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Vita
Aristotele nasce a Stagira nel 384 a.C., figlio di Nicomaco, medico di corte del re di Macedonia, Aminta, padre di Filippo II. Fu presto orfano ed adottato dallo zio Prosseno. Nel 367 si reca ad Atene per completare la sua formazione. Fa parte dell’accademia e si mette in mostra per competenza, gli vengono verosimilmente affidati dei “corsi” e lo stesso Platone lo “cita” in uno dei suoi dialoghi.
Seppure esistono le più diverse dicerie sul conto del rapporto tra Platone e Aristotele, alcune delle quali vogliono che tra i due ci fosse un’indiscussa rivalità, se non un certo odio, sembra invece l’opposto stando, quanto meno, ai frammenti pervenuteci delle opere dello stagirita in cui Aristotele parla di Platone, ed è molto inverosimile che chi venga lodato nei lavori più importanti sia sminuito poi in altra sede.
C’è chi ha ipotizzato, in base all’età di Aristotele, che entrò diciottenne nell’accademia platonica, quali fossero i problemi più discussi da Platone e i suoi discepoli quando Aristotele arrivò: pare che egli fosse giunto nel momento in cui si discutesse del problema relativo al mondo delle idee, alla loro validità epistemologica e alla loro possibile esistenza. Aristotele potrebbe essere arrivato quando Platone si accingeva a comporre i famosi dialoghi della maturità “critica” il Parmenide e il Sofista.
L’attività dell’accademia platonica era diversificata e non era adombrata dalla presenza di una personalità molto forte come quella di Platone. Sebbene, infatti, Platone talvolta si assentasse per questioni politiche ( per esempio quando si reca in magna Grecia per cercare di convincere un tiranno a organizzare la città “ideale” secondo le regole de la “Repubblica”) in ogni caso rimaneva la personalità di riferimento, sebbene, come poi accadde alla sua morte, non l’unica: alla scomparsa di Platone non succede la scomparsa dell’accademia.
All’interno dell’accademia c’erano diversi pensatori di grande rilevanza, come Eudosso, grande matematico, Senocrate e Speusippo, Aristotele stesso. E questi non erano gli unici intellettuali all’interno dell’accademia ma c’erano anche altre persone che, appunto, studiavano come scolari.
Il clima che si doveva respirare dentro l’accademia, probabilmente, potrebbe essere mostrato dagli stessi dialoghi di Platone, che vedono sempre un’apertura e una discussione possibile, mai conclusa del tutto, spesso, addirittura assente. Al di là delle connessioni con i dialoghi, è chiara la “pluralità” delle discussioni degli accademici e la libertà di pensiero che vi regnava: Aristotele, per esempio, aveva già iniziato a elaborare una sua filosofia, non senza variazioni e contrasti, con quella di Platone e degli altri accademici. Ma tale divergenza di pensiero non era osteggiata ma ritenuta degna di ascolto: Platone e i suoi seguaci pur avendo le loro idee, non pretendevano l’irreversibilità delle dottrine né l’indiscutibilità.
I temi che si affrontavano erano i più diversi e molti non erano unicamente di filosofia: è noto, infatti, che venissero fatti studi di matematica, tanto cara a Platone (talmente tanto che, secondo una celebre frase di Aristotele, secondo alcuni accademici la filosofia sarebbe dovuta essere unicamente la matematica); di astronomia e anche di biologia. Sebbene fu senz’altro Aristotele il pensatore dell’antichità che più prestò attenzione alla realtà empirica, allo studio dei fenomeni naturali e alla catalogazione delle forme di vita esistenti, è anche vero che tali studi erano già stati avviati all’interno dell’accademia.
Alla scuola di Platone rimase fino alla morte di Platone stesso, avvenuta nel 347. Alla morte del maestro Aristotele perde il motivo di rimanere: aveva ormai ultimato il suo percorso culturale educativo, non aveva speranze di poter succedere al proprio maestro nella direzione dell’accademia, non aveva più un legame personale così vincolante da non sentirsi più libero di separarsi dall’accademia.
Aristotele si trasferisce ad Asso con Senocrate, anch’egli scolaro/maestro nell’accademia platonica. Nel 345 si reca a Mitilene e incomincia una proficua collaborazione con l’astronomo Teofrasto. Questa “seconda fase” della vita di Aristotele è marcata dall’interesse del filosofo verso l’osservazione della natura e gli studi di tipo biologico. E’ in questo periodo che più si concentra nello studio degli animali dal quale ne scaturirà una delle catalogazioni più durature e significative dell’intera storia della biologia.
Nel 332 Filippo II il macedone chiama a corte Aristotele per fare da educatore ad Alessandro. Seppure due tra i più grandi uomini della storia d’occidente si incontrarono ed ebbero una relazione stretta, che appare giustificare le imprese dell’uno e i pensieri dell’altro, non sembra invece che da tale relazione sia nato molto, né che Alessandro sia stato influenzato più di un certo tanto dalla filosofia di Aristotele e viceversa.
Una volta concluso il compito di precettore alla corte di Filippo II, e cioè quando Alessandro diventa re di Macedonia, nel 335, Aristotele torna ad Atene e lì fonda il Liceo, in onore a Apollo Licinio, dio delle arti e della sapienza.
Gli anni del liceo sono quelli più proficui, da un punto di vista letterario, giacché le opere più rilevanti pervenuteci risalgono a questo periodo e, probabilmente, sono le “dispense” che lo stesso Aristotele scrivesse per sé, per poi servirsene per seguire un filo logico durante le lezioni.
Sebbene la filosofia di Aristotele, così come ci giunge attraverso le opere rimaste, si presenti, spesso, come punto di arrivo conclusivo di una discussione, non doveva comunque essere allo stesso modo definitiva durante le sue lezioni che, probabilmente, erano molto simili a quelle che si tenevano nell’accademia e cioè ispirate all’apertura e al dialogo.
Alla morte di Alessandro ci furono diversi movimenti antimacedoni e ad Atene si forma una coalizione per uccidere tutti i macedoni presenti nella città. Voci non accreditate sostengono che Aristotele disse che non valeva la pena di farsi uccidere come fece Socrate perché la filosofia aveva già avuto abbastanza danno da quella perdita per subirne una seconda. Decide di allontanarsi da Atene e si trasferisce a Calcide, nel 323. Rimasto isolato dalle attività culturali e dagli stessi pensatori, probabilmente privo delle sue carte e dei suoi studi, trascorre gli ultimi tempi della sua vita nella tristezza dell’isolamento forzato, di lì a poco muore, un anno dopo la morte di Alessandro il Macedone, nel 322 a. C..
La vita di Aristotele non fu particolarmente avventurosa, non compie nessun atto particolare in quegli ambiti maggiormente riconosciuti e tributati all’epoca: in politica o nella vita pratica. Egli vive in nome di quella vita filosofica puramente contemplativa che vede il filosofo come l’uomo di sapere, concentrato unicamente sulla conoscenza della vita e del mondo.
Se Platone è stato il primo pensatore ad avere una visione articolata della realtà, capace di tentare di fondare un sistema filosofico, che pure non gli riuscì mai di comporre coerentemente, in pieno spirito di “reversibilità-rivedibilità” del sapere, Aristotele riuscì a concepire, nonostante la pluralità della concezione della scienza, un sistema di spere determinato, chiuso e descritto: Aristotele fu il primo a dare una descrizione unitaria e coerente della fisica, della biologia, della logica dell’epoca. I punti di contatto col pensiero di Platone sono diversi, senza dubbio, ma Aristotele riesce ad arrivare ad un tale livello di originalità e indipendenza rispetto ai pensatori accademici che, non solo lo porta a fondare un’altra scuola, ma pure a concepire una filosofia, in alcuni aspetti, molto diversa da quella platonica e, inerentemente ad alcune questioni, molto più efficace.
Le opere di Aristotele si dividono in due categorie: essoteriche ed esoteriche (per pochi). Le prime furono quasi interamente inghiottite dall’oblio ed erano quelle rivolte ad un ampio pubblico, quel che oggi chiameremo “divulgazione”. Le opere esoteriche, invece, sono quelle composte per un uso interno alle scuole in cui Aristotele lavora, prima l’accademia e poi il liceo. Di queste seconde, abbiamo molto, sebbene riorganizzato secondo una necessità editoriale da alcuni personaggi dell’antichità, il più celebre e importante fu Andronico da Rodi.
La vicenda delle opere di Aristotele è segnata, infatti, dalla nostra completa ignoranza delle opere essoteriche: tutto il corpus aristotelico fu conservato per circa un secolo in una cantina, per sfuggire ai saccheggi e lì vi rimase fino a che, nel primo secolo, furono ritrovate e prese dalla spedizione di Silla e inviate a Roma. Nel frattempo che le opere esoteriche erano nascoste circolavano esclusivamente le opere divulgative. Quando vennero ritrovate quelle esoteriche accadde che le altre opere non venissero più lette, credute di filosofia di seconda mano. E questo fu la condanna di quei lavori perché nessuno si prese più la briga di conservarle e tramandarle e ormai non abbiamo più la possibilità di ritrovare quei lavori. Tutto quel che ci rimane delle opere essoteriche non è che qualche frammento o qualche riassunto e i titoli.
Gli scritti di logica sono raccolti nell’“Organon” ( che significa strumento ). I libri di fisica trattano tutto quel che riguarda la natura: la biologia, la fisica in senso generale, la psicologia, la cosmologia, storia, l’anima ( che, in gergo aristotelico significa, in generale “vita” o “principio vitale” ).
Gli scritti filosofici in senso canonico sono inseriti nella raccolta non aristotelica, entrata ormai nella tradizione filosofica: la Metafisica.
Aristotele trattò più volte e in vari modi sia di attività pratiche al solo fine della felicità, l’etica, che di attività pratiche finalizzate alla produzione di qualcosa. Nella prima categoria rientrano l’Etica nicomachea, l’Etica eudemea, la Grande Etica ( di cui non si è certi della paternità ) e la Politica. Mentre della seconda categoria sono la Retorica e la Poetica, capaci di influenzare in modo preponderante la cultura rinascimentale.
Andronico da Rodi, nel I secolo a. C. diede quella sistemazione al pensiero di Aristotele, che ci giunge intatto, ma è chiaro che Aristotele non lo elaborò in quel modo. Per capire le sfumature e i cambiamenti del pensiero di un filosofo, è apparentemente necessario avere la cronologia esatta dei lavori. Apparentemente perché poi, anche di quei filosofi di cui abbiamo a disposizione senza dubbio la cronologia, ci sono infinite discussioni sul significato e sull’evoluzione del loro pensiero. Ad ogni modo, è chiaro che, almeno per tentare di associare alle opere un certo periodo, per vedere soprattutto le influenze e i problemi che la “persona” filosofo doveva affrontare nella vita quotidiana ( perché la filosofia vera nasce nella quotidianità ) è necessario avere almeno una cronologia generale delle opere. Oggi gli studiosi combattono per riuscire a separare dall’abitudine e dai singoli testi i vari pezzi dell’opera aristotelica e collocarli secondo ordine cronologico. Questa operazione è chiaramente complicata, a volte impossibile e ancora si discute addirittura sull’autenticità di alcune opere.
Opere
Opere | Opera pervenutaci. | Destinatario. |
Grillo o della retorica. | Frammento. | Opera essoterica. |
Simposio. | Frammento. | Opera essoterica. |
Sofista. | Frammento. | Opera essoterica. |
Eudemo o dell’Anima. | Frammento. | Opera essoterica. |
Nerinto. | Frammento. | Opera essoterica. |
Erotico. | Frammento. | Opera essoterica. |
Protrettico. | Frammento. | Opera essoterica. |
Sulla ricchezza. | Frammento. | Opera essoterica. |
Sulla preghiera. | Frammento. | Opera essoterica. |
Sulla nobiltà. | Frammento. | Opera essoterica. |
Il piacere. | Frammento. | Opera essoterica. |
L’educazione. | Frammento. | Opera essoterica. |
Il regno | Frammento. | Opera essoterica. |
Il politico | Frammento. | Opera essoterica. |
Dei poeti. | Frammento. | Opera essoterica. |
Della giustizia. | Frammento. | Opera essoterica. |
Sul bene. | Frammento. | Opera essoterica. |
La filosofia di Archita. | Frammento. | Opera essoterica. |
La filosofia di Democrito. | Frammento. | Opera essoterica. |
Della filosofia. | Frammento. | Opera essoterica. |
Alessandro. | Perduta. | ? |
Problemi. | Perduta. | ? |
Divisioni. | Perduta. | ? |
Ipomnemata. | Perduta. | ? |
Categorie. | Perduta. | ? |
Dei contrari. | Perduta. | ? |
Delle idee. | Perduta. | ? |
Pitagorici. | Perduta. | ? |
Organon: categorie, dell’interpretazione, analitici primi, analitici secondi, topici, elenchi sofistici. | Intatta secondo la tradizionale partizione a prescindere dall’ordine cronologico. | Opera esoterica. |
Fisica. | Intatta. | Opera esoterica. |
De cielo. | Intatta. | Opera esoterica. |
Generazione e corruzione. | Intatta. | Opera esoterica. |
Meteorologia. | Intatta. | Opera esoterica. |
Storia degli animali. | Intatta. | Opera esoterica. |
Le parti degli animali. | Intatta. | Opera esoterica. |
Sul movimento degli animali. | Intatta. | Opera esoterica. |
Sull’incedere degli animali. | Intatta. | Opera esoterica. |
Generazione degli animali. | Intatta. | Opera esoterica. |
L’anima. | Intatta. | Opera esoterica. |
Opuscoli relativi all’anima. | Intatta. | Opera esoterica. |
Parva naturalia: Del senso e dei sensibili, Memoria e reminiscenza, Del sonno e della veglia, I sogni, la divinazione nel sonno, Della lunghezza e brevità della vita, Giovinezza e vecchiaia, vita e morte, respirazione. | Intatta. | Opera esoterica. |
Metafisica. | Intatta. | Opera esoterica. |
Etica Eudemia. | Intatta. | Opera esoterica. |
Etica Nicomachea. | Intatta. | Opera esoterica. |
Magna moralia ( o Grande etica –di cui si discute ancora l’attribuzione ). | Intatta? | Opera esoterica. |
Politica. | Intatta. | Opera esoterica. |
Costituzione degli ateniesi. | Intatta. | Opera esoterica. |
Retorica. | Intatta. | Opera esoterica. |
Poetica. | Ampio frammento. | Opera esoterica. |
Schema di ragionamento: chiave di lettura della filosofia di Aristotele a partire dallo studio della dottrina delle quattro cause.
Ipotesi A(ristotele)1: tutto ciò che esiste ha una causa.
Corollario a: Dunque, qualsiasi cosa che esiste può essere interamente descritto dalle sue cause.
Specifica I: Aristotele è un pensatore anomalo, infatti, la sua filosofia, in tutti i suoi aspetti, è dominata da alcuni principi che sono uguali per tutte le conoscenze. Però, in quanto i singoli individui delle scienze sono diversi, l’applicazione di quegli stessi principi determina conoscenze diverse.
Ipotesi A2: tutto ciò che esiste è definito se e solo se sono specificate la sua “specie”, la sua “differenza specifica”.
Spiegazione I: “la specie” di un oggetto è la categoria generale a cui appartiene.
Spiegazione II: “la differenza specifica” è la proprietà distintiva di un particolare oggetto.
Specifica ά: nella definizione di una cosa può anche ricadere una serie di proprietà accidentali, come “bianco” in “casa”. Le proprietà accidentali sono quelle qualità che non concorrono alla definizione di una cosa e che, per tanto, potrebbero anche non essere inerenti alla cosa in questione.
Esempio: se devo definire una “maglia di calcio” dirò il genere e la qualità specifica. “Una maglia di calcio è un tessuto a forma di maglietta indossato dai giocatori di calcio”.
Nella definizione della “maglia di calcio” non è incluso il colore perché esistono diverse maglie di calcio di colori assai diversi. In questo modo, anche oggi, quando dobbiamo descrivere una maglia particolare ne descriviamo le proprietà accidentali ( supponendo che si sappia già cosa sia una “maglia di calcio” ), mentre se devo dire “cosa è” una “maglia di calcio” allora devo per forza dire quali sono le proprietà comuni a tutte le maglie di calcio.
Inferenza.
Se tutto ciò che esiste ha una causa se tutto ciò che esiste è definito se e solo se sono specificate la sua “specie” e la sua differenza specifica, allora un oggetto è interamente descritto se e solo se sono date tanto la definizione che le sue cause.
Tesi Aa: dunque, un oggetto è interamente descritto se e solo se sono date tanto la definizione che le sue cause.
Ipotesi A3: per descrivere interamente una cosa sono sufficienti due cause.
Specifica I: la causa materiale di un oggetto è l’attribuzione “sostanziale” di una certa cosa.
Spiegazione ά: la sostanzialità di una cosa consiste nel suo essere “qualcosa”, ovvero nel suo esser costituito da una certa materia. Quindi, la causa materiale implica l’enunciazione della composizione essenziale di una cosa.
Spiegazione β: la materialità della cosa è la sua potenza. Infatti, la materia è ciò che è disponibile di cambiamento. In questo senso, non esiste oggetto materiale che non sia passibile ( o causa a sua volta ) di mutamento. La causa materiale è definita da Aristotele come “condizione necessaria” di ogni possibile cambiamento della cosa stessa, giacché la cosa, in quanto è materia, può cambiare.
Specifica II: la causa formale di un oggetto è l’insieme delle sua proprietà, considerabili nel loro insieme o nella loro singolarità.
Spiegazione IIά: la forma di un oggetto è la sua qualità. Per esempio, è del fuoco la possibilità di bruciare le cose; è una proprietà della penna quella di scrivere. Queste proprietà del fuoco e della penna sono proprie dell’uno e dell’altra ed attengono alla loro forma. La forma, in questo senso, consiste sostanzialmente nelle qualità di un oggetto espresse dalla sua definizione.
Spiegazione IIβ: la forma non va confusa con “l’apparenza” di un certo oggetto. La forma, in quel senso, potrebbe, talvolta essere accidentale oppure il frutto di un’astrazione: per esempio, non è della forma essenziale di una pipa l’esser marrone, ma è possibile che lo sia; la sigaretta è cilindrica ma “l’esser cilindrica” della sigaretta non è essenziale per la sua definizione, infatti le sigarette rollate manualmente assai di rado hanno una forma cilindrica e le canne sono spesso girate in diversi modi che non corrispondono ad un “cilindro”.
Spiegazione IIγ: La forma è ciò che appartiene, quanto a proprietà ( o qualità che dir si voglia ), ad un oggetto nel momento in cui esiste nel presente. In questo senso, la forma consiste nell’attualità dell’oggetto giacché sin tanto che esiste l’oggetto, questo ha una certa forma presente. Aristotele chiama la forma anche “atto” dell’oggetto indicando proprio che l’esser un oggetto qualcosa implica una certa stabilità e questa permanenza attiene alla forma ( e non alla materia. Infatti la materia è sempre passibile di trasformazione mentre non è così per la forma: il letto del legno, in quanto materia, può essere usato per fare un comodino. Ma nel momento in cui il letto perde la sua forma, allora smette di essere letto, ma le singole componenti non smettono di essere legno ).
Spiegazione IIέ: per la definizione di un oggetto bastano queste due cause, materiale e formale. La causa materiale funge da sostrato di inerenza delle proprietà indicate dalla causa formale. “Un tavolo è una tavola di legno sorretta da quattro assi”: in questa definizione c’è la causa “materiale” ( il legno ) e la causa “formale” ( essere un asse posto sopra quattro piedi ) e non compaiono altre cause. In questo senso, tutto può essere descritto come “atto e potenza”, tutto può essere definito a partire dalle due sole cause.
Ipotesi A4: tutto ciò che esiste è molteplice e passibile di mutamento.
Specifica I: che tutto ciò che esista è molteplice è mostrato dall’evidenza e sarebbe inutile procedere ad una dimostrazione di qualcosa di evidente a partire da qualcosa che non è evidente. Inoltre, l’annichilamento di tutta la realtà ad un unico essere implica l’annullamento della conoscenza sensibile e del mutamento e ciò è sostanzialmente assurdo[1].
Inferenza.
Se causa formale e causa materiale sono sufficienti alla definizione della cosa, se causa materiale e causa formale indicano ciò che una cosa è in atto e in potenza, allora la causa materiale e formale sono sufficienti per definire un oggetto ma non sono sufficienti alla descrizione del mutamento.
Tesi A2: dunque la causa materiale e formale sono sufficienti per definire un oggetto ma non sono sufficienti alla descrizione del mutamento.
Specifica I: i platonici e Platone, che si sono limitati alla conoscenza della causa materiale e formale, sono caduti nell’impossibilità, e nell’errore, di descrivere il mutevole delle cose. Essi, infatti, si sono limitati a cercare di determinare l’origine delle cose e delle idee da due unici principi opposti, uno materiale e uno formale, la diade ( il grande e il piccolo ) e l’uno. Tuttavia, oltre a non essere stati in grado di far derivare effettivamente tutte le cose da questi due unici principi, non sono riusciti a spiegare il mutamento, tanto che essi, anche influenzati dalle dottrine eraclitee, lo escludevano, non dalla realtà, ma dalla conoscibilità.
Specifica II: tra l’altro, la causa materiale e la causa formale sono sostanzialmente le uniche due cause che sono state rintracciate dai filosofi precedenti ad Aristotele stesso ( secondo l’opinione, anche assai immodesta, dello stagirita medesimo ). Infatti, nessuno dei filosofi che hanno cercato di dare ragione alla natura si sono mai spinti oltre alla causa materiale, spesso rintracciata in un unico elemento, o alla causa formale. I due estremi sono tracciati dagli eleati e dai naturalisti: i primi ammettevano solo l’uno come esistente, causa formale delle cose, cadendo nell’assurdità di negare l’esistenza della molteplicità e del mutamento. D’altra parte, i naturalisti credevano nella sola esistenza di una causa materiale e il più capace fu Empedocle che riuscì a definire i quattro elementi costitutivi della natura e definì una causa diversa per il mescolamento dei quattro elementi dagli elementi stessi. Tuttavia egli era assai rozzo nell’espressione e non sempre molto coerente. In fine, i platonici avevano unito causa materiale e formale per la spiegazione delle cose, ma, loro malgrado, ciò non era sufficiente ( necessario, ma non sufficiente ) alla descrizione di tutte le cose realmente esistenti. Inoltre, errore fondamentale dei platonici, moltiplicarono per due la realtà, con la concezione del mondo delle idee, che, per spiegare le cose sensibili, creava solo complicazione invece che semplificare la vita.
Ipotesi A4: il mutamento è definito dalle due cause precedenti e da altre due cause: la causa efficiente e la causa finale.
Spiegazione IIIά: le cause materiale e formale, s’è detto, non sono sufficienti a spiegare il mutamento, ma sono indispensabili per la definizione dell’oggetto in atto o in mutamento. In questo senso, anche loro concorrono alla spiegazione globale del fenomeno, tanto che si sia di fronte ad un oggetto che non muta al presente, piuttosto di uno attualmente cangiante.
Spiegazione IIIβ: le cause o sono pari a zero, o sono limitate o sono illimitate. Se le cause sono pari a zero allora non si dà alcun mutamento giacché non esisterebbe proprio nulla e ciò è assurdo. Se le cause fossero illimitate nulla sarebbe spiegabile: Aristotele fa coincidere l’essere col linguaggio e col pensiero e, dunque, se una cosa non è spiegabile nel pensiero, non enumerabile nel linguaggio allora non è nemmeno nella realtà. Dunque, le cause non possono essere infinite. Ma allora le cause sono limitate: il numero si può rintracciare in diversi modi e verificarne l’esattezza. Prima di tutto, siccome conosciamo a partire dai sensi e il sapiente conosce per cause, allora i sapienti, che hanno studiato in precedenza, possono illuminare sulla conoscenza delle cause. In secondo luogo, siccome il linguaggio mostra l’essere, allora attraverso lo studio dello stesso “mezzo” linguistico si può scoprire quali e quante sono le cause, vedendo poi se ci sono discrepanze con il pensiero degli altri pensatori. Il linguaggio mostra che ciascuna causa è una risposta particolare ad un singolo “perché”, dunque esaurendo completamente la domanda “perché una cosa è” si esauriscono anche le questioni intorno all’essere della causa: lo svolgimento pieno del senso implica la spiegazione completa del significato.
Spiegazione IIIγ: A causa della considerazione precedente, Aristotele passa sempre in rassegna il significato delle parole e l’opinione dei filosofi precedenti. In questo modo, egli è il massimo esponente del pensatore che ritiene che la conoscenza sia sostanzialmente conservata nel luogo comune. Obbligo e compito del filosofo è quello di mettere ordine, dare una coerenza e una sistemazione al luogo comune, prima, e solo poi procedere al suo ampliamento.
In ciò sta anche la ragione per cui Aristotele non dimentica mai la credenza popolare, i detti e gli usi linguistici e di come, per un certo senso, consideri sempre le opinioni collettive.
Specifica I: la causa efficiente è l’evento precedente ad un altro che ne determina un mutamento; è ciò da cui una cosa proviene ( quanto alla generazione o al mutamento ). Per esempio, un pallone è spostato da un calcio: il calcio è la causa efficiente del movimento del pallone.
Specifica II: la causa finale è ciò a cui tende un oggetto che in Aristotele coincide col “bene” della cosa stessa. In altre parole, la causa finale è il bene della cosa. E’ interessante notare che la causa finale sia, in qualche modo, una causa formale in base al tempo: infatti, il fine non attuale è la causa finale, quando diventa attuale, è la causa formale. Un bambino diventerà adulto e, quando avrà raggiunto la maturità, avrà raggiunto il suo fine, ovvero una certa forma. In questo seno, il fine è l’ultima causa formale di una cosa.
Inferenza.
Se il mutamento è definito dalle due cause precedenti e da altre due cause, se le cause precedenti sono la causa formale e la causa materiale, se la causa formale e la causa materiale sono necessarie e sufficiente alla definizione dell’attualità di un oggetto, se la causa formale e la causa materiale non sono sufficienti alla spiegazione del mutamento, se il mutamento è spiegato dalla causa finale e formale allora per la spiegazione di un fenomeno è necessario e sufficiente dare una descrizione dell’evento secondo le quattro cause.
Tesi A5: dunque per la spiegazione di un fenomeno è necessario e sufficiente dare una descrizione dell’evento secondo le quattro cause.
Specifica I: bisogna tenere conto che la conoscenza è comunque un’attività osservativa tale che essa inizi nella sensazione. La sensazione, conservata nella memoria, è capace di ampliamento, ma non di maggiore comprensione. Solo dopo una certa osservazione si possono studiare le varie cause: la causa finale, per esempio, è inducibile solo dopo diverse osservazioni. In questo senso, potremmo anche dire che la conoscenza sensibile è condizione necessaria per la conoscenza, infatti se essa fosse tolta, allora non avremmo più pensieri. D’altra parte, tutti i problemi inerenti alla conoscenza delle cose, sono dovuti proprio perché esiste una tale molteplicità di informazioni che dobbiamo cercare di districarci. Ma per mettere ordine nella giungla bisogna esserci nella giungla. E dunque, prima di tutto si incomincia con l’osservazione. Ma l’osservazione priva di intelligenza mantiene il quantitativo di conoscenza assai basso e, dunque, bisogna anche applicare l’intelligenza e la ragione. Solo a questo punto si inizia effettivamente a capire di cosa si tratti il fenomeno conosciuto.
Specifica I: tenendo conto di questa spiegazione, che è certamente una chiave di lettura parziale, in quanto Aristotele stesso concepisce le scienze come distinte e separate le une dalle altre, che, però, consente di capire il processo di spiegazione e derivazione dei principi, presente in quasi tutte le opere di Aristotele.
Specifica II: in generale Aristotele procede in questo modo nelle sue analisi.
1) definisce il fine della scienza.
2) Definisce l’oggetto della scienza a partire da una sua osservazione.
3) Analizza i vari significati della parola.
4) Affianca la sua osservazione a quelle dei predecessori o ad altre opinioni illustri.
5) Discute le sue opinioni e quelle degli altri e tra un bilancio tra le teorie coerenti, quelle incoerenti, quelle prive di contenuto e quelle significative.
6) Deduzioni dai principi delle conseguenze.
7) Conclusioni.
Filosofia
La logica
Il sistema aristotelico è un insieme di scienze organizzate sempre nell’unità della conoscenza. La grandezza dello sforzo di Aristotele sta nel fatto che egli entri dentro in ogni ambito della scienza fino ad allora elaborata e riesca a darne una chiara organizzazione coerente.
La logica è lo studio del linguaggio scientifico, motivo per il quale, è chiamata da Aristotele “Organon” e cioè “strumento”. La logica è inteso come strumento nel senso che è suo compito mostrare il contenuto con chiarezza. Per Aristotele la logica non supera mai l’osservazione nella conoscenza del mondo, ed egli non crede nemmeno, come i platonici, che la dialettica possa portare da qualche parte nella conoscenza delle cose. La conoscenza della logica senza la conoscenza data dall’osservazione è una conoscenza priva di significato.
Ma la logica è chiamata ad assolvere un compito importante: ripulire la struttura linguistica da imperfezioni, in modo tale che la scienza risulti esatta, per ciò universale e fruibile.
Il primo passo consiste nell’analisi della definizione, che è un argomento che richiama immediatamente la dialettica platonica e lo studio di Aristotele nell’accademia. La definizione è composta di tre termini, almeno. Il primo termine è l’oggetto definito che prende il nome di “sostrato”, il secondo termine è la specie a cui l’oggetto appartiene ( per usare un esempio inedito, se uomo è animale razionale allora uomo è il “sostrato” della definizione, “animale”, invece, è la specie a cui appartiene il sostrato ), il terzo termine è la differenza specifica dell’oggetto ( se “uomo è animale razionale” e se la categoria animale comprende vari generi, allora per arrivare a determinare la categoria “uomo” bisogna indicare quale sia la qualità che distingue l’uomo da tutti gli altri animali e questo potrebbe dirsi anche nel caso che, invece di definire uomo, si voglia definire un qualsiasi altro animale ).
Aristotele fu senza dubbio un grande analista del linguaggio e possiamo anche dire che egli, in virtù delle sue conoscenze accademiche e capacità personali, abbia fondato la sua filosofia quasi per intero sull’analisi del linguaggio concepito secondo quella che oggi sarebbe concepita come “analisi logica”. Aristotele infatti non prescinde mai da tutti i vari significati che le parole prendono nelle varie frasi tali che esse sono definite sia in relazione alla loro funzione, sia in relazione ai vari usi.
Nello studio della definizione e dei termini che compaiono in queste, Aristotele si rende conto che le possibilità definitorie di un termine, e l’uso attributivo degli aggettivi, hanno una possibilità combinatoria limitata. Dall’analisi dei termini nelle definizioni, scaturiscono le categorie, che altro non sono che tutte le possibili attribuzioni d’essere di qualcosa. L’essere si dice in molti modi che altro non sono che le categorie. L’“essere” non è altro che un qualsiasi oggetto, l’ente, una cosa qualunque[2]. Di qualsiasi cosa si possono predicare solo alcune cose: sostanza, quantità, qualità, spazio, tempo, avere, stare, patire, fare. Le nove categorie ( dieci nell’elenco più ampio ) sono tutto ciò di cui si può predicare qualcosa.
La predicazione di sostanzialità è l’enunciazione che qualcosa è un oggetto-soggetto esistente: “X = legno”, “X = tavolo” sono esempi di predicazione di sostanzialità. La denotazione della sostanzialità non è altro che la determinazione dell’esistenza di un oggetto-individuale. Dire “esiste un X tale che X e solo X” è l’equivalenza della definizione di sostanzialità dell’essere.
Si dice che qualcosa è “una certa quantità” quando si vuole qualificare la cosa sotto un profilo quantitativo e si esprime, generalmente, attraverso un numero o una quantificazione relativa di grandezza: “X è dieci volte tanto Y”, “X è grande mentre Y è piccolo”.
La qualità attiene alla forma dell’oggetto. Quando si sente la parola “forma”, generalmente si pensa al suo uso quotidiano: forma come apparenza di un oggetto alla quale associamo una certa conformazione geometrica. Mentre nel caso della filosofia antica, e non solo, per “forma” si intende “una certa proprietà oggettiva di qualcosa”: la “razionalità” dell’uomo è una sua qualità formale perché non attiene alla conformazione fisica ne denota una qualità specifica; la “plasticità” di un oggetto è una sua qualità formale. In generale, qualsiasi attribuzione di una proprietà individuale e specifica di un oggetto è “formale”, così, quando definiamo un oggetto attribuendogli alcune proprietà, non materiali, lo stiamo denotando in un certo modo: questo “modo” è la “forma” dell’oggetto.
Di un oggetto possiamo dire che è in un certo spazio ( categoria della spazialità ) e in un certo tempo ( temporalità ). In questo senso, di una cosa, qualunque, si può predicare lo spazio-tempo. Le due categorie, indicando significati differenti nel linguaggio, sono tenute distinte da Aristotele. “X è qui” è una predicazione definitoria ( in quanto è usato il verbo essere ) così come “X è ora”.
Le altre categorie, avere, stare, patire e fare indicano una possibilità dinamica dell’oggetto e indicano la predicazione dell’essere non come “ausiliare” ma come “copula” e quei verbi vengono usati in senso participiale. In altre parole, i verbi “avere”, “stare”, “patire”, “fare” vengono usati alla loro forma di “participio” passato, che altro è che un attributo. L’attributo che nasce dal verbo indica la proprietà di una cosa in relazione a ciò che ha compiuto: “X è-andato” significa che la cosa “X” ha compiuto una certa azione definita da un certo movimento. In questo senso, una cosa è dire che “X va” una cosa è dire che “X è-andata”, nel primo caso siamo di fronte non alla definizione di un evento, ma alla sua espressione: un conto è dire cosa un evento è ( o è stato, che è lo stesso ), un’altra cosa è dire che un evento si sta svolgendo.
L’analisi delle categorie dell’essere di Aristotele non è altro che un analisi di tutti i possibili significati dell’essere. Come sappiamo[3], il verbo essere si usa in due modi: uno è “essere-essenziale” ed indica le proprietà essenziali inerenti ad una cosa: quando definiamo un oggetto diciamo che è-qualcosa, questo “esser-qualcosa” è una denotazione di appartenenza[4]. Ma un altro capacità denotativa del verbo “essere” è quella “presenziale”, “esistenziale”: “X è nel mondo”, “X è in un tempo T0 in uno spazio S0” e “X è in un tempo T1 in uno spazio S1”. In questo caso il verbo essere serve a specificare non che una cosa sia una certa proprietà (giacché quando diciamo che una cosa è in un certo spazio non diciamo certo che quella cosa è quel certo spazio[5]). Aristotele, però, mostra anche che il verbo essere ha anche un’altra funzione linguistica, che è quella di “ausiliare”. Tale uso era stato trascurato tanto da Parmenide che da Platone, tanto è che entrambi non ammettevano forme di mutamente, l’uno escludendo la possibilità stessa del mutamento, giacché quel che muta è molteplice e ciò che esiste realmente è solo l’uno; l’altro, invece, riduceva il molteplice al mondo dell’opinione, a ciò che è e non-è e di cui si può solo dare conoscenza parziale. Aristotele, invece, confutando l’inesistenza del mutamento (contro Parmenide) e l’impossibilità di espressione intorno alla mutevolezza (contro Platone), rileva che l’essere è, senza dubbio, “essenziale” e “esistenziale”, ma pure “ausiliare”. Così, nelle categorie si configura anche l’analisi, o predicazione, dell’essere-come capace di patire o fare, di avere o stare. In questo senso, l’ente, in quanto sostrato con certe qualità, è anche esser-dinamico, non solo uno e immobile.
Oltre allo studio delle definizioni, che sono certamente indispensabili per il linguaggio scientifico, bisogna studiare alcuni ragionamenti deduttivi che, da Aristotele in avanti, verranno chiamati “sillogismi”. Il sillogismo è un ragionamento deduttivo che inizia con una premessa, a cui segue un termine medio e la deduzione: “Tutti i supereroi sono immortali; Superman è un supereroe; Superman è immortale”. Il sillogismo non fa altro che mettere in relazione una categoria generale di qualcosa con un suo singolo individuo: una qualità generale di una categoria è affermata, quindi si specifica un individuo appartenente alla categoria generale e si procede nella deduzione della qualità dal generale al singolo individuo.
La logica di Aristotele si spinge sino alla considerazione di proprietà logiche a priori: il principio di non contraddizione, del terzo escluso e di identità. Il principio di non contraddizione rimane uno dei principi di verità, stabili: esso afferma che non è possibile affermare “a e non-a” contemporaneamente. Non posso dire “Io sono grasso e io sono magro” perché si può riscrivere la frase in questi termini “io sono grasso e io non-sono grasso” e questa affermazione è chiaramente falsa. La violazione del principio di non contraddizione ( non contraddizione significa proprio che, come criterio di verità, ovvero una regola secondo cui è possibile stabilire se una frase è vera o falsa ) implica una falsità. L’applicazione del principio di non contraddizione mostra chiaramente che esso è applicabile per qualsiasi proposizione: per questo è chiara e semplice, lecita la dicitura “a e non-a” come esempio di contraddizione.
La sostituzione a degli esempi di simboli generici non è gratuita, infatti essa implica un livello di astrazione che consente l’analisi delle strutture logiche a prescindere da ogni determinazione singolare. Con Aristotele siamo ormai dentro la logica simbolica-formale che significa una logica che adopera un metalinguaggio per spiegare il linguaggio naturale.
Altra regola logica analizzata da Aristotele è quella del terzo escluso: “a o non-a”. Per fare un esempio “volo dalla finestra o non volo dalla finestra”. L’enunciazione del principio del terzo escluso è la diretta conseguenza del principio di non contraddizione: non si può esprimere contemporaneamente due cose contraddittorie. In questo senso, esistono sempre sole due possibilità e o l’una o l’altra devono essere vere, non entrambe nello stesso momento. Il nome del principio è dato dall’idea che esistono solo due strade e la terza sia a priori esclusa.
Oltre al principio del terzo escluso e di non contraddizione, che, senz’altro rimane probabilmente uno dei pochi parametri universali per stabilire la verità di qualcosa, Aristotele parla anche del principio di identità che vuole che ciascuna cosa sia identica a se stessa, cioè identica alle sue qualità.
L’analisi della definizione, delle categorie, dei principi di non contraddizione, del terzo escluso e di identità sono la base per una adeguata organizzazione delle scienze, capaci, a questo punto di essere rigorose e chiare. Tuttavia, Aristotele chiarisce bene che la scienza è tale, a parte per il rigore dello studio, anche per la conoscenza che essa esprime: dire “a o non-a” non significa nulla, in realtà.
Il significato di “a o non-a” si manifesta solo quando abbiamo un enunciato con significato. In questo senso, se è compito dello scienziato quello di esprimersi con precisione e coerenza, è anche vero che nulla può dire qualcosa del mondo se non l’osservazione stessa. Aristotele è molto chiaro: lo studio della logica ( Analitica ) non aumenta in alcun modo le nostre conoscenze del mondo: posso anche scoprire tutti i principi della logica, ma potrò non aver avanzato per nulla nella conoscenza delle cose e della gente.
Ma, allora, perché per il discorso scientifico è tanto importante l’aiuto della logica? Se la logica non mostra il mondo, non aumenta la nostra conoscenza. Ciò è vero, ma è anche vero che il pensiero, che coincide con il linguaggio e con l’essere, si fonda su quei principi, in modo tale che se un pensiero è privo di logica, è incoerente o assurdo, ne consegue che esso non potrà avere nemmeno esistenza nella realtà: se penso che “io non possa volare e possa volare” ( contraddizione ) ne consegue che nella realtà “posso volare o non posso volare” ( terzo escluso ), dunque delle due l’una. Dunque, lo studio delle incoerenze implica lo studio anche dell’impossibilità, possibilità e necessità del mondo. La logica risulta un discorso preliminare, necessario ma non sufficiente alla formazione della scienza.
La fisica.
La fisica, secondo Aristotele, inizia con la conoscenza sensibile. Questa conoscenza non è concepita in senso deteriore, come per Platone, ma è una parte della conoscenza universale. Senza la conoscenza sensibile non si può arrivare a concepire quella più generale e, dunque, ogni conoscenza incomincia con l’osservazione sensibile. Già in ciò si vede un certo distacco epistemologico tra Aristotele e Platone.
Il problema della fisica, come si evince dai primi e celebri libri della Fisica, sta nella determinazione delle condizioni necessarie e sufficienti per la spiegazione del mutamento delle cose. Il mutamento, nella filosofia antica, è inteso il cambiamento di quantità, qualità, luogo e momento della cosa: il mutare è sia “spostare” che “cambiare qualità”. Il problema, fino ad allora, si era risolto negativamente e con l’impossibilità di espressione intorno al molteplice mutevole, come voleva la filosofia parmenidea, in parte accettata anche dai platonici che non riuscirono a spiegare chiaramente il mutamento. Mentre chi aveva cercato di dare una risposta affermativa al problema, i “naturalisti” e i “pluralisti”, non era mai andato oltre una determinazione del mutamento parziale e sempre piena di incoerenze come lo stesso Aristotele non manca di sottolinearlo sia nel libro II della Fisica che nel Libro I della Metafisica.
Il mutamento attiene alle cose generate e corruttibili, vale a dire i corpi sensibili. I corpi sensibili non sono altro che le cose, gli oggetti e gli esseri viventi, considerati nella loro corporeità. In questo senso, tutto ciò che concerne, per esempio, il cielo non attiene direttamente allo studio della fisica: i corpi celesti sono in movimento ma incorruttibili. E non attiene nemmeno alla teologia in quanto Dio è motore immobile, incorruttibile.
La fisica in Aristotele ha una sua dignità essenziale e separata dal resto delle scienze. Nell’analisi che compie Aristotele, però, non c’è spazio per una matematizzazione della fisica ed, anzi, la fisica è concepita come separata dalla matematica giacché quest’ultima studia le grandezze incorporee, nel senso che sono prive di materia, mentre la fisica deve tenere conto che i corpi sono costituiti da materia. In questa distinzione si gioca gran parte della conseguenza a lungo termine della fisica di Aristotele: non essendo questa matematizzata, non arriva ad avere mai quell’univocità della fisica galileiana moderna. D’altra parte, era convinzione radicata di Aristotele l’idea che ogni scienza avesse un suo ambito preciso all’interno del quale essa avesse la propria validità a prescindere dalle altre, Aristotele non concepisce mai una conoscenza assoluta.
Il mutamento è concepito solo per i corpi corruttibili e generati. I corpi corruttibili e generati sono tutti definiti a partire dalla loro sostanza, sostrato a cui ineriscono le sue stesse qualità: “legno” è sostanza rispetto a “noce e marrone”. Il sostrato materiale di cui una cosa è costituita non è sufficiente a definire l’oggetto, ma solamente la sua costituzione materiale: la materia senza forma non è nulla. Lo stesso mutamento si dice di un sostrato, che, però, deve essere ulteriormente definito.
Il sostrato viene definito dalle sue singole qualità o essenze: il “legno” è “pesante e resistente”. La definizione della cosa in “atto” è la sua attribuzione essenziale o formale “il tavolo è quadrato” mentre la definizione della cosa in “potenza” attiene alla materialità della cosa: “il tavolo è di legno”. A questo punto, però, abbiamo solo mostrato cosa sia l’oggetto, ma non perché questo sia passibile di cambiamento: il mutamento è la trasformazione dell’oggetto da una qualità al suo contrario. Il contrario è il non-essere della cosa, la qualità che ancora non-ha ancora l’oggetto: “le assi sono di legno e quadrate ma non-sono ancora un tavolo”. In questo modo vediamo una cosa: che il sostrato di una cosa ( il legno delle assi ) non cambia nel tempo ( giacché, quando verranno assemblate, rimarranno di legno ) e, dunque, ciò che non cambia nella cosa è la sua costituzione materiale. La materia è disponibile al cambiamento di forma, ma ogni cosa deve averne una in atto: le assi di legno saranno passibili di assembramento e cambieranno dunque di forma, ma non cambieranno certo la loro materia ( l’alchimia per Aristotele sarebbe stata un’assurdità ).
Le cose però cambiano di forma a partire da una loro qualità verso una loro non-qualità. In questa “contrarietà formale” sta la condizione di mutamento: il mutamento è possibile se e solo se un oggetto è qualcosa e non è qualcos’altro. Se una cosa fosse immutabile allora non sarebbe possibile una sua negazione ( di Dio infatti non si può dare negazione ). La condizione necessaria per il cambiamento di una cosa è la materia ( perché senza materia non c’è l’oggetto ), condizione sufficiente è la presenza del contrario ( perché senza il contrario a cui tendere l’oggetto rimane in atto quello che è ).
Tutto ciò è spiegato nel Libro I della fisica ed è la “determinazione” della possibilità stessa del mutamento. Che una cosa possa cambiare non significa che lo farà. In questo senso, tutto ciò che s’è detto qui è solo il “campo di esistenza” del mutamento, ciò che lo rende possibile, non ciò che lo rende necessario. E per questa ragione nel Libro II della fisica viene introdotta la dottrina delle quattro cause, diventate patrimonio universale della cultura occidentale.
Il mutamento è possibile se e solo se un oggetto è definito dal suo sostrato e dai suoi contrari, che mostrano cosa è e cosa tende a diventare. Ma perché un oggetto si muova, per la sua descrizione, è necessario esplicitare il “movente”, ciò che muove l’oggetto stesso e per far questo bisogna riuscire a coprire tutti i significati della parola “perché”. Il “perché” si esaurisce in questi quattro significati: a) un pallone si muove perché è costituito di cuoio, b) un pallone si muove perché è rotondo ed elastico, c) il pallone di cuoio rotondo ed elastico si muove perché gli ho dato un calcio, d) il pallone di cuoio rotondo ed elastico si muove perché devo segnare un gol. Questo esempio del pallone esaurirebbe ogni possibile “perché”.
Un oggetto quindi muta a partire dalle quattro cause: 1) materiale, 2) formale, 3) efficiente, 4) finale. Qualsiasi fenomeno naturale è spiegabile, dunque, a partire dalle sue cause e ciò è mostrato da alcune considerazioni: per spiegare qualcosa a qualcuno, se conosce realmente le cose, deve enumerare tutte le cause; le cose sono essenzialmente definite a partire dalle loro cause; per far imparare qualcosa a qualcuno dobbiamo necessariamente mostrargli le cause. Questi tre casi, che appaiono tra loro molto simili, in realtà mostrano tre aspetti diversi. Il primo attiene alla “spiegazione” di un evento e, dunque, al linguaggio di espressione della nostra conoscenza, il secondo attiene all’oggetto vero e proprio, considerato nella sua “oggettività”, il terzo attiene alla conoscenza vera e propria tale che noi conosciamo solo se conosciamo le cause. In parole povere, il linguaggio coincide col pensiero che coincide con l’essere delle cose e, dunque, mostrare che la conoscenza sia conoscenza delle cause significa che il linguaggio deve esprimere questa relazione causale e che l’oggetto stesso sia realmente definito dalle sue cause. Essere coincide col pensiero che coincide con l’essere.
Aristotele sostiene che le cause sono quattro in virtù di alcune considerazioni: ci potremmo infatti chiedere perché le cause dovrebbero essere solo quattro e non trentaquattro oppure perché non ce n’è solo una o due. Aristotele procede sempre secondo questo criterio: prima di tutto determina la sua idea, in secondo luogo considera le opinioni degli “specialisti” e le analizza, in terzo luogo critica eventualmente le idee errate, in fine conclude. In questo caso non fa eccezione. Prima di tutto egli fa una considerazione di carattere linguistico: le cause sono quattro perché quattro sono i significati della parola “perché” di cui le cause sono espressione. In secondo luogo, tutti i filosofi precedenti non ne mostrano mai di più e, dunque, non c’è motivo di dubitare che siano maggiori di quattro ( e infinite non possono essere altrimenti sarebbe impossibile la conoscenza dell’essere stesso – il che per Aristotele equivale ad una contraddizione perché, almeno in una certa misura, noi siamo capaci di conoscere l’oggetto- ); d’altra parte, i filosofi precedenti sono incoerenti assai spesso e non sono affatto capaci di definire, per esempio, la finalità delle cose e, altri, si contraddicono intorno alla causalità efficiente. Dunque, le cause sono quattro, e non c’è motivo di dubitare.
Tutto avviene secondo le quattro cause, ma in che senso? Il problema è: tutte le quattro cause sono contemporaneamente tali che, per ciascun fatto fisico si danno tutte quattro assieme? Le quattro cause sono eventi diversi o sono un solo evento considerato in quattro modi diversi? L’oggetto è stato definito come un ente dotato di sostrato e qualità. Dunque, esso ha già in sé una causalità materiale ( il sostrato ) e una causalità formale ( la forma, qualità del momento ), il fine dell’oggetto è ciò a cui una cosa tende ( e si conosce attraverso l’osservazione della ripetizione dell’evento ) e coincide col bene della cosa stessa, la causa efficiente è invece ciò da cui un evento prende le mosse, il principio del cambiamento. L’oggetto, dunque, è spiegato solo a partire dalle quattro descrizioni possibili che, dunque, descrivono un medesimo evento in quattro modi diversi: l’evento è uno, le descrizioni di più.
A questo punto diventa solo una questione di efficacia: si descrive un evento sempre a partire da quella causa che è più determinante a dare spiegazione dell’evento. Nel caso di un fatto fisico, potrebbe essere di maggiore importanza la descrizione della causa efficiente, nel caso di un fatto biologico potrebbe essere di maggiore importanza la causalità finalistica e così via. Insomma, il principio di fondo è che esistono sempre quattro cause per ciascun evento, ma alcune hanno rilevanza essenziale per la definizione dell’evento, altre meno.
Condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza del mutamento è il sostrato e la contrarietà ( dunque nella fisica ci sono tre principi sommi, principi che sono punti di partenza di una scienza non ulteriormente analizzabili né scomponibili ), la causa del mutamento sono le quattro cause considerate nello stesso tempo.
Se la causalità è prevista per ogni evento, è chiaro che la casualità non trova molto spazio nella dottrina aristotelica della fisica: Aristotele, tuttavia, non smentisce mai del tutto una qualche informazione contenuta nell’uso del linguaggio quotidiano, né le credenze delle persone più semplici. Egli, infatti, ritiene che ogni uomo dica qualcosa intorno alla verità, magari non qualcosa di particolarmente acuto, ma pur sempre un frammento prezioso. E’ tale l’uso che si fa delle parole “caso” e “fortuna” che Aristotele non poteva smentirli del tutto.
In generale, un evento è detto casuale non perché non sia a sua volta determinato da altre causa, ma perché non era previsto nella formazione intenzionale di una qualche cosa. Il caso è, sempre per rimanere in termini aristotelici, un evento-accidentale. L’accidentalità è sempre riferita ad un’intenzione perché in natura non c’è motivo di pensare all’esistenza del caso: il caso naturale è solo una cosa che, per qualche ragione, non arriva ad attuare pienamente il fine, per esempio, un aborto è una cosa spiegabile dalle quattro cause che, però, non ha raggiunto una sua completezza formale ed è rimasto ad un punto intermedio.
A parte in questo senso, il caso è solo in relazione ad una deliberazione, dunque, sempre relativa ad un soggetto. In questo senso, si dice che un evento è un “caso” quando si frappone tra me e il mio fine ed entra nella serie di eventi tra me e il fine, come mezzo. In questo senso, quando l’evento è positivo, parlerò di fortuna, mentre quando l’evento sarà per me negativo, parlerò di sfortuna. In questa concezione, d’altra parte, è evidente che, da un punto puramente naturalistico, non esista fortuna o sfortuna ma solo eventi che si svolgono secondo determinati principi.
Si danno, in fine, due “tipi” di caso, quello in cui la causa sia esterna e quello in cui la causa è esterna: se io casco giù da un palazzo e tra me e il pavimento c’è una rete, che io non avevo affatto visto, dirò che la mia salvezza è dovuta al caso perché la causa è esterna a me. Un altro esempio è quello di Aristotele, se vado a fare una passeggiata e incontro un mio debitore sarò stato fortunato: infatti non volevo incontrare il mio debitore ma, avendolo incontrato, me ne rallegro. Questo evento, che è determinato da una causa esterna ( non ho voluto io che, simultaneamente, alla mia passeggiata anche il mio debitore facesse la sua ) è detto caso.
A questo punto rimane da chiederci quali sono i componenti ultimi della materia. Gli atomi sono avversati da Aristotele e ritiene la fisica democritea atomista come una assurdità ( anche nel suo considerare essere e non-essere contemporaneamente esistenti ). Il mondo non ammette vuoto e tutto ha una causa, motivo per il quale non esiste un regresso all’infinito della scomposizione delle cause ma esiste sempre un termine ultimo. L’idea del principio di regresso all’infinito per Aristotele è sempre un “regresso all’assurdo” così, il mondo è finito ed è finito il numero di cause a ritroso che si possono determinare per la descrizione degli eventi. Anche per quanto riguarda la materia esistono degli elementi ultimi tali che, da essi non si possa ulteriormente procedere nella scomposizione. Questi elementi sono quelli che ancora oggi compaiono nelle descrizioni degli oroscopi: aria, acqua, terra e fuoco, più l’etere che è il componente materiale del cielo.
Se qualcuno ha presente le attuali spiegazioni dell’universo, il loro linguaggio e il loro significato, non può che destare ilarità questa descrizione della natura, così poco capace di prevedere gli eventi e così equivoca: la fisica di Aristotele infatti ammette sempre più di una descrizione per ogni evento, ammette una conoscenza delle cose solo a posteriori e, per ciò, non consente molte previsioni, inoltre non è una scienza matematica, motivo per il quale non è passibile di grandissimo progresso: uno dei motivi per cui la scienza attuale progredisce è proprio quello che essa somma l’osservazione al linguaggio matematico tale che, affinando il linguaggio matematico, si migliora di conseguenza l’univocità, quindi la coerenza, del linguaggio fisico e, dunque, la nostra potenzialità a nella previsione degli eventi.
Ma, in un mondo privo di “0”, dove l’analisi fisica non ammetteva un grande uso di tecniche specifiche, la fisica di Aristotele rimane un tentativo, compiuto, definito e ampliabile ( quanto a conoscenza d’osservazione ) capace di dar conto di gran parte dei macrofenomeni dell’esperienza quotidiana e, comunque, non lascia mai spazio né alla superstizione né alla religione e si dimostra un tentativo razionale di spiegazione del mondo. Oltre tutto, si tenga conto anche del fatto che chi ha fatto diventare la fisica di Aristotele una concezione resistente all’affermazione della nuova scienza, non è certo stato Aristotele.
La biologia
Una parte consistente dell’opera di Aristotele consiste nella trattazione della natura delle cose generate per natura e che si svolgono secondo la loro natura. In questo ambito rientrano tutte le cose che sono dotate di un’anima, dalla più semplice alla più complessa.
Lo studio della biologia, tuttavia, non viene a coincidere con lo studio della fisica, esse sono due scienze da tenere separate per Aristotele: la fisica studia i corpi soggetti al mutamento, ma non studia i corpi dotati di un’anima. Senz’altro la fisica studia le parti dei corpi dotati di un’anima, ma solo quando questi corpi non risultano più guidati verso un unico fine e sono separati dall’anima a cui facevano capo ( una mano mozza non è più oggetto di studio della biologia, ma della fisica giacché essa non compete più alla spiegazione dell’individuo a cui apparteneva ).
La fisica era già distinta dalla matematica, giacché essa prevedeva lo studio di oggetti che hanno una materia. La biologia, dunque, non è studiabile a partire né dalla fisica né dalla matematica, ma è una scienza a se stante, con principi suoi.
Gli oggetti della biologia sono i corpi dotati di un anima, che Aristotele intende con “principio vitale” e non una “forma separata dal corpo”. Infatti, per Aristotele esiste solo un’unione tra materia e forma e non una loro separazione: non è pensabile una qualità senza un oggetto a cui inerire né è possibile definire una materia priva di una sua qualità ( forma ). D’altra parte, però, per definire gli oggetti viventi bisogna specificare la loro anima, intesa, appunto, come loro forma peculiare.
Esistono tre forme di anime: l’anima vegetativa, sensitiva e razionale. L’anima vegetativa è quella che richiede, per sopravvivere, solamente la soddisfazione dei principi vitali di base, l’anima sensitiva è quella propria degli animali e prevede la presenza dei sensi, in fine l’anima razionale è quella propria solo dell’uomo. L’anima essenziale e più semplice è l’anima vegetativa che, però, non è estranea anche alle altre anime: esse vanno per complessità crescente e implicano le caratteristiche dell’anima più semplice di loro. Così l’anima dell’uomo, essendo la più complessa, implica tanto l’anima vegetativa che l’anima sensitiva.
Nello studio dei corpi dotati di un’anima si pone il problema della loro catalogazione e spiegazione. Aristotele propone di suddividere le specie secondo caratteristiche loro proprie, sino a che non si è giunti ad indicare una particolare classe con la loro caratteristica distintiva: dire “l’uomo è l’animale” non basta per distinguere l’uomo dagli altri animali, giacché l’essere “animale” compete a più esseri viventi. Se si aggiungesse “l’uomo è l’animale mammifero” ancora non sarebbe detto più del fatto che l’uomo è un animale, dunque, svolge alcune funzioni vitali, ma non si sarebbe ancora indicata la sua proprietà specifica, infatti esistono più animali che sono mammiferi. Si deve quindi procedere sino a che non si indica la proprietà distintiva, sempre specificando comunque la specie di appartenenza del particolare animale. “Uomo è razionale” non è sufficiente per la definizione giacché non si è detto che cosa sia “l’essere uomo” ma solo “come” è “l’essere uomo”. Ciò vale per tutte le altre specie di animali.
Altro problema nello studio della biologia è quello della descrizione delle singole parti degli animali. Aristotele sostiene che la loro conoscenza è sempre data dalle quattro cause ma, in ciascuna scienza, non tutte le cause sono prime, ovvero non tutte allo stesso modo ci dicono qualcosa sulla natura e comportamento dell’oggetto. In questo senso, sostiene, non è sufficiente la causa materiale giacché essa ci informa assai poco sull’oggetto in questione: dire che una cosa è di carne non dice nulla sul suo comportamento. Aristotele sostiene che è del tutto indispensabile, nella conoscenza della biologia, la conoscenza della causa finale, ovvero la conoscenza di ciò a cui una cosa tende.
La conoscenza della causa finale equivale ad una descrizione in termini funzionali: una cosa è definita dal ruolo causale rispetto alle altre parti. La possibilità di definizione di tale funzione è data dall’osservazione: il cuore pompa il sangue per far portare nutrimento alle singole parti e farle purificare dalle sostanze nocive[6]. La conoscenza delle singole parti deve essere pensata in relazione alla totalità dell’organismo, in quanto ciascuna parte concorre al funzionamento del tutto.
Alla lecita domanda del “come si fa a capire il fine?” Aristotele sostiene che il fine si conosce a partire dall’osservazione ripetuta. Infatti, “il fine è ciò a cui una cosa tende” e cioè “ciò che una cosa fa sempre o per lo più” e, dunque, esso risulta oggetto di induzione da un’osservazione ripetuta: se il cuore pompa il sangue sempre allora è chiaro che la sua funzione è quella di pompare il sangue. Il “fine è ciò a cui una cosa tende” ed “è anche il bene della cosa stessa”, così l’azione globale delle singole parti dell’organismo concorrono al benessere di tutto il corpo.
La metafisica
La metafisica è senz’altro una delle opere più conosciute di Aristotele stesso, in particolare da quando la sua fisica è diventata obsoleta e interessante solo per gli studiosi più interessati.
La metafisica è la filosofia prima ovvero quella branca della conoscenza che studia le sostanze immobili e incorruttibili, in generale, l’ente in quanto ente. “Ente in quanto ente” significa “un oggetto a prescindere da qualsiasi cosa particolare”, in altre parole, lo studio della metafisica consiste nello studio dell’oggetto, delle sue possibilità di esistenza e delle sue qualità più generali possibile.
L’argomento è molto vasto: un oggetto, definito di per sé, implica prima di tutto l’analisi della sua stessa possibilità di conoscenza, una volta affermata questa possibilità, si deve esprimere in che modo questo oggetto sia nel mondo, secondo quali possibilità sussista e come si esprimono queste relazioni nel linguaggio. D’altra parte bisognerà anche capire quale scienza sia la più adatta a questo compito, infatti, se la scienza è definita da suoi propri principi e da sue proprie regole ( Aristotele era del tutto contrario all’idea di una scienza universale[7] ) allora bisognerà vedere quale delle scienze sia la più idonea a studiare l’essente[8]. L’essere, come è già stato detto, si predica in molti modi, dunque, sarà da specificare, nuovamente, quali significati vadano attribuiti all’ente. In fine, se l’ente è capace di mutare, allora bisognerà, come al solito, specificarne perché.
Insomma, gli argomenti della fisica sono quelli che concernono lo studio a priori di un oggetto considerato al suo livello più astratto: un oggetto, a prescindere da quel che è nella sua individualità. Una cosa considerata in questo modo mantiene però le sue proprietà generali e distintive ( essere-qualcosa, essere-per, essere-qui e ora ) ma anche quelle proprietà che la inducono a variare ( essere-capace di cambiamento ). La metafisica si distingue dalla fisica proprio per il diverso modo di concepire l’oggetto e la sua conoscenza che sarà la più alta e gratificante di tutte: l’intelligenza, secondo Aristotele, si appaga con l’intelligenza e questa si soddisfa studiando le cose che implicano l’uso dell’intelletto. In quanto la metafisica implica lo studio di ciò che esiste, nel suo significato più completo, si configura come scienza somma capace di soddisfare il filosofo per se stessa.
In effetti, Aristotele ha già, con grande acutezza, risposto al nichilismo-servilismo di molta concezione della conoscenza di oggi: conoscere non è solo conoscere-per qualcos’altro ma, soprattutto, conoscere-per conoscere. La conoscenza è premio a se stessa e, dunque, capace di dare all’uomo l’unica, vera soddisfazione duratura che l’esistenza possa concedere.
Nel Libro I[9] vengono chiarite tre questioni importanti: la conoscenza inizia nella sensibilità, la conoscenza sensibile è razionale quando implica la conoscenza delle cause, i filosofi precedenti ad Aristotele avevano tutti carpito una porzioncina di verità ma sempre espressa in modo parziale e, spesso, rozzo e incoerente.
La conoscenza è conoscenza sensibile, ciò è mostrato dall’amore dell’uomo per le sensazioni che ricerca direttamente per se stesse. D’altra parte, la conoscenza per sensazioni non è esclusiva per l’essere umano, ma è pure quella degli animali. Tra gli animali, infatti, tutti sono capaci di percepire, ma non tutti sono in grado di distinguere i suoni. Quelli capaci di distinguere i suoni sono più disposti alla comprensione di quelli sordi e quelli dotati di memoria sono ancora più capaci rispetto a quelli privi di memoria. D’altra parte, anche ammettendo la conoscenza delle sensazioni, comprese quelle uditive, concesso pure che si sia dotati di buona memoria, non per ciò diciamo che siamo di fronte alla conoscenza più alta e più perfetta. Infatti l’equazione “()X ( X = oggetto ) conosce ↔ sensibilità + memoria” non è sufficiente.
Diciamo pure che c’è una distinzione tra sapere e saper-fare: il saper-fare, infatti, non necessita di una conoscenza particolare delle cose, semplicemente, è sufficiente avere una certa abitudine o prassi, capace di condurci al risultato voluto. Tale “prassi” implica semplicemente che si sia un essere senziente, non che si sia anche un essere sapiente. Per la sapienza ci vuole qualcosa di più.
Tutti dicono che la conoscenza è conoscenza delle cause e ciò è mostrato dal fatto che il vero sapiente è colui che, attraverso la spiegazione causale, fa capire agli altri le ragioni dell’esistenza di un evento. La conoscenza delle cause non implica la conoscenza di ogni particolare, ma di tutte le cose che rientrano sotto quell’unico caso, per ciò è detta conoscenza del generale. D’altra parte, questa conoscenza è anche una conoscenza più lontana ( giacché non è direttamente intuitiva ) e, siccome questa conoscenza è lontana, è anche più difficile. Ciò è il motivo per il quale il sapiente è riconosciuto come colui che è in grado di comandare senza essere comandato: egli sa come le cose vanno fatte e perché.
La conoscenza del “sapere” è più elevata di quella del “saper-fare”: ha più capacità descrittiva, essendo più generale, ha la capacità di considerare più particolari ( nel senso di proprietà dell’evento ) ed è disponibile di apprendimento attraverso la ragione. Nella differenza tra “sapere” e “saper-fare” però c’è anche una diversa qualità applicativa: il “sapere”, infatti, è inferiore al “saper-fare” quando si tratta di tecniche produttive: la tecnica richiede che una cosa sia fatta, non il perché. Così, per quel che riguarda la produzione di manufatti, è preferibile aver fatto una certa pratica, piuttosto che avere la conoscenza delle cause.
D’altra parte, quelli che sanno fare senza sapere sono simili agli animali[10] ché agiscono in virtù della sensazione e della ripetizione, piuttosto che della conoscenza esatta delle cose.
A questo punto risulta chiaro che la conoscenza sia, in principio, sensazione, e, in secondo luogo, conoscenza delle cause. L’oggetto della conoscenza è il singolo oggetto individuale. Ciò, però, era già chiaro a molti filosofi precedenti ad Aristotele, tuttavia, lo stagirita analizza le dottrine precedenti e scopre che, alcune teorie sono incomplete, altre incoerenti e alcune paradossali. Questa analisi è compiuta nella seconda parte del Libro I della metafisica, luogo in cui praticamente tutti i manuali rivelano l’inizio di un’esplicita consapevolezza di storia della filosofia.
In realtà ciò non sembra essere esatto, infatti una storia ha come scopo l’analisi di un soggetto, di un evento e della sua evoluzione, inoltre la “storia della filosofia”, in quanto studio della filosofia precedente ha quanto meno la pretesa di capire quel che i predecessori avevano da dire a prescindere da ciò che può pensare l’interprete. Si può discutere sulla possibilità di un’interpretazione “letterale”, “libera” o “strumentale”, ma l’inizio, la possibilità stessa di un’interpretazione fondata sulla conoscenza di un’opera non può che riproporre in una certa misura l’opera stessa, o avere questo obiettivo.
Aristotele non ha alcuna “storia”, non ha certo come obbiettivo quello di ricostruire il pensiero a lui precedente né di ripetere tutto quel che il filosofo aveva detto. Aristotele fa un’analisi critica, filosofica del pensiero dei predecessori intorno alla causalità. Egli ha interesse a vedere se i pensatori, nel tempo, avevano avuto qualche idea a lui sfuggita, o se avevano una capacità descrittiva del mondo alternativa o migliore. Aristotele analizza il principio di causa secondo quella che è stata la risposta al problema dell’essere giunta fino a lui.
Insomma, l’analisi di Aristotele è semplicemente una critica filosofica alle idee che si sono succedute nel tempo, a prescindere “dal tempo”, dal “contesto”. Egli vuole scoprire la verità, ciò che è a prescindere da ogni considerazione soggettiva, per ciò, ci sembra piuttosto una forzatura quella di sostenere che Aristotele sia il primo “storico della filosofia” solo perché ha riportato le opinioni dei predecessori.
In effetti, la ridicola accusa di parzialità che è stata in questo senso rivolta ad Aristotele[11] è, paradossalmente vera: Aristotele è parziale nella sua interpretazione della particolare questione della causalità, ma egli non aveva detto mai che doveva dire altrimenti. Sarebbe stato fuori luogo, per Aristotele, scrivere obbiettivamente la “storia” dei filosofi antichi e del loro pensiero, quando egli era piuttosto interessato a capire la causalità immanente alla natura. Quindi l’arringa dell’accusa si potrebbe usare proprio contro gli accusatori, accusandoli di non essere buoni storici della filosofia.
Ad ogni modo, è vero che nessun filosofo precedente ad Aristotele avesse chiaramente espresso la dottrina delle quattro cause né, in questo senso, che fosse stato sempre coerente con le proprie posizioni. Ciò è tanto vero quanto Aristotele lo sottolinei ogni qual volta che può. Tutte le cause elencate dai filosofi precedenti erano quella materiale ( i “naturalisti” –Talete, Anassimene, Anassimandro… ), quella formale ( gli eleati e i platonici ), ma mai quella finale. Quella efficiente potrebbe essere stata intuita qui e là, ma la causalità finale è sempre stata intravista e maldetta a tal punto che è dubbio pensare alla sua affermazione prima che Aristotele l’affermasse[12].
Aristotele viviseziona gli errori delle dottrine precedenti, in particolare il pensiero dei platonici. Contro di loro muove diverse critiche pungenti ed acute: prima di tutto rileva che la conoscenza non è la conoscenza di oggetti ultraterreni, ma la conoscenza di oggetti sensibili. Le idee non sarebbero altro che uno sdoppiamento della realtà operato da Platone per cercare di spiegare la realtà stessa. Ma il risultato dello sdoppiamento è quello di complicare la realtà: da una diventa due e dunque bisogna dare due spiegazioni. Inoltre, anche ammettendo l’esistenza delle idee, non si capisce come da queste si riesca a determinare il mondo. Discutibile è la dottrina dei numeri che non si capisce che funzione svolgano all’interno della natura. Ma, se già come idea globale risulta problematica, anche peggio risulta la determinazione della definizione delle singole idee e di quello che va considerato come idea: vanno considerate solo le essenze universali ( quelle che Aristotele chiama “specie” e genere” ) oppure anche quelle negative e delle relative. Se vanno considerate le idee negative, il non-essere di una singola idea, si procede ad una formazione pressoché infinita di idee e lo stesso vale per le idee di relazione: un’idea è il modello comune a diversi oggetti sensibili; dunque esiste una relazione tra il modello e i suoi singoli; ma allora ci sarà anche una proprietà comune tra l’idea e i suoi stessi singoli, dunque esisterà anche un’altra proprietà comune tra la nuova idea, quella dei singoli e i singoli stessi e così via.
Insomma, Platone ha individuato tanto la causa materiale e la causa formale, ma, non ammettendo il mutamento, non ha parlato con chiarezza né della causa efficiente né della causa finale. E se ancora possiamo concedere che Platone, attraverso l’uno e la diade, spieghi il mutamento a partire da una certa causa efficiente, non possiamo però dire che abbia indicato verso quale fine le cose tendano. Insomma, ancora una volta, la causa finale è una scoperta di Aristotele, secondo Aristotele…
Il problema del Libro I della Metafisica era quello di accertare la natura della conoscenza. La conoscenza è settorializzata ed ogni ambito è la singola scienza. Ogni scienza è definita nel suo ambito, dai suoi principi. Ogni scienza, qualunque essa sia, è conoscenza delle cause. In questo senso, anche la metafisica è conoscenza delle cause. Il problema era quello di vedere quanto fosse credibile la dottrina di Aristotele e vedere se fosse o meno completa, se mancasse di qualcosa o non fosse priva di incoerenze. Non potendo essere le cause infinite, non avendo nessuno determinato cause in più e solo in meno, Aristotele si sente pienamente giustificato nel ritenere quattro le cause.
A questo punto, abbiamo chiarito la natura dei principi dell’ente, la sua definizione. Non ci interessa entrare nel dettaglio di tutte le altre questioni che tratta la metafisica, d’altra parte sono tutte una crescente analisi rispetto ai punti stabiliti nel primo e nel secondo libro che abbiamo cercato di spiegare qui sopra.
A questo punto vogliamo solo dire che la natura, in generale, secondo Aristotele è ordinata secondo le cause. Tuttavia le cause, non potendo essere infinite, non ammettono neanche regresso all’infinito. L’infinito per Aristotele non esiste in atto, ma solo in potenza, dunque, al passato, il numero degli eventi, per quanto numeroso, non è infinito.
Ma deve esistere una causa per tutto, una causa che non sia causa di sé ( una nozione che per Aristotele non ha senso e che diverrà il punto archimedeo di gran parte della filosofia moderna ) ma causa di tutto il resto. Dunque deve esistere, secondo l’ordine delle cause, una causa prima non da cui deriva il movimento ( altrimenti dovrebbe a sua volta aver ricevuto il movimento da qualcosa e, quindi, ancora si affaccia il problema del regresso all’infinito ) ma a cui tutto il movimento tende. Il motore immobile è l’ente che è pensiero di pensiero, dunque infinitamente stabile e perfetto, giacché non tende ad altro che a se stesso.
Tale ente è Dio stesso, inteso come l’essere finito, perfetto. Dio non può essere infinito, giacché infinito in atto non è pensabile e Dio è puro atto privo di potenza. In questo senso, tutto tende ad una stabilità e tutto procede verso una determinazione finale. Dio, in quanto massima cessazione di potenza e atto concluso, rappresenta “l’idea” a cui tutto si ispira, a cui tutto tende. In questo senso è inesatto dire che tutto tende a Dio e che tutto è ordinato secondo un progetto intelligente, o questo non sarebbe stato pienamente accettato da Aristotele.
Infatti, lo stagirita avrebbe anche potuto concedere che tutto è ordinato ma solo nel senso che nulla si svolge a caso. Ma non c’è alcun progetto nella natura se non nei singoli individui che vivono per arrivare a portare a termine il “proprio” progetto, la propria realizzazione: il giovane nasce per diventare adulto, riprodursi, quindi morire. Sarebbe, dunque, errato concepire l’universo aristotelico concepito come ordinato nel senso di “aderente ad un verbo”, ad un “ordine” di qualcuno. Il Dio stesso di Aristotele è molto diverso, ad esempio, dal Dio della tradizione cristiana: il Dio cristiano è onnipotente, creatore ( dal nulla ), onnisciente. Il Dio di Aristotele non è affatto creatore e il nulla è un concetto assurdo ( come Aristotele mostra ai democritei ), non è onnisciente, perché non è a conoscenza delle cose del mondo, essendo pensiero di pensiero, ovvero specchio di se e non del mondo; e non è certo onnipotente giacché, non essendo che puro atto, nulla potrebbe fare nei confronti della natura. Insomma, il Dio aristotelico è un “Dio intellettuale”, “naturale” perfettamente chiuso nella sua propria intelligente, “felice[13]” perché incurante delle questioni altrui. Il Dio di Aristotele è bene nel senso che egli è fine di se stesso, e il fine è il bene della cosa, dunque Dio è massimo bene di sé in atto ( e non di altro ma di se stesso ).
Aristotele e la tecnica.
La filosofia pratica è una trattazione ragionevole ( non razionale ) della vita quotidiana. Aristotele non crede che la vita, nel senso etico del termine[14], sia passibile di conoscenza esatta, egli ritiene che si dia conoscenza soltanto di cose pienamente naturali, come la fisica, la metafisica e via dicendo. Della vita pratica, invece, non si dà spiegazione ma soltanto una descrizione.
La filosofia nasce solamente dopo una certa indipendenza economica da parte dei singoli, oltre alla loro necessità di spiegazione e appagamento di quell’ingenua meraviglia che affascina sempre tanto il sapiente quanto l’ignorante. Le singole tecniche, arte compresa, sono quei procedimenti che consentono la creazione di qualcosa. In questo modo, non deve stupire, secondo Aristotele, che tali forme di conoscenza, giacché esse lo sono a pieno titolo, siano preferite dai più e siano precedenti rispetto a quelle più complesse. Ciò è reso manifesto dal fatto che il filosofo è un uomo anch’egli e anch’egli, per filosofare, necessiti di oggetti fisici prodotti dal lavoro.
Oltre al benessere dell’uomo, necessario per ogni vita felice e conoscenza possibile, non nobilita la tecnica solo in relazione al fine ( ché, però, è solo strumentale ), ma anche perché la tecnica non è imitazione della natura. L’arte, infatti, intesa come attività capace di modificare la realtà per produrre oggetti, è un metodo e, come tale, imita la natura nel senso che essa procede come la natura farebbe se dovesse fare quei singoli oggetti. L’arte è isomorfa alla natura ed è imperfetta, rispetto all’esattezza naturale, per la sola ragione che in essa può, talvolta, intervenire il caso sfavorevole e non previsto, mentre nella natura questo non si dà.
L’arte è una capacità propria dell’uomo e non esisterebbe senza quello, tuttavia, essa è posta dalle stesse qualità naturali e, per ciò, non si può separare nettamente dalla natura stessa. Non a caso, tanto le produzioni artistiche che gli oggetti naturali si definiscono entrambi a partire dalla stessa analisi causale. Non è, dunque, un caso che per Aristotele sia lecito dedurre la finalità della natura dalla finalità dell’arte: se l’arte imita la natura ( nel senso che utilizza un metodo simile a quella ) e se l’arte è definita dal proprio fine, non deve per ciò sorprendere che la natura stessa sia guidata da un fine.
La nobilitazione della tecnica non deve stupire, oggi ché, semmai, bisogna nobilitare la conoscenza per se stessa[15]: la critica delle arti di Platone è celebre e mostra quella diffidenza che tutt’ora persiste contro la “teconologia”. Naturalmente, le ragioni di Platone erano di tutt’altro stampo, l’arte era una conoscenza deteriore e di seconda mano rispetto alla contemplazione diretta delle idee; tuttavia possiamo dire che l’irrazionalità che Platone vedeva in quelle forme umane di espressione, quella stessa irrazionalità che molti soffrono quando vedono che la lavatrice funziona e che la medicina riesce, manipolando quell’insieme di corpuscoli corporei sconosciuti a se stessi eppure costitutivi, a risolvere molti problemi.
Aristotele, invece, non solo nota, semplicemente, che l’arte, la tecnica, sono comunque attività che seguono principi naturali e non sono a-prescindere dalla natura, ma, semmai, esistono perché esiste la natura. Poi, esse risultano spesso preziose per la stessa sopravvivenza, in questo senso, in secondo momento, per la conoscenza stessa. In fine, esse non sono negative nemmeno su di un piano meramente teoretico, perché, comunque, manipolando la realtà, implica che si conosca, almeno per quel che compete il fine/mezzo della specifica arte, la natura che si deve manipolare.
A coronazione di questa “rivalutazione” della tecnica, Aristotele stesso scrive due opere: “la poetica” e “la retorica”. La poetica è un’analisi delle opere allora correnti e sostanzialmente induce le leggi di una buon lavoro poetico ( per esempio la tragedia ), a partire da quelle già fatte. Ne “la retorica” invece, Aristotele analizza il modo attraverso cui si può persuadere un pubblico.
Etica e vita pratica
La descrizione della vita, però, può essere ragionevole, cioè ispirata da considerazioni generali. In questo modo, per Aristotele non si dà una chiara distinzione dei valori, questi si determinano proprio a partire dalla pratica quotidiana.
In generale, la vita pratica dev’essere finalizzata al solo fine della felicità e della soddisfazione, perciò, esistono dei parametri di massima che possono considerarsi “ispirazioni” per un comportamento saggio. In questo senso, la morale aristotelica è molto lontana da quella platonica: i platonici ritenevano che la morale discendesse direttamente dalla conoscenza giacché è la conoscenza solamente che dà il privilegio di distinguere il bene dal male. Ma bene e male, ovvero, conoscenza e ignoranza, sono universali, perciò, tutti coloro che conoscono fanno il bene, tutti gli altri, al meglio, vanno a caso. Aristotele non la pensa così, sebbene ritenga che la conoscenza, in quanto pratica umana per l’uomo, soprattutto quando è premio a se stessa, sia ciò che possa dare maggiore soddisfazione.
In ogni caso, è rimasta celebre l’analisi delle ragioni secondo cui si può raggiungere la felicità, secondo Aristotele. Prima di tutto egli considera quello che dicono i più, e cioè che l’unica forma di piacere è determinato dalla sensibilità. Ma ciò è solo parzialmente vero, infatti, se ciò fosse falso allora potremmo essere felici nel pieno dolore, cosa che è, quanto meno, assai difficile. In secondo luogo, se la felicità stesse nella sola sensibilità, l’uomo sarebbe puramente un animale. E, sebbene tanti sottoscriverebbero tale affermazione, per Aristotele l’essere animali non dà soddisfazione sufficiente all’uomo perché la persona è anche ragione e, per ciò, necessita di pensare.
L’uomo, quindi, deve trovare il modo per soddisfarsi e vivere nella vita pratica. La vita, non essendo oggetto di studio, non consente di determinare con chiarezza i modi attraverso cui può essere soddisfatta, infatti, ognuno, avendo una sua indole, tenderà ad avere necessità diverse. Per questa ragione, la morale si fonda sul quotidiano e sulla relatività delle persone.
Però, possiamo affermare che se la vita non consente di determinare valori assoluti a priori, riguardo la sua soddisfazione, è anche vero che gli eccessi di tutte le virtù sono sempre sbagliate. Le virtù sono le qualità generali a cui le persone tendono. E non si dà virtù che non ammetta eccesso: l’eccesso di fratellanza determina la dissipazione dei beni, l’eccesso di amore determina la gelosia, l’eccesso di coraggio determina spesso la morte e così via. In quanto ad ogni virtù ne può essere contrapposta un’altra, se gli eccessi saranno sbagliati allora è chiaro che “virtù starà nel mezzo”.
La “virtù sta nel mezzo”, però, non implica che “il mezzo” sia per ciascuno lo stesso: se io sono un atleta, necessiterò di più cibo rispetto ad un uomo sedentario. In entrambi i casi si dà lo stesso problema del dosaggio del cibo, dunque dei due eccessi delle virtù alternative, ma, anche quando entrambi siano ispirati dalla ragione del giusto mezzo, il risultato sarà comunque diverso: “la virtù sta nel mezzo” e “due pesi e due misure”.
Aristotele non rifiutando valore conoscitivo alla sensibilità, non ne rifiuta nemmeno le sue conseguenze morali, dunque egli sostiene che per essere felici siano necessarie molte cose capaci di darci piacere: oggetti, una famiglia, un certo benessere, un po’ di riconoscimento sociale, una discreta prestanza fisica…
Infine, per quanto riguarda la teoria dell’azione, Aristotele sostiene che un’azione sia determinata in base al fine. Prima che il fine sia determinato, l’uomo è libero, nel senso che non ha ancora preso una decisione in relazione a uno scopo. La determinazione del fine è la deliberazione, che sarebbe la causa finale di una decisione. Ma per raggiungere il fine spesso sono necessari diversi mezzi, i quali costituiscono un nuovo problema. La determinazione dei mezzi, relazionata al fine, è la scelta. In questo senso, la deliberazione è la determinazione del fine, mentre la scelta è la determinazione del mezzo. Aristotele, quindi, ammette una libertà della volontà sia in relazione al fine che al mezzo, giacché quella potrebbe scegliere altrimenti da come sceglie e delibera.
Riferimenti.
Fisica. Libro I e II.
Definizione ed enumerazione dei numeri dei principi.
« Sulla base di questi risultati, dobbiamo ora dire se i principi sono due, tre o più. Non è possibile che siano uno, dal momento che i contrari non sono uno. E neppure sono infiniti, giacché in tal caso la realtà non sarebbe conoscibile: in ogni genere si trova infatti una sola coppia di contrari, e la sostanza è una nel genere; ed è possibile una spiegazione servendosi di un numero limitato di principi. Meglio da principi limitati, come dice Empedocle, piuttosto che da principi numericamente infiniti. Egli ritiene infatti di poter ottenere una spiegazione di tutte quelle cose che Anassagora spiega a partire da principi infiniti numericamente.
Inoltre taluni contrari sono primi rispetto ad altri, mentre altri sono derivati (…) mentre i principi debbono rimanere sempre immutati ».
Fisica. Libro I. Ivi. P. 27-29.
La definizione della costanza nel divenire.
« Fatte queste distinzioni, è da porre quest’assunto, e cioè che in tutto ciò che è sottoposto al divenire, come s’è detto, vi deve essere qualcosa che sempre fa da sostrato a ciò che diviene; e questo deve essere uno numericamente, ma non uno specificatamente. ( E dico che per “specie” e “per concetto” sono la stessa cosa ). Non è infatti la stessa cosa l’essenza di “uomo” e quella di “immusico”. E l’una resta immutata, l’altra no. Ciò che non è opposto rimane immutato ( infatti l’uomo permane ), mentre non permane Né “musico” né “immusico”, né il composto di entrambi, ad esempio “uomo immusico” ».
P. 33.
Qualificazione del sostrato fisico.
« In conclusione, è manifesto da quanto detto che tutto ciò che diviene, è sempre qualcosa di composto; e inoltre, che vi è per un verso la cosa che diviene, e per altro verso ciò che diviene come oggetto; e questo in senso duplice: infatti o è il sostrato, oppure il contrario. E con “contrario” intendo l’“immusico”, con sostrato, l’“uomo”; invece l’assenza di ogni figura, forma e ordine costituiscono l’opposto, mentre bronzo o pietra o oro formano il sostrato ».
P. 35
« Il sostrato è uno secondo il numero, mentre è duplice secondo la specie. ( In effetti “uomo” e “oro” –e in generale la materia numerabile, e ancor più l’individuo, e tutto ciò che diviene-, diviene a partire da questo, non in modo accidentale ). Mentre sono accidentali la privazione e il contrario. La specie invece è una, ad esempio, l’ordine o l’arte musicale o qualche altro predicato di questo genere ».
P. 35.
I primi tre principi.
« …sostrato come qualcosa di differente [ dai contrari ]. Quest’ultimo, infatti, non risulta essere un contrario. Sicché, in un certo senso i principi non sono più dei contrari ma, come s’è detto, due sul piano del numero, mentre non sono due in senso assoluto –in quanto v’è tra essi una diversità di essenza-, bensì tre. Infatti l’essenza di “uomo” è differente da quella di “immusico”, così come quella di “informe” lo è quella di “bronzo” ».
P. 37.
La materia come sostrato.
« E la materia in un certo senso si corrompe e si genera, in altro senso no. In effetti, considerata come ciò in cui è la privazione, essa per sé si corrompe, giacché ciò che si distrugge, la privazione, è contenuta in essa. Ma in quanto potenza, la materia per sé non viene meno, ma è necessariamente incorruttibile. Se infatti essa si generasse, qualcosa dovrebbe primariamente fare da sostrato, come ciò a partire dal quale essa verrebbe all’esistenza. Ma questa è appunto la sua natura, sicché essa verrebbe ad esistere prima di essere generata ».
P. 43.
Indiscutibilità dell’esistenza della natura contro l’opinione parmenidea.
« Che la natura esiste, sarebbe ridicolo tentare di dare una dimostrazione. E’ infatti evidente che esistono molte cose di questo genere. E cercare di dimostrare cose evidenti, servendosi di cose che evidenti non sono, è proprio di colui che non è in grado di distinguere tra ciò che è conoscibile per sé e ciò che invece non lo è ».
Ivi. Fisica. Libro II. P. 51.
Il concetto di natura.
« In un senso, dunque, “natura” si dice in questo modo –cioè la materia che fa da sostrato primo alle cose che hanno in se stesse il principio di movimento e di cambiamento -, mentre in altro senso “natura” è la forma e la specie e ciò che è conforme alla definizione. Così come in effetti “tecnico” si dice “ciò che è conforme a tecnica” e “ciò che è tecnico”, così si dice “natura”, “ciò che è conforme alla natura” e “ciò che è naturale” ».
Pp. 51-53.
Differenze tra matematico e fisico.
« Di queste cose [ dei corpi celesti ], dunque, tratta anche il matematico –ma non in quanto ciascuna di esse costituisca un limite del corpo fisico-, né egli esamina gli attributi in quanto questi si predicano di queste realtà. Ed è per questo motivo che egli li separa, perché essi sono, sul piano conoscitivo, separabili dal movimento né, se vengono separati, questo fa alcuna differenza né si produce errore. Anche quanti sostengono la dottrina delle idee fanno la stessa cosa, ma senza rendersene conto. Essi infatti separano gli oggetti fisici, che pure sono meno sparabili di quanto non lo siano gli enti matematici. Questo diviene subito chiaro, non appena uno si sforza di dire le definizioni di entrambi, ossia di quelle cose stesse e dei loro attributi. Da un lato, infatti, dispari e pari, retta e curva, e d’altro lato numero, linea e figura esistono senza movimento; mentre carne, ossa e uomo, non sono mai tali, ma queste ultime si dicono come quando parliamo di “naso camuso”, non di “linea curva” ».
P. 55.
Sulla finalità.
« Inoltre, a questa stessa scienza compete lo studio di “ciò in vista di cui” e del fine, e di quanto è in funzione del fine. La natura è infatti fine e causa finale. E poiché il movimento muta di continuo verso un qualche fine, questo è termine e scopo finale. ( E per ciò anche il poeta mosse al riso quando si spinse a dire: “egli ha la fine per la quale era nato”. Non ogni termine finale, infatti, è fine, ma solo ciò che è il meglio ). E giacché anche le arti producono il materiale –le une in modo indeterminato, le altre in rapporto al loro ben operare-, così anche noi ci serviamo di tutte le cose come se esse esistessero in vista di noi stessi… ».
P. 57.
La causalità materiale, formale e finale.
« In un senso, dunque, si dice causa in senso primario “ciò da cui” una cosa si genera, come ad esempio il bronzo rispetto alla statua, l’argento rispetto alla coppa e i diversi tipi di bronzo rispetto alla statua, l’argento rispetto alla coppa; in altro senso, si dice causa “la forma” e “il modello”, cioè la definizione e l’essenza (…). E le parti che sono nella definizione
E inoltre, donde è il primo principio del cambiamento o del riposo? Ad esempio: l0uomo che delibera è causa, o il padre è causa del figlio, e in generale ciò che agisce è causa rispetto a ciò che è prodotto, e ciò che impone il cambiamento lo è rispetto al risultato del mutamento. Insomma, causa nel senso del fine, è “ciò in vista di cui: ad esempio, la salute è il fine del camminare ».
P. 59.
Causalità efficiente.
« E questo non in senso accidentale: ad esempio, cause della statua sono e la statuaria e il bronzo, e non per una qualche ragione esterna, ma in quanto essa è statua. E questo non nello stesso modo, ma l’una è causa in quanto materia, l’altra in quanto causa efficiente del movimento. E talune sono cause l’una dell’altra: ad esempio, il faticare è causa dell’irrobustirsi, mentre l’esser robusto lo è del faticare. Ma non sono cause nello stesso modo, bensì l’no è causa come fine, l’altro come principio del movimento ».
P. 61.
Spiegazione della fortuna..
« In effetti, taluni mettono in questione la loro esistenza o meno [ della fortuna e del caso ]. Dicono infatti che nulla si genera per fortuna, ma c’è sempre una causa determinata anche di quelle cose che diciamo prodursi per fortuna o per caso: ad esempio, giungere per fortuna all’agorà ed imbattersi in colui che si desiderava ma senza averlo previsto: ora questo evento ha per causa la decisione di recarsi per affari all’agorà. Del pari avviene anche per tutte le altre cose che diciamo accadere per fortuna: uno può sempre risalire ad una qualche causa, ma non alla fortuna: ché, se la fortuna fosse qualcosa di esistente, apparirebbe assurdo che nessuno degli antichi sapienti, che pure hanno fatto oggetto di indagine le cause della generazione e della corruzione, abbia dato alcuna determinazione della fortuna; bensì, a quanto pare, non riteneva che alcuna cosa sia per fortuna. Ma anche questo meraviglia: molte cose, infatti, che si producono e provengono da fortuna e da caso, pur non ignorando che possono essere ricondotte ad una qualche causa ( e per questo motivo l’argomento antico, che affermava ciò, sopprimeva la fortuna ), ciò non di meno alcuni sostengono che talune di queste cose sono per fortuna, altre no. ».
P. 65.
Ciò che senz’altro non si genera per fortuna, ma fortuna e caso esistono.
« In primo luogo, poiché non abbiamo esperienza che talune cose si generano sempre nello stesso modo, altre solo per lo più, è evidente che, né per le une né per le alte si può affermare che causa è la fortuna, né che esse si generano da fortuna, né che questi eventi sono di necessità e sempre, né che accadono per lo più. Ma dal momento che vi sono, oltre queste, altre cose che tutti sostengono accadere fortunosamente, è chiaro allora che anche fortuna e caso sono qualcosa di realmente esistente ».
P. 67.
Il senso relativo della fortuna.
« Sono dunque necessariamente indeterminate le cause dalle quali potrebbe capitare quanto avviene per fortuna. Donde la fortuna sembra essere propria dell’ambito delle cose indeterminate e oscure per l’uomo; e si potrebbe ritenere che nulla avviene per “fortuna”. E tutto questo è detto correttamente, in quanto ben fondato. In effetti esiste qualcosa che si produce “per fortuna”, poiché avviene accidentalmente, e la fortuna è causa in quanto accidente. Ma essa, in senso assoluta, non è causa di nulla. Ad esempio: l’architetto è causa della casa; per accidente potrebbe esserlo anche l’atleta. E le cause del fatto che, essendo venuto di là, ha riavuto il denaro, pur non essendosi recato per questo fine, sono infinite di numero. In effetti può aver desiderato vedere un tale, e lo ha seguito o evitato, e può essersi recato a vedere uno spettacolo.
Ed è giusto dire che la fortuna è qualcosa che va contro ogni ragionamento. Infatti, il ragionamento è sempre in riferimento alle cose che sono sempre o che avvengono per lo più, mentre la fortuna è in rapporto alle cose che avvengono al di fuori di questi casi ».
P. 71.
Conclusioni intorno alla casualità.
« Entrambi, fortuna e caso, sono dunque cause, come avviamo avuto modo di dire, ma per accidente, delle cose che accadono non in modo necessario né per lo più, e sono in rapporto con tutte quelle cose che potrebbero prodursi in vista di un fine ».
P. 71.
L’esser qualcosa vano.
« …“l’invano”: ciò che è naturalmente disposto in vista di un fine, quando esso non consegue il fine in vista del quale per natura esso è posto come mezzo ».
P. 73.
Riassunto sintetico delle cause esistenti in natura.
« E’ ormai del tutto chiaro che esistono delle cause, e che sono tante di nuero quante noi diciamo. Il numero delle cause è infatti identico a quello compreso nel “pe3rché”. Il “che cos’è” si riconduce infine, nelle cose immobili, come ad esempio negli enti matematici, al “perché” ( alla definizione della retta o alla commensurabilità o a qualcosa si questo tipo ); o a ciò che muobe prima, come ad esempio nella questione: “perché si è fatta la guerra”? “Perché vi era stato un furto”. “A quale scopo”? “per dominare”. O in riferimento alle cose che si sono generate, la causa si riconduce alla materia ».
P. 75.
Problema del fine in natura.
« E dunque: che cosa impedisce che avvenga allo stesso modo anche per le parti delle cose che sono da natura? Ad esempio, prendiamo in considerazione i denti: di necessità gli uni, gli incisivi, sono aguzzi e adatti a tagliare, mentre gli altri, i molari, sono piatti e dunque adatti a masticare il cibo? Essi certo non sono generati a questo fine, ma risultano tali per accidente. Ed è così anche per le altre parti, nelle quali sembra esservi una finalità. E vogliamo riferirci a quegli esseri nei quali è avvenuto come se tutto fosse prodotto in vista di un fine, mentre le cose si sono ritrovate costituite in modo opportuno, casualmente; le cose invece che non si sono trovate organizzate in modo adeguato, sono perite e periscono, così come Empedocle afferma in riferimento ai buoi dal muso umano.
Questo è dunque il ragionamento che fanno quanti muovono obiezioni, di questo tipo o simili, su quest’spetto particolare. Ma è impossibile che stia così. In effetti queste e tutte le altre cose che sono da natura, o si generano sempre in questo modo, o per lo più, e nessuna di esse si genera per fortuna o a caso. Infatti non è in modo fortuito o casualmente che capita di piovere spesso in inverno, mentre questo sarebbe vero se accadesse durante la canicola; e la canicola non fosse in estate, ma piuttosto durante l’inverno. Se dunque c’è caldo, questo sembra essere o a caso o in vista di un fine; e se non è possibile che queste cose accadano o per circostanze fortuite o a caso, avverranno in vista di un fine. Ma tutte queste cose sono da natura, come ammettono anche coloro che sostengono tale tesi; dunque nelle cose che si generano o esistono per natura, è presente l’operare in vista di un fine ».
P. 79.
Definizione del necessario.
« Allora, ciò che è necessario dipende da un’ipotesi, non si dà come fine. La necessità è infatti nella materia, mentre il fine è nel concetto.
La necessità è pressappoco nello stesso modo nelle cose matematiche e nelle cose che si generano secondo natura. Se la retta, infatti, è così necessariamente allora il triangolo avrà gli angoli uguali a due retti. Ma non nel senso: poiché si dà questo, allora ne consegue quello; ma: se questo non si dà allora non si da neppure la retta ».
P. 85.
Le parti degli animali.
La causa più importante nella generazione: la causa finale.
« Inoltre, poiché vediamo davvero molte cause per quel che concerne la generazione naturale, come quella finale e quella donde è il principio del movimento, si deve definire anche intorno ad esse quale è per natura prima e quale seconda. E’ evidente che sia prima quella che diciamo fine di qualcosa, giacché la nozione è questo: nozione è ugualmente principio sia nei [ prodotti ] tecnici, sia nelle cose costituite per natura ».
P. 189.
La natura si svolge come la tecnica perché la tecnica imita la natura.
« Il fine e il bello sono più nelle opere della natura che in quelle della tecnica. Ciò è per necessità, cui quasi tutti cercano di riportare i loro discorsi, senza distinguere in quanti modi si dice necessario, non appartiene però ugualmente a tutte le cose che sono per natura. [ Il necessario ] assoluto appartiene alle cose eterne, quello per ipotesi, invece, sia a tutte quelle in generazione che anche a quelle tecniche, come alla casa o a qualsiasi cosa tra le altre siffatte. E’ necessario che sussista una tale materia, se ci sarà una casa o qualche altro fine; e bisogna che si generi e sia mossa prima questa cosa, poi l’altra, e [ che sia ] in questo modo sino al compimento e al fine per cui ciascuna cosa si genera ed è. Nella sessa maniera anche nelle cose che si generano per natura. Il modo della dimostrazione della necessità, tuttavia, è diverso nella fisica e nelle scienze teoretiche –si è parlato altrove di queste cose- giacché principio è per alcune cose ciò che è, per altre invece ciò che sarà ».
P. 191.
Tutta la scienza è fisica?
«Chi avesse prestato attenzione a ciò che è stato detto finora, potrebbe chiedersi se sia proprio della fisica trattare di tutta l’anima o piuttosto di una certa parte. Se, infatti, essa tratta di tutta l’anima, non resta nessuna filosofia oltre alla fisica, giacché c’è intelligenza di ciò che è intelligibile: e così ci sarebbe conoscenza fisica intorno a ogni cosa, giacché di essa è proprio indagare intorno all’intelligenza e all’intelligibile, poiché sono relativi, e la scienza di tutti i relativi è la stessa, come per la sensazione e le cose sensibili. Ma non è tutta l’anima ad essere principio di movimento, né tutte le sue parti, bensì quella preposta all’accrescimento, come è nelle piante, o quella che riguarda la percezione del mutamento, o, diversamente quella preposta al movimento, ma non quella intellettiva: infatti il movimento si trova anche in altri animali, ma non l’intendimento. E’ chiaro dunque che non si deve parlare di tutta l’anima, giacché non tutta l’anima è natura, bensì solo una certa parte di essa, o anche più [ di una ] ».
P. 199.
La natura secondo Aristotele non segue il principio di inerzia.
« In tutti i modi noi invece affermiamo che questa cosa ha questo fine, qualora sia evidente il termine cui tende il movimento se nulla è di ostacolo ».
P. 199.
Definizione della forma.
« La differenza è la forma nella materia. Infatti né esiste alcuna parte di animale senza materia, né essa [ può essere ] solo materia, giacché un corpo non sarà un animale comunque sia, né nessuna delle parti, come si è detto più volte ».
P. 207.
Definizione di specie ultima.
« Poiché le specie ultime sono sostanze, e queste sono indifferenziate secondo la specie ( come Socrate, Corsico ), è necessario o che siano dette prima le cose che appartengono in forma universale, oppure che si dicano più volte le stesse cose, come si è detto. ( Le cose universali sono comuni, giacché diciamo che l’universale appartiene a molti ). (…) Forse dunque è corretto dire le cose in comune secondo i generi: tutte le definizioni usuali che sono enunciate correttamente hanno un’unica natura comune e specie non molto distanti nello stesso [ genere ], [ ad esempio ] “uccello” e “pesce”, e anche qualche altro privo di nome, se c’è, per genere comprende ugualmente le speicie che vi si trovano; tutte quelle che, invece, non sono siffatte, [ è corretto esplicarle ] singolarmente, come per quanto riguarda l’uomo o un’altra [ specie ] diversa, se c’è ».
P. 215.
Metafisica. Libro I.
Definizione di natura umana in relazione alla conoscenza.
« Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose ».
P. 3. Ivi.
Distinzione tra uomo e gli altri animali.
« Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’esperienza unica. L’esperienza, poi, sembra essere alquanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, come dice Polo, produce l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed unico riferibile a tutti i casi simili ».
P. 3.
Sulla distinzione tra uomo empirico e sapiente e sue conseguenze.
« E, tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri più all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono l’arte più sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza in ciascuno degli uomini, corrisponda al loro grado di conoscere. E, questo, perché i primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa.
Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle singole arti siano più degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e siano più sapienti dei manovali, in quanto conoscono le cause delle cose che vengon fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere ciò che fanno, così come agiscono alcuni degli esseri inanimati, per esempio, così come il fuoco brucia: ciascuno di questi esseri inanimati agisce per un certo impulso naturale, mentre i manovali agiscono per abitudine Perciò consideriamo i primi come più sapienti, non perché capaci di fare, ma perché in possesso di un sapere concettuale e perché conoscono le cause ».
Pp. 5-7.
Sull’insegnamento e il suo criterio di esistenza.
« In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia soprattutto la scienza e non l’esperienza; infatti coloro che posseggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre coloro che posseggono l’esperienza non ne sono capaci ».
P. 7.
Definizione del sapiente.
« Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata. Inoltre, reputiamo sapiente chi capace di conoscere le cose difficili o non facilmente comprensibili per l’uomo ( infatti la conoscenza sensibile è comune a tutti e, per tanto, è facile e non è affatto sapienza ). Ancora, reputiamo che, in ciascuna scienza, sia più sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Riteniamo anche che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per sé e al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado sapienza la scienza che gerarchicamente sopraordinata rispetto a quella che è subordinata: infatti, il sapiente non deve essere comandato ma deve comandare, né egli deve ubbidire ad altri, ma a lui deve ubbidire chi è meno sapiente ».
P. 9.
Definizione del principio primo.
« …la scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile. Ora, conoscibili in massimo grado sono i principi e le cause; infatti, mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggette. E la più elevata delle scienze, quella che più deve comandare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine, e, in generale, nella natura tutta, il fine è il sommo bene ».
P. 11.
Il fine del sapere.
« Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica ».
P. 11.
Tesi di Talete.
« Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia [ intorno alle cause ], dice che quel principio è l’acqua ( per questo afferma anche che la terra galleggia sull’acqua ), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido ».
P. 17.
Problema dell’unicità della causa materiale.
« In base a questi ragionamenti, si potrebbe credere che ci sia una causa unica: quella che diciamo causa materiale. Ma, mentre questi pensatori procedevano in questo modo, la realtà stessa tracciò loro la via e li costrinse a ricercare ulteriormente. Infatti, ammesso anche che ogni processo di generazione e di corruzione derivi da un unico elemento materiale, o anche da molti elementi materiali, perché mai esso ha luogo o quale ne è la causa? Infatti, non è certo il sostrato che fa mutare se stesso. Portiamo un esempio: non è il legno né il bronzo , singolarmente presi, sono causa del proprio mutare; il legno non fa il letto né il bronzo fa la statua ma causa del loro mutamento è qualcos’altro ».
P. 19.
Il paradosso di chi sostiene l’unicità del sostrato.
« Anzi, alcuni di coloro che affermano questa unicità del sostrato, quasi sopraffatti dalla difficoltà di questa ricerca del principio del movimento, affermano che questo sostrato uno è immobile e che è immobile anche tutta la natura… ».
P. 19.
Conclusioni sull’analisi delle dottrine dei filosofi precedenti intorno alla causalità.
« In conclusione, dalle cose dette e dalle dottrine dei sapienti, che abbiamo chiamati in causa nella presente discussione, abbiamo tratto quanto segue. I primi filosofi hanno posto il principio materiale ( infatti acqua fuoco e simili sono corpi ); e alcuni lo hanno posto come unico, altri invece come una pluralità di principi materiali; gli uni e gli altri, comunque, lo hanno considerato di natura materiale. Inoltre, alcuni pongono questa causa, ma, oltre questa, pongono anche la causa motrice; e, questa, ulteriormente, secondo alcuni è unica, secondo altri è duplice.
Gino a i filosofi italici ( questi però esclusi ), tutti i filosofi hanno discorso delle cause in modo piuttosto inadeguato (…) ».
P. 33.
Breve, essenziale ma completa introduzione a Platone.
« Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo e seguace delle dottrine eraclietee, secondo le quali tutte quante le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell’ambito di quelle ricercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene, Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili: infatti, egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, perché soggetti a continuo mutamento. Egli, allora, denominò queste altre realtà Idee, e afferma che i sensibili esistono accanto ad esse e che vengono tutti denominati in base ad esse; infatti, per “partecipazione” alle Forme esiste la pluralità delle cose sensibili che hanno lo stesso nome delle Forme. Per quanto concerne la “partecipazione”, Platone ha innovato soltanto il nome. Infatti i Pitagorici dicono che gli esseri sussistono per “imitazione” dei numeri; Platone dice, invece, per “partecipazione”, cambiando, però, soltanto il nome. In ogni modo, tanto gli uni quanto l’altro hanno egualmente trascurato di indicare che cosa significhi “partecipazione” e “imitazione delle Forme.
Inoltre, egli afferma che, accanto ai sensibili e alle Forme, esistono Enti matematici “intermedi” fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai sensibili perché immobili ed eterni, e differiscono dalle Forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna Forma è solamente una e individua.
Poiché, quindi, le Forme sono cause delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle Forme fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme egli poneva il grande e il piccolo, e come causa formale l’Uno; infatti riteneva che le Forme e i numeri derivassero per partecipazione del grande e del piccolo all’Uno ».
Pp. 35-37.
Continuazione dell’enunciazione della dottrina platonica.
« L’aver posto l’Uno e i Numeri fuori delle cose, a differenza dei Pitagorici, e anche l’aver introdotto Forme, furono conseguenza dell’indagine basata su pure nozioni, che è propria di Platone: i suoi predecessori, infatti, non conoscevano la dialettica. Invece, l’aver posto una diade come natura opposta all’Uno fu al fine di poter fare derivare da essa, in odo facile, come da una matrice, tutti i numeri, tranne quelli primi. E, invece, accade proprio il contrario; questa dottrina, in effetti, non è ragionevole. Essi, infatti, dalla materia fanno derivare molte cose, mentre dalla Forma dovrebbe derivare una cosa sola. Invece, risulta chiaramente che da un’unica materia si ricava, per esempio, un solo tavolo, mentre l’artefice che applica la forma, pur essendo uno solo, produce molti tavoli. Si ha, qui, lo stesso rapporto che si ha fra maschio e femmina: questa è fecondata da un solo accoppiamento, mentre il maschio può fecondare molte femmine. ».
P. 37.
Chiave di lettura della critica aristotelica a Platone.
« Da quanto si è detto, risulta chiaro che egli ha fatto uso di due sole cause: di quella forma e di quella materia. Infatti le Idee sono cause formai delle altre cose, e l’Uno è causa formale delle Idee. E alla domanda quale sia la materia avente funzione di sostrato, di cui si predicano le Idee –nell’ambito dei sensibili-, e di cui si predica l’Uno –nell’ambito delle Idee-, egli risponde che è la diade, cioè il grande e il piccolo ».
P. 39.
Conclusioni sulla dottrina delle cause.
« Dunque, che il numero e la natura delle cause siano stati da noi definiti con esattezza ci sembra che lo attestino anche tutti questi filosofi, in quanto non ne hanno sapete cogliere altre. Inoltre, è evidente che si devono studiare tutti quanti i principi in questi quattro modi, oppure in qualcuno di questi quattro modi ».
P. 41.
Considerazioni critiche sul pensiero dei predecessori.
« Infatti, essi pongono solamente gli elementi delle realtà corporee, ma non di quelle incorporee, mentre esistono anche realtà incorporee.
Inoltre, pur cercando di indicare quali siano le cause della generazione e della corruzione, e pur spiegando tutte le cose da un punto di vista naturalistico, essi sopprimono la causa del movimento.
Per di più, errano poiché non pongono la sostanza e l’essenza come causa di alcuna cosa.
Inoltre, errano anche perché additano come principio, in maniera semplicistica, uno qualsiasi dei corpi semplici, ad eccezione della terra, senza aver riflettuto su modo in cui questi –ossia fuoco, acqua, terra e a aria- si generino gli uni dagli altri ».
P. 43.
Metafisica. Libro V.
Significati di “principio”.
« Principio significa, in un senso, la parte di qualcosa da cui si può cominciare a muoversi (…)
In altro senso, principio significa il punto partendo dal quale ciascuna cosa può riuscire nel modo migliore; per esempio, nell’apprendimento della scienza, talora, non bisogna incominciare da ciò che è oggettivamente primo e fondamento della cosa, ma dal punto partendo dal quale più facilmente si può imparare.
In altro senso, principio significa la parte originaria e interna alla cosa e da cui la cosa stessa deriva (…)
In altro senso, principio significa la generazione, ossia la causa prima del movimento e del mutamento (…)
In altro senso, il principio significa ciò per volere del quale si muovono le cose che si muovono e si mutano le cose che si mutano (…)
Inoltre il punto di partenza per la conoscenza di una cosa si dice, esso pure, principio della cosa (…)
Dunque, carattere comune a tutti i significati di principio è di essere il primo termine a partire dal quale una cosa o è generata o è conosciuta ».
Pp. 189-191.
Definizione generale di causa.
« Causa, in un senso, significa la materia di cui sono fatte le cose: per esempio, il bronzo della statua, l’argento della tazza e i generi di questi.
In un altro senso, causa significa la forma e il modello, ossia la nozione dell’essenza e i generi di essa; per esempio, nell’ottava la causa formale è il rapporto di due a uno, e, in generale, il numero. E [ causa in questo senso ] sono anche le parti che rientrano nella nozione dell’essenza.
Inoltre, causa significa il principio primo del mutamento o del riposo; per esempio, è causa chi ha preso una decisione, il padre è causa del figlio e, in generale, chi ha è causa di ciò che vien fatto e ciò che è capace di produrre mutamento è causa di ciò che subisce mutamento.
Inoltre, la causa significa il fine, vale a dire lo scopo delle cose: per esempio, lo scopo del passeggiare è la salute. Infatti, per quale ragione uno passeggia? Rispondiamo: per essere sano. E, dicendo così, noi riteniamo di aver addotto la causa del suo passeggiare. E lo stesso si dica di tutte quelle cose che sono mosse da altro e sono intermediari fra il motore e il fine: per esempio, il dimagrire, il purgarsi, le medicine, gli strumenti medici sono tutte cause della salute: tutte, infatti, sono in funzione del fine e differiscono tra loro in quanto sono, alcune strumenti, altre azioni.
Questi sono, probabilmente, tutti i significati di causa. E, appunto, perché causa si intende inm molteplici significati, ne viene di conseguenza che ci siano molte cause del medesimo oggetto, e non per accidente: per esempio, sono cause della statua sia l’arte dello scopiere sia il bronzo, e non della statua considerata secondo differenti aspetti, ma propri in quanto statua; esse non sono, tuttavia, cause nello stesso modo, ma una è causa come materia, l’altra, invece, come principio del movimento. E ne viene di conseguenza, anche, che ci siano cause reciproche: l’esercizio fisico, per esempio, è causa di vigoria e questa è causa di quello: non però nello stesso modo, ma la vigoria è causa in quanto fine, l’altro invece come principio del movimento. Inoltre, una medesima cosa può essere causa di una determinata cosa, diciamo, talvolta che non la sua essenza è causa del contrario: l’assenza del pilota, per esempio, è causa del naufragio; la presenza di lui, invece, è causa della salvezza. Ambedue poi –e la presenza e l’assenza- sono cause motrici.
Le cause di cui abbiamo detto si riducono tutte a quattro tipi. Infatti, le lettere delle sillabe, la materia degli oggetti artificiali, il fuoco, la terra e tutti gli altri corpi come questi, le parti del tutto e le premesse delle conclusioni sono cause nel senso che sono ciò da cui le cose derivano. E, in generale, di queste alcune sono cause in quanto sostrato ( per esempio le parti ), altre invece come essenza ( l’interno, la composizione e la forma ). Il seme, il medico, chi opera una scelta e, in generale, l’agente sono tutti principi di mutamento o di stasi. Altre sono cause in quanto sono il fine e il bene di altre cose: lo scopo, infatti è il bene supremo e il fine delle altre cose ( e qui non importa che s tratti del vene reale o del bene apparente ).
Queste sono, dunque, le cause, e questo è il numero delle specie di esse. Anche i modi di essere delle cause sono numerosi, ma sono essi pure riducibili a pochi.
Anche le cause della medesima specie si intendono in molteplici significati; fra queste, l’una è causa in senso anteriore e l’altra in senso posteriore_ della salute, per esempio, sono causa sia il medico sia l’uomo che ha l’arte, e dell’ottava sono causa sia il doppio sia il numero, e, sempre, le cause generali che abbracciano le cause particolari sono causa di ciascuno degli effetti particolari.
Ci sono, oltre, le cause accidentali e i generi di queste: della statua, per esempio, in un senso è causa lo scultore e, in un altro senso, è causa Policleto, perché accade che lo scultore sia Policleto. E sono cause anche i generi delle cause accidentali che abbracciano le cause accidentali particolari: della statua per esempio è causa l’uomo o, in generale, l’animale, perché Policleto è un uomo e l’uomo è un animale. Anche fra le cause accidentali, alcune sono più lontane, altre invece sono più vicine: così, per esempio, se uno dicesse che causa della statua è il bianco e il musico, e non solo Policleto e l’uomo.
Tutte le cause –sia quelle intese in senso proprio, sia quelle intese in senso accidentale- vengono dette tali alcune in quanto sono in potenza, altre in quanto sono in atto: causa della costruzione di una casa, per esempio, è un architetto che può costruire, oppure un architetto che sta attualmente costruendo. ( Le stesse cose si dovranno dire per gli effetti prodotti dalle cause: per esempi, si potrà dire che qualcosa è causa di questa particolare statua, oppure, in generale, dell’immagine; e si potrà anche dire che è causa di questo particolare bronzo, oppure del bronzo, oppure, ingenerale, della materia. E lo stesso si dirà a proposito degli effetti accidentali ).
Inoltre, si potranno anche dire e cominciare insieme le cause intese in senso proprio e quelle intese in senso accidentale; per esempio, quando si dice non semplicemente “Policleto” o “scultore”, ma “Policleto scultore”.
Tutte queste cause si riducono a sei di numero, e ciascuna di esse, ulteriormente, viene intesa in un duplice senso. E precisamente esse sono cause o come particolare, o come genere, o come accidente, o come genere dell’accidente o come combinate insieme le une e le altre o come prese ciascuna per sé; tutte, poi, sono intese o come cause in atto o come in potenza. Esse, però, differiscono in questo: che le cause in atto e le cause particolari esistono o non esistono contemporaneamente alle cose di cui sono cause: per esempio, questo particolare medico che sta curando e questo particolare paziente che è curato, oppure questo particolare architetto che sta costruendo e questa casa che è in costruzione. Invece, per le cause in potenza non sempre è così: infatti, la casa e l’architetto non periscono contemporaneamente ».
Pp.191-195.
Significato generale di elemento.
« A tutti questi significati è comune questo: elemento di ciascuna cosa è il costitutivo primo ad essa immanente ».
P. 197.
Significati principali di natura.
« Natura significa, in un senso, la generazione delle cose che crescono ( così si intende come lunga la lettera “ν” del termine “φύσις” ).
In un altro senso, natura significa il principio originario e immanente, da quale si svolge il processo di crescita della cosa che cresce.
Inoltre, natura significa il principio del movimento primo che è in ciascuno degli esseri naturali e che esiste in ciascuno di essi, appunto in quanto è essere ntaruale.
(…)
Inoltre, la natura significa il principio materiale originario di cui è fatto o da cui deriva qualche oggetto naturale, e che è privo di forma ed incapace rimutare in virtù della sola potenza che gli è propria.
(…)
Inoltre, (…), natura significa la sostanza degli esseri naturali ».
P. 199.
Significato di necessario.
« Necessario significa ciò senza cui concorso non è possibile vivere (…), E Significa anche ciò senza il cui concorso il bene non può né esistere né prodursi, ovvero ciò senza il cui concorso il male non può essere eliminato (…).
Inoltre, necessario significa ciò che costringe e la costrizione. (…)
…ciò che non può essere in modo diverso da come è, diciamo che necessario che così sia.
(…)
Inoltre, nell’ambito delle cose necessarie rientra anche la dimostrazione, perché –se si tratta di una dimostrazione vera e proprie- non è possibile che le conclusioni siano diverse da come sono ».
Pp. 201-203.
Significato generale dell’unità.
« In generale, tutto ciò che è indivisibile, e appunto in quanto indivisibile, vien detto unità: per esempio, se alcune cose sono indivisibili, se considerate come uomo, esse saranno l’unità uomo; se, invece, sono indivisibili considerate come animale, saranno l’unità animale, e se sono indivisibili considerate come grandezze, saranno l’unità grandezza ».
P. 209.
Definizione di essere per accidente e per essenza.
« Dunque le cose che si dicono essere in senso accidentale, si dicono così: o perché si tratta di due attributi che appartengono ad una medesima cosa che è, oppure perché si tratta di un attributo che appartiene alla cosa che è, oppure, ancora, perché ciò cui appartiene come accidente quello di cui è esso stesso predicato, è ciò che propriamente è.
Essere per sé sono dette, invece, tutte le accezioni che ha l’essere secondo le figure delle categorie: tane sono le figure delle categorie e altrettanti sono i significati dell’essere ».
P. 213.
Definizione generale di sostanza.
« Ne risulta che la sostanza si intende secondo due significati: ciò che è sostrato ultimo, il quale non viene più predicato di altra cosa, e ciò che, essendo un alcunché di determinato, può anche essere separabile, e tale è la struttura e la forma di ciascuna cosa ».
P. 217.
Definizione di “simile”.
« Simili si dicono le cose che hanno affezioni identiche in tutti i sensi, e le cose che hanno un numero di affezioni identiche maggiore del numero di quelle diverse e anche quelle la cui qualità è identica; infine, una cosa è simile ad un’altra quando ha in comune con questa o il maggior numero di contrari secondo i quali le cose possono alterarsi, oppure i principali di questi contrari ».
P. 219.
Ciò che anteriore in senso essenziale.
« (…) si dicono anteriori e posteriori secondo la natura e secondo la sostanza: tali sono tutte quelle cose che possono esistere indipendentemente da altre, mentre queste altre non possono esistere senza di quelle: distinzione, questa, di cui si avvaleva Platone ».
P. 225.
La potenza.
« Potenza, in primo luogo, significa il principio di movimento o di utamento che si trova in altra cosa oppure in una stessa cosa in quanto altra. L’arte del costruire, per esempio è una potenza che non si trova nella cosa che vien costruita; invece, l’arte del guarire, che è pure una potenza, può anche trovarsi in colui che viene guarito, ma non in quanto viene guarito (…)
il principio per cui una cosa è fatta mutare o è mossa da altro o da se stessa in quanto altra: infatti, in virtù di questo principio per il quale il paziente patisce qualche modificazione, noi diciamo che il paziente stesso ha la potenza di patire modificazioni ».
Pp. 225-227.
Definizione generale di potenza.
« In conclusione, la definizione principale del significato fondamentale di potenza sarà: potenza è principio di mutamento in altra cosa o nella stessa cosa in quanto altra ».
P. 231.
La definizione generale di perfezione.
« …le cose si dicono perfette per sé in tutti questi sensi: alcune perché, rispetto al bene loro, non mancano di nulla o non sono sorpassate da altre e non hanno alcuna loro parte fuori di sé; altre, in generale, perché non sono superate da altro e non hanno alcuna parte fuori di sé nell’ambito del loro genere ».
P. 241.
Rapporto tra essere e conoscenza.
« Limite è detta anche la sostanza e l’essenza di ciascuna cosa: questa è, infatti, limite della conoscenza; e se è limite della conoscenza lo è anche della cosa ».
P. 243.
Il falso.
« Le cose dunque si dicono false in questo senso: o perché esse stesse non esistono, ovvero perché l’immagine che da esse deriva è di una cosa che non esiste ».
P. 261.
Etica nicomachea.
Ogni arte e ogni ricerca, e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche vene; perciò a ragione definirono il bene: ciò a cui ogni cosa tende. (…) E poiché vi sono molte azioni e arti e scienze, vi sono anche molti fini: infatti il fine della medicina è la salute, quello della costruzione navale il navigare, quello della strategia la vittoria, quello dell’economia la ricchezza. (…) Ma, in tutte, i fini delle scienze architettoniche sono più importanti dei fini di quelle subordinate. Infatti solo in funzione di quelli si seguono anche questi. (…) Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola ( così infatti s’andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota e inutile ), in tal caso è chiaro che questo dev’essere il bene e il bene supremo. E non è forse vero che per la vita la conoscenza del bene ha una grande importanza e che possedendola, come gli arcieri che sanno il loro scopo, meglio possiamo scoprire ciò che si deve? Se è così, occorre cercare di precisare anche sommariamente che cosa mai esso sia e a quale delle scienze o delle capacità appartenga. Sembrerebbe che debba appartenere alla più importante e alla più architettonica. Questa sembra essere la politica. Essa determina quali scienze sono necessarie nelle città e quali ciascuno deve apprendere e fino a che punto. (…) Dal momento che essa si serve delle altre scienze pratiche, e inoltre stabilisce che cosa bisogna fare e che cosa evitare, il suo fine potrebbe comprendere quello delle altre, cosicché esso sarebbe il bene umano. Se infatti identico è il bene per il singolo e per la città, sembra più importante e perfetto scegliere e difendere quello della città; certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città. (…)
Torniamo dunque alla questione del bene, che cosa esso sia. E’ evidente che esso è diverso nelle diverse azioni e arti; diverso infatti è nella medicina e nella strategia e così nelle altre. Che cos’è dunque il bene di ciascuna? E’ forse ciò in vista del quale si fan le altre cose? Tale è nella medicina la salute, nella strategia la vittoria, nell’architettura la casa, e così di seguito, è il fine in ogni azione e in ogni proposito: è in vista di esso che tutti compiono le altre cose. Cosicché, se vi è un fine di tutte le cose che si compiono, questo dev0essere il bene realizzato; e se vi sono più fini, questi sono il bene. Così su questa via il nostro ragionamento ritorna al punto di partenza. Tuttavia dobbiamo cercare di chiarire ciò ancor meglio. Poiché dunque i fini appaiono essere numerosi, e noi scegliamo alcuni di essi solo in vista d’altro, come ad esempio la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti, è evidente che non tutti sono fini perfetti, mentre il sommo bene dev0essere qualcosa di perfetto. Cosicché, se vi è di più esso sarà il più perfetto di essi. Noi diciamo dunque che è più perfetto il fine che si persegue di per se stesso che non quello che si persegue per un altro motivo e che ciò che non è scelto mai in vista d’altro è più perfetto dei beni scelti contemporaneamente per se stessi e per queste altre cose, e insomma il bene perfetto è ciò che deve essere sempre scelto di per sé e mai per qualcosa d’altro., Tali caratteristiche sembra presentare soprattutto la felicità; infatti noi la desideriamo sempre di per se stessa e mai per qualche altro fine; mentre invece l’onore e il piacere e la ragione e ogni altra virtù li perseguiamo bensì di per se stessi ( infatti se anche essi dovessero esser privi di ulteriori effetti, noi desidereremmo ugualmente ciascuno di essi ), tuttavia li scegliamo anche in vista della felicità, immaginando di ptoer essere felici attraverso questi mezzi. Invece la felicità nessuno la sceglie in cista di questi altri beni, né in generale in vista di qualcosa d’altro. (…) Tuttavia, se pur il dire che la felicità è il sommo bene sembra qualcosa di ormai concordato, tuttavia si sente il bisogno che sia ancor detto qualcosa di più preciso intorno alla sua natura. Potremo riuscirci rapidamente, se esamineremo l’opera dell’uomo. Come infatti per il flautista, il costruttore di statue, ogni artigiano e insomma chiunque ha un lavoro e un’attività, sembra che il bene e la perfezione risiedano nella sua opera, così potrebbe sembrare anche per l’uomo, se pur esiste qualche opera a lui propria. Forse dunque all’architetto e al calzolaio vi sono opere e attività proprie, mentre non ve n’è alcuna propria dell’uomo, bensì esso è nato inattivo? O piuttosto, come sembra esservi un’opera propria dell’occhi, della mano, del piede e insomma di ogni membro, così oltre a tutte queste si deve ammettere un’opera propria dell’uomo? E quale sarebbe dunque questa? Non già il vivere, giacché questo è comune anche alle piante, mentre invece si ricerca qualcosa che gli sia proprio. Bisogna dunque escludere la nutrizione e la crescita. Seguirebbe la sensazione, ma anche questa appare essere comune al cavallo, al bue e ad ogni animale. Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale. (…) Se propria dell’uomo è dunque l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che questa è l’opra del suo genere e in particolare di quello virtuoso e insomma ciò si verifica sempre, tenendo conto della virtù che viene ad aggiungersi all’azione ( del citaredo è proprio il suonar la cetra, del citaredo il suonarla bene ); se è così, noi supponiamo che dell’uomo sia proprio un dato genere di vita, e questa sia costituita dall’attività dell’anima e dalle azioni razionali, mentre dell0uomo virtuoso sia proprio ciò, compiuto però secondo la propria virtù. Se dunque è cos’ allora il bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e se molteplici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno: così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la beatitudine o la felicità. (…)
Si deve dire dunque che ogni virtù, a seconda di cui essa è virtù, perfeziona questa e rende buono il suo risultato, ad esempio la virtù dell’occhio rende valente l’occhio e la sua funzione: noi infatti vediamo bene per la virtù dell’occhio. Similmente la virtù del cavallo rende il cavallo valente, abile alla corsa, a portare il cavaliere e resistere ai nemici. Se dunque così è per tutte le cose, anche la virtù dell’uomo dev’essere una disposizione da cui l’uomo divenga buono e per la quale realizzi bene il proprio compito. Come essa debba essere, abbiamo già detto, ma diverrà ancor più chiaro, se esamineremo come è la sua natura. In ogni cosa, sia essa omogenea oppure divisibile, è possibile distinguere il più, il meno e l’uguale, e ciò in relazione alla cosa stessa o in relazione a noi: l’uguale è una via di mezzo tra l’eccesso e il difetto. IO chimo dunque posizione di mezzo una cosa quella che dista egualmente da ciascuno degli estremi, ed essa è una sola e identica in tutte le cose; e chiamo posizione di mezzo rispetto a noi ciò che non eccede né fa difetto; essa però non è unica, né eguale per tutti. Ad esempio, ponendo il dieci come quantità eccessiva e il due come quantità difettiva, il sei si considera come il mezzo rispetto alla cosa: questo è infatti il mezzo secondo la proporzione numerica. La posizione di mezzo riguardo a noi non va invece interpretata così: infatti se per qualcuno il mangiare dieci mine è purtroppo e il mangiarne due è poco, il maestro di ginnastica non per questo ordinerà di mangiare sei mine; infatti per chi deve ricevere questa razione, essa può essere pure molta oppure poca. (…) Così dunque ogni persona che ha scienza evita l’eccesso e il difetto, mentre cerca il mezzo e lo preferisce, e questo mezzo è stabilito non in relazione alla cosa, bensì in relazione a noi. Se dunque ogni scienza esplica bene il suo compito, mirando al giusto mezzo e indirizzando ad esso le sue opere ( per cui sogliamo dire delle buone opere che non v’è nulla né da togliere né da aggiungere, in quanto l’eccesso e il difetto rovinano la perfezione, mentre la medietà la salva ), se dunque come divo, i buoni artefici operano guardano a questo mezzo, la virtù allora, che è come la natura, più diligente e migliore di ogni arte, dovrà tendere al mezzo. IO qui parlo della virtù etica: essa infatti riguarda le passioni e le azioni, ed è in esse che s’incontrano l’eccesso, il difetto e la posizione di mezzo. (…) Dunque la virtù è una certa medietà che ha come scopo il giusto mezzo. (…)
Se dunque la felicità è un’attività conforme a virtù, logicamente essa sarà conforme alla virtù superiore; e questa sarà la virtù della parte migliore dell’anima. Sia dunque essa l’intelletto oppure qualcosa d’altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e avere nozione delle cose belle e divine o perché esso stesso divino o perché è la parte più vicina che è in noi, comunque la felicità perfetta sarà l’attività di questa parte, conforme alla virtù che le è propria. Che essa sia l’attività contemplativa è stato detto. (…) Quest’attività è infatti la più alta; infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle a cui si riferisce il pensiero. Ed è anche l’attività più continua; noi infatti possiamo contemplare più di continuo di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Pensiamo poi che alla felicità debba esser congiunto il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è quella relativa alla sapienza; sembra invero che la filosofia apporti piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi conosce che non per chi ancora ricerca il vero. E l’autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’attività contemplativa. Infatti è pur vero che dei mezzi necessari per vivere hanno bisogno sia il sapiente, sia il giusto, sia gli altri uomini; tuttavia, una volta che siano stati provvisti sufficientemente di essi, il giusto ha ancora bisogno di persone ch’egli possa trattare giustamente e con le quali esser giusto, similmente anche l’uomo moderato e il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi; l’uomo moderato e il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi; l’uomo sapiente, invece, anche da se stesso potrà contemplare,e e ciò tanto più, quanto è pià sapiente; forse è meglio se ha dei collaboratori, ma tuttavia egli è de tutto autosufficiente. Inoltre sembra che l’attività contemplativa sia la sola ad essere amata per se stessa; infatti da essa non deriva altro risultato all’infuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più o meno importante, oltre all’azione stessa. (…) Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino; e di quanto esso eccellente sulla struttura composta dell’uomo, di tanto eccelle anche la sua attività su quella conforme alle altre virtù. Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, se attenda a cose umane, ed essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, sarebbe quindi assurdo se l’uomo scegliesse non la vita a lui propria, bensì quella propria di altri. E ciò che prima s’è detto s’accorda con ciò che orda diciamo: cioè quello che a ciascuno p proprio per natura è la cosa per lui migliore e più piacevole. E per l’uomo ciò è la vita conforme all’intelletto, se pur in ciò consiste soprattutto l’uomo. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice.
Pp. 118-122.
Bibliografia essenziale
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Adorno, Verra, Gregory. Manuale di storia della filosofia. Laterza. Roma-Bari. 1993.
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E. Severino, Antologia filosofica, edizione Mondo Libri-Rizzoli. Milano. 1990.
Garzantina di Filosofia e scienze sociali.
Spunti di riflessione
Critica alla dottrina morale di Aristotele
Aristotele non ritiene che la conoscenza della vita quotidiana attenga alla ragione scientifica. La ragione ha la possibilità di conoscere ciò che è necessario, ovvero, ciò che è insostituibile per vivere, per arrivare a determinare un fine, la premessa per una definizione, la deduzione logica ecc.. Ma la conoscenza attiene sempre ad un’osservazione e, in quanto tale, decide ciò che capita più spesso.
Come osserva Aristotele, nell’etica non ci può essere posto per una trattazione interamente razionale della questione in quanto non è data conoscenza a priori dei fini particolari delle deliberazioni nella vita quotidiana: essi sono, assai spesso, unici, per ciò non oggetti di osservazione ripetibile. Da un lato, è vero, il fine sommo della vita umana è quella di essere felici. Ciò, certo, non è un’ovvietà, ma è anche vero che, generalmente, sono assai pochi che ne sono coscienti e assai pochi che davvero cercano umanamente di vivere una vita beata: è questione, guarda caso, di esperienza che siano assai pochi quelli in grado di condurre una vita felice.
L’essere umano, a prescindere dal momento storico, è siffatto che, quando non è consapevole di se stesso e del prossimo, difficilmente riesce a capire ciò che è causa di bene e ciò che non lo è. Infatti, è vero, assai spesso, l’uomo delibera in merito a quel che crede di cercare, ma è anche assai raro che esso lo raggiunga senza qualche lungaggine dovuta, per esempio, alla non riconoscenza del fine come “giustificante tutti i mezzi”. Infatti, non è sempre ovvio che il fine appaghi quanto i mezzi frustrino, questo, in particolare, quando le persone non sanno quello che fanno.
Aristotele propone alla base di ogni decisione, una deliberazione, in altre parole, l’uomo, prima di agire, decide il fine a cui arrivare, in un secondo momento, successivo alla deliberazione, opera delle scelte, che sono i mezzi attraverso cui giungere al fine, a questo punto agisce. A tali operazioni corrisponde la “facoltà” pratica della volontà, decidibile a partire dalla ragione. Una deliberazione è determinata da un desiderio o da un fine razionale.
In primo luogo, secondo quale principio avviene la deliberazione? In altre parole, una decisione in merito ad un fine, anche determinato da un desiderio, implica o una conoscenza adeguata del desiderio oppure una deliberazione in relazione ad una serie di valori. Aristotele ammette questa seconda possibilità. Intanto, come si fa a prendere una decisione quando i valori sono in contrasto con il desiderio?
In secondo luogo, questi valori da dove nascono? Ovvero, se i valori nascono dalla sola conoscenza allora ogni azione è razionale e determinata dalla ragione. Ma ciò è escluso da Aristotele. Se poi i valori sono relativi, ovvero nascono, per esempio, dall’abitudine, allora noi spesso agiamo a prescindere dalle circostanze e spesso in disaccordo con esse, nella misura in cui le abitudini assai spesso sono delle maschere ad una adeguata conoscenza. Se poi i valori sono relativi per ciascuno, allora quasi mai si giungerebbe ad una possibilità di soddisfazione di quelli, nella misura in cui essi variano da persona a persona.
Quindi, i valori, in una certa misura devono essere condivisi, se no si ricade nella chiusura egocentrica che implica l’incapacità di soddisfare i propri bisogni: è evidente che per soddisfare tutti i mezzi che un fine richiede, fosse anche quello elementare di procreare, è necessario ci devono essere dei valori comuni, dunque non possono essere del tutto relativi.
In questo caso, allora, i valori attraverso cui valutiamo le cose, devono nascere, ancora o dalla ragione o dall’abitudine, dall’esperienza o da qualcos’altro. Dalla volontà non può essere giacché, anche ammettendo che esista, non dico “io voglio questo perché la mia volontà lo vuole” semmai dico “io voglio questo perché ne ho bisogno” ovvero la volontà coincide col desiderio oppure “io voglio questo perché è buono”, ovvero ad una cosa ne associo un valore positivo, che altro è che l’espressione di un aumento di potenza da parte mia, qualora lo possegga. In ogni caso, la volontà, ammesso che ci sia, può solo rimettersi a qualcos’altro che la guidi, che sia la ragione o l’abitudine o i valori.
Questi valori, dunque, abbiamo ammesso che devono essere, in una certa misura collettivi, nel senso che sono condivisi, sentiti da più persone ( non che nascano da una qualche forma astratta di spirito incorporeo che non sta né in cielo né in terra ). Dunque, se sono collettivi, in una certa misura dipendono da noi, in una certa misura no. In questo senso, noi non siamo che una condizione parziale per l’esistenza di tali valori che esisteranno solo perché ne esisteranno di altri. Ma come possono dei valori determinati dall’esistenza di altri, essere validi anche per me, se nascono da abitudini diverse dalle mie e da sensazioni diverse dalle mie? I valori sono condizioni astratte attraverso cui si giunge all’associazione di una qualità di un oggetto alla moralità. In altre parole, il valore è il peso specifico morale attraverso cui una cosa è pensata in relazione ad un certo soggetto. Il valore indica il “peso” di utilità, di “incremento di potenza” di qualcosa. Certo, ma se tali “valori” nascono dall’abitudine di altri, manco solo dalla mia, tali valori sono astratti come fanno ad essere parametri positivi dell’azione, un giusto metro per decidere come agire? Infatti, anche ammesso che le cose siano le stesse per tutti, anche ammesso che tali valori associno delle reali qualità ( cosa non ovvia giacché non sono dipendenti dalla ragione ma dall’associazione di qualità, che non rimanda ad una conoscenza esatta delle cose ma relative ad un soggetto ), rimane il fatto che essi sono a prescindere dai singoli: così, si giudicano assai spesso oggetti inutili come insostituibili e molti, frustrati da ciò, si ottenebrano la mente offuscati dall’invidia e dalla rabbia.
Dunque, i valori non sono buoni parametri di giudizio delle cose, giacché sono astratti e sottolineano solo raramente, qualità reali delle cose. D’altra parte, i valori non sono nemmeno determinati nell’esistenza dalla ragione di uno o di tutti, ma da abitudini collettive, da credenze e superstizioni. E questo è il caso della religione ( non del sentimento religioso ), della religione come forma di credenza che prevede una morale polarizzata senza tale che essa si riduce ad un nucleo fondamentale di credenze che, se applicate contemporaneamente, a volte provocano contraddizione: se per non uccidere qualcuno devo per forza uccidere qualcun altro, come faccio a decidere? Se posso salvare la vita di qualcuno solo rubando ( magari la mia ), cosa devo fare?
Ma Aristotele non individua nella religione necessariamente un movente. D’altra parte egli ammette che esista una volontà. Eppure egli, in sede conoscitiva, non la tratta mai. Perché sente, invece, il desiderio di utilizzarla in sede pratica? Perché nell’atto della deliberazione la volontà, e il libero arbitrio, molto più che nella determinazione dei mezzi, è richiesta, secondo lui. La ragione del desiderio sta nel fatto che Aristotele scinde l’azione pratica dal resto delle azioni, quasi che esistessero momenti distinti della vita, uno dove uno conosce e capisce o meno e un altro dove passa a decidere praticamente le proprie azioni, come se non fossero due attività, quanto meno, assai simili. Ma facciamo proprio come fa Aristotele: analizziamo prima l’uso della parola “volontà”, successivamente analizziamo le opinioni generali e vediamo cosa ne esce fuori.
In primo luogo, la parola volontà si usa in due modi diversi: “io voglio X” e “io ho voglia di X”. In effetti, si potevano usare due parole diverse, o scrivere la frase allo stesso modo: “Io ho deciso per X” e “Io desidero X”. Ma “io desidero” per “io voglio” indica che la volontà non è affatto una facoltà indipendente dal sentire-un desiderio, in questo senso, non è per niente libera. “Io ho deciso per X” non indica affatto che la volontà esista giacché la decisione è chiaramente una formulazione razionale, dunque attiene alla ragione. In questo senso o la volontà coincide col desiderio o coincide con ragione. Ebbene, i più vogliono che la volontà e il libero arbitrio esistano, senza sapere poi con precisione cosa intendano, né il luogo comune riesce a dare una definizione chiara di “libero arbitrio” senza usare una nozione di “casualità”: se il libero arbitrio è “la capacità di autodeterminazione della mente”, si deve dire quanto meno in cosa riposi tale potenza, tale possibilità, visto che la capacità è un potere; in secondo luogo cosa significa la parola “autodeterminarsi”. A questo punto, non esiste un’opinione comune giacché quei pochi che danno queste risposte non sono certo la maggior parte della persone, motivo per il quale c’è da dubitare sulla qualità delle spiegazioni accettate dal luogo comune. E anche quelli che rispondono ammettono che esista una qualche forma di casualità della mente, nulla di più sensato.
In ogni caso, abbiamo appurato che non c’è volontà che deliberi e le deliberazioni sono a partire da qualcos’altro.
Dunque, non si sa in base a quale principio si possa deliberare, visto che i valori sono inadeguati, i desideri a volte pericolosi ed, in ogni caso, determinano spesso quegli eccessi tanto sgradevoli per Aristotele. Ma, a questo punto, facciamo proprio un’analisi della possibilità dell’esistenza di questo giusto mezzo: questo “giusto mezzo” sarebbe l’espressione di due eccessi. Ora, questi due eccessi o nascono dalla mente o nascono nelle cose. Se fossero nelle cose allora potremmo dire che la natura è giusta o sbagliata: cosa che Aristotele, in questo senso, non ammetterebbe. Ed anche ammettendo che la natura sia giusta o sbagliata, bisognerebbe dire che quelle cose sarebbero sempre giuste o sbagliate e non relative, giacché, a quel punto “giusto” e “sbagliato” sarebbero attributi essenziali di quella cosa nella misura in cui ne attestano la natura.
Ma se sono nella mente queste virtù o sono collettive o sono relative. Se sono collettive allora non possono nascere che dalla ragione, nella misura in cui, abbiamo detto, i bisogni variano da persona a persona. Se fossero dalla ragione, però, non sarebbero oggetto di discussione.
Insomma, la questione dell’esistenza di queste virtù pare essere una cosa relativa all’azione in se stessa: un’azione è detta buona se fa del bene e sbagliata se fa del male ( lasciamo perdere cosa sia bene o male adesso ). In ogni caso, questa medietà, se non nasce, appunto, da due pesi, da dove dovrebbe nascere? In ogni azione umana esiste un contesto tale per cui esiste una molteplicità di azioni possibili, ma solo alcune, paritariamente magari, sono buone per sé e per gli altri, e le altre sono neutre o negative, per lo più. Questo giusto mezzo, dunque, quante azioni possibili determinerebbe? E ancora, da dove trarre la giustificazione “del giusto”? Infatti, dire che ho agito in nome della “medietà dei pesi delle azioni” non garantisce affatto la possibilità di decidere in base a quella “ispirazione”. Inoltre, sempre di un’azione si potrà dire a posteriori che essa è guidata dal giusto mezzo, ma, a partire dalla determinazione mediana, come si giungerebbe alla definizione dell’azione, senza prima essersi fatti un’idea razionale della cosa non è affatto chiaro.
Insomma, o le cose dipendono dalla ragione o no e se dipendono dalla ragione allora dipendono dalla sola conoscenza delle cose, se non dipendono dalla ragione allora dipendono o dalla natura dell’essere umano in quanto essere-vivente, oppure dipendono dalla credenza che l’essere umano si è fatto di una certa cosa in relazione ad un’associazione di idee.
In questo senso, che tipo di libertà può esserci se non quella della determinazione di sé a partire dalla propria ragione? Gli esseri umani si distinguono infatti in base alla propria conoscenza, giacché i desideri della sopravvivenza sono uguali ( ma non i loro oggetti, ed è il motivo per cui si discorda nonostante si “vogliano” le stesse cose: nel senso astratto del termine è vero: “io voglio fare l’amore con “X”” è universale, ma la determinazione di “X” è particolare e soggettiva. In senso reale, quella “X” non è affatto indifferente, giacché io non faccio l’amore, ad esempio, con una scarpa ). La determinazione in base alla propria conoscenza è, dunque, l’unica forma di libertà che l’uomo ha, ovvero quella di poter esprimere se stesso.
Infatti, o agisce a partire da se stesso o va a caso, giacché è casuale l’oggetto del desiderio che, come dice un bel titolo di un bellissimo film, è oscuro perché è non è chiarito dal desiderio stesso. In questo modo, la conoscenza della realtà dei fatti è indispensabile per la conoscenza dei fini.
Ma come determinare i propri fini? Ora, l’uomo è una mente e un corpo. Il corpo abbisogna di poche cose, fondamentali ma poche, per sostentare, per sopravvivere. La soddisfazione delle necessità del corpo è detta, infatti, sopravvivenza ed è in tutto simile a quella di un animale: un corpo che sopravvive è anche quello dell’essere-in coma. L’uomo, se non avesse la facoltà di conoscere non sarebbe in molto diverso da molti altri esseri.
L’uomo, conoscendo, si distingue non solo dalle altre cose, ma anche dagli altri uomini: infatti si distinguono assai di più due uomini intelligenti che due uomini ignoranti. Ad ogni modo, la conoscenza è capace di non far cadere in contraddizione l’essere umano ed è piacevole. La contraddizione, essendo negazione della propria capacità di pensare, implica sofferenza. Ma la realtà è unica, perciò, se si conosce, è coerente. La realtà pratica rispecchia in questo la realtà conoscitiva appieno e, dunque, una contraddizione è evitabile se e solo se è conoscibile, giacché una delle due strade della contraddizione deve cadere. Ma se l’uomo non conosce non sa che strada prendere e per ciò rimarrà fermo e sofferente.
In questo modo, se la conoscenza adeguata è quella della ragione, capace di soddisfare di per se stessa, giacché implica un’attività della mente capace di riconoscere se stessa e il mondo, in quanto capace di evitare contraddizioni, implica che si possa conoscere la realtà di volta in volta e determinare la strada a partire dalla sola nostra conoscenza. E dunque, il libero arbitrio esiste, sì, come vogliono i più, ma solo nel senso che se non seguiamo la ragione, allora si è costretti a rimettersi nelle mani del destino e ciò è tutta una faccenda casuale.
In conclusione, la concezione di Aristotele è inadeguata a dare una ragione delle azioni umane senza dare contraddizione. Essa paga l’idea che esista la volontà come una capacità “altra” da quella conoscitiva, tale per cui non si sa perché e come possa implicare una particolare azione. Inoltre, implicando una morale “ispiratrice” del giusto mezzo, non dice in alcun modo, ancora una volta, perché i pesi del mezzo, a prescindere dalle situazioni, dovrebbero essere positive. Infine, la predicazione del “giusto mezzo” è sempre possibile a posteriori, così, ogni descrizione del giusto mezzo è può sempre prescindere dalle circostanze pur non apparendo.
[1] Questa è la trasposizione del ragionamento sostenuto da Aristotele nel Libro I della fisica.
[2] E’ mio personale parere che sia bene esprimere i concetti secondo un uso chiaro: la parola “ente” è senz’altro più aderente alla tradizione filosofica, ma risulta spesso pesante e oscura rendendo così potenzialmente odiosa la trattazione. Potrebbe essere una proposta: usare un lessico aderente ma chiaro piuttosto che uno speculare ma oscuro.
[3] Vedi “Parmenide”.
[4] La forma generale di una definizione potrebbe essere quella “X = Y e Z” dove “Y” e “Z” sono proprietà che, se tolte tolgono l’oggetto definito. Se dico “Superman è un alieno e vola” sto dicendo che l’essere “Superman” implica le proprietà “alieno” e “volante” ( nel senso che egli ha la proprietà –assai peculiare- di volare ). Ma se scompongo la definizione, togliendo una delle due proprietà, allora mi accorgo subito di come la definizione sia incompleta: “Superman è alieno” non dice nulla di più del fatto che è un essere razionale non umano. Esseri di questo tipo ce ne sono anche altri, per esempio il mio vecchio gatto, Fidel ( buonanima ), era capace di discorrere con me di filosofia e, spesso, mi ha insegnato cose importanti, egli poi era anche solito giocare a scacchi, ma perdeva ingenuamente ( se non è sintomo di intelligenza quello di saper giocare a scacchi! ). Dunque, per definire il supereroe “Superman” non basta solo dire che “sia alieno”. La definizione risulterebbe incompleta anche in un altro caso: “Superman è volante” non dice nulla di più che l’essere-Superman implica la capacità di volo. Ma ciò è chiaramente generico e basti usare un sillogismo errato ( paralogismo ) per mostrare questo: “Tutti gli aerei sono volanti” e “Superman è volante”, “Superman è un aereo”. Lasciando perdere il motivo per cui questo sillogismo è errato, è evidente che nella categoria “esseri volanti” ci sono molte cose ( uccelli, aerei, razzi, quei cosi rotondi che servono per sterzare… ). Quindi, per definire qualcosa bisogna enumerarne tutte le qualità essenziali ( sue proprie ) che consentono di definirla chiaramente e distintamente, ovvero che ce la fanno conoscere in sé e nelle sue distinzioni dalle altre cose.
Un altro esempio, se dico “Una camicia è di tessuto ed ha la forma del busto di un uomo” se tolgo “tessuto” e “forma del busto” allora non dico più che cosa è una camicia: “una camicia è di tessuto” non basta a definire la camicia perché è chiaramente qualcosa di diverso. Ma anche se dico “una camicia è a forma di busto umano” non dico altro che essa ha una certa proprietà, non caratteristica giacché tale qualità è propria anche di una maglietta.
[5] Se dico che “io sono su una sedia” non sto dicendo che “io sono una sedia” ma che “io sono seduto”. In questo senso vediamo che le lingue naturali, comunque, o usano due verbi distinti ( come lo spagnolo ) o comunque ne possono usare più di uno ( come l’italiano ) oppure introducono la parte nominale diversamente dal complemento di luogo o di spazio: “I’m on the chair” è diverso da “I’m the chair” come in italiano “io sono sulla sedia” è diverso da “io sono la sedia”. In entrambi i casi la parola “sedia” è preceduta da una preposizione che distingue la funzione sia del verbo essere che del sostantivo successivo. Un’altra distinzione è, poi, che nell’uso essenziale del verbo essere si possono usare qualità mentre nell’altro caso no: non posso dire “Io sono sul bianco” a meno che non abbia indicato che oggetto sia quel “bianco”.
[6] Studiosi antichi e moderni si dimenticano del fatto che il sangue è sia il camion della frutta che quello della nettezza urbana e tendono a ricordarsi solo che l’uomo deve mangiare e non solo che deve espletare i suoi bisogni. Cosa curiosa è che quando vengono enumerati i bisogni essenziali della vita si indica la classica triade: mangiare, bere e riprodursi ( che poi non specificano bene perché questo sia importante per la sopravvivenza giacché è dimostrato dall’esperienza che si può vivere anche senza riproduzione ). E tutti si dimenticano di notare che anche espletare i bisogni, che sono di due tipi diversi, sia altrettanto fondamentale per la vita: se essi non vengono fatti, com’è noto, si muore soffrendo e in poco tempo.
[7] Non ad una scienza dell’universale, che è appunto la metafisica. La scienza universale sarebbe una scienza capace di conoscere qualsiasi cosa, a prescindere dal livello di complessità in cui si considera l’oggetto. La scienza dell’universale è la scienza dell’oggetto astratto dalla sua dimensione particolare.
[8] Parola hegeliana che indica “l’ente che davvero esiste”.
[9] Nell’antichità le opere erano divise per libri, non per capitoli.
[10] In ciò Aristotele è molto esplicito, ma non per questo spregiativo. Egli mostra solo un fatto naturale ed in quanto l’uomo è un essere naturale, non deve stupire che egli ne tragga, giustamente, inferenze di questo tipo.
[11] E cioè che egli giudichi le filosofie degli altri a partire dalla propria visione del mondo.
[12] Tutto ciò, naturalmente, secondo Aristotele. Ma per quanto riguarda la causa finale, è discutibile la questione della paternità: Platone con chiarezza indica il bene come fine di ogni azione etica e la stessa gerarchia delle idee implica l’idea suprema di bene. Il bene è da intendersi come ciò a cui tendere e, dunque, come causa finale, in gergo aristotelico. Aristotele, però, noterebbe che i platonici non potrebbero asserire l’esistenza di una causa finale del mutamento, giacché il mutamento è oggetto solo dell’opinione. Dunque, se Platone aveva già chiaramente indicato la strada, Aristotele ha però avuto la capacità di portarla alla chiarezza e coerenza.
[13] Un termine senz’altro inadatto ma capace di mostrare il concetto.
[14] La vita è espressione dell’uomo e l’uomo è mente e corpo, in termini aristotelici, animale razionale. La vita, intesa nel suo senso etico, è l’espressione comportamentale dell’uomo nel suo esser relazionato con altri uomini. In questo senso, l’etica è la conoscenza dell’uomo rispetto all’altro uomo, che cerca di rispondere alla domanda: quale è la condotta di vita saggia?, quale è la vita migliore o come si dovrebbe comportare l’uomo per essere felice con gli altri uomini?
[15] In effetti, il concetto di “conoscenza per la conoscenza” è insita in ogni grande mente che abbisogna di conoscere e ricerca la conoscenza non tanto perché, almeno inizialmente, essa gli darà soldi e gloria, ma perché senza di essa sarebbe condannato ad una vita fatta di frustrazione. I migliori ingegni della storia hanno iniziato la loro strada non ispirati dalla volontà di trasformare il piombo in oro, la conoscenza in soldi fruscianti, ma perché sapevano che solo la conoscenza del “perché” il piombo non diventi oro e le leggi che rendono ciò possibile è quel che rende l’uomo soddisfatto. Magari non gli eliminerà tutti i problemi, ma, almeno in quello, riuscirà a soddisfarlo.
[16] Era procedimento usuale di Nimzowitsch considerare i pezzi della scacchiera come dotati di una loro sensibilità. Ne “Il mio sistema” spesso ai pezzi associa gradi di esercito.
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