Ma ancora possiamo pensare all’infinità di qualità e scopriamo subito che non diciamo mai “è infinitamente intelligente” ma diciamo spessissimo “è infinitamente stupido” in quanto ciò che è positivo ha un limite preciso, ciò che è negativo ha molti meno limiti, è meno difficile da definire… Così, possiamo anche scoprire che gli stessi oggetti quantitativamente parlando, si definiscono l’uno con l’altro, ma se avessimo un oggetto infinito sapremmo realmente riconoscerlo come tale? La terra sembrerebbe infinita se non fosse che sappiamo che non lo è. E tutt’ora non conosciamo corpi infiniti, ma sappiamo che lo è il nulla, lo spazio vuoto ( fino a che la scienza riuscirà a dimostrare l’incontrario di ciò che ci insegna da soli tre o quattro secoli… ) Subito ci prende l’ansia quando pensiamo alla nostra misera quotidianità, quando la viviamo come un ciclo di eventi sempre già visti, l’eternità la viviamo sulla nostra pelle quando non ci sono cambiamenti e tutto ci sembra così maledettamente uguale: eventi sempre uguali per una vita sempre uguale fanno un’infinità di eventi.

A me sembra, e qui sarebbe interessante discuterne, che oggi molti, forse tutti, siano angosciati proprio da questa coscienza dell’infinito: da un lato infatti le grandi attività economiche ci rassicurano che tutto ciò che abbiamo è ciò che c’è di meglio, che si può sempre avere ( dunque indefinitamente ), e che ce lo meritiamo; ma da un altro lato viviamo con la consapevolezza che questa ripetitività ( che non è detto duri all’infinito…, come insegna la storia che è tutt’altro che infinita… ) ci angoscia, non ci piace e la rigettiamo. Tutto questo infinito non ci piace e ci frustra.

Sul piano esistenziale, penso che tanti siano angosciati proprio perché non contemplando l’idea che la vita sia irripetibile proprio perché assolutamente finita, la vivono come se fosse infinita e credono che nulla valga perché tutto è nulla ( infinità ), non accorgendosi che c’è molto di più in un piccolo libro molto finito che in un infinità di altre cose.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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