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Leggi la scheda Percorso di letteratura italiana
La questione della lingua italiana è stato oggetto di studi approfonditi da diversi teorizzatori, per via del fatto che la lingua italiana a partire dalla sua nascita ha sempre presentato aspetti che la mettessero su un piano di controversia spesso combattuto fra i classicisti e gli innovatori.
Tutto ebbe inizio a partire dal 1294 quando Dante Alighieri aprì, con il suo sapere e volere, il dibattito della questione sulla lingua italiana, con la stesura del trattato sulla lingua intitolato De vulgari eloquentia: in questo scritto, il pensatore fiorentino teorizzò per la prima volta gli aspetti del volgare italiano, cercandone di comprendere le origini e di stabilire quali fossero i canoni per un buon uso stilistico della lingua. Infatti, per Dante, la lingua italiana prima di tutto doveva essere una lingua di uso colto e letterario, che non ricadesse nei canoni della bassezza popolare.
Come da prassi, nello stilare un certo tipo di opere, seppure in maniera del tutto originale, Dante descrive la vita della lingua italiana, a partire dalla base assoluta, ovvero Adamo, il quale per primo ha portato, attraverso la consacrazione divina, la parola all’uomo. Dante stabilisce che il linguaggio parlato differenzia l’uomo dagli animali bruti; tutta l’opera viene ripercorsa attraverso il racconto biblico. Infine, nel De vulgari eloquentia Dante procede in maniera ordinata ad elencare le varie sfaccettature dell’italiano volgare, definendo delle linee geografiche, simili (concettualmente) alle linee che cinque secoli più tardi teorizzò Graziadio Isaia Ascoli. Definisce una linea di demarcazione fra gli appennini orientali e quelli occidentali, enumerando le caratteristiche dei volgari presenti in quella regione. Infine Dante insiste sul dibattito vero sulla lingua quando cerca di capire quale fosse la vera lingua che si dovesse parlare nell’“Italia”: il volgare migliore, definito illustre o aulico o curiale, doveva essere una lingua pura e non impura come, per Dante, potevano essere il Piemontese, il sardo, il marchigiano, ecc. Dante si ispira piuttosto alla lingua della corte di Federico II, il siciliano, e al bolognese. Disprezzò anche la lingua popolare toscana. Questo trattato sul volgare italiano, che è comunque interamente scritto in latino, ha una grande importanza nella storia medievale europea, in quanto si tratta di un primo assoluto all’interno del panorama letterario, ma venne comunque riscoperto nel 1500 dal letterato vicentino Trissino, che analizzeremo a breve.
Il Quattrocento è stato il secolo in cui si sono scontrati i cosiddetti Umanisti latini contro gli Umanisti volgari: al centro del dibattito c’era ancora una volta la questione della lingua. Flavio Biondo, grande studioso di antichità romana, argomentava la questione linguistica dicendo che l’italiana era una lingua frutto di una corruzione per cause esterne. Infatti, il latino si sarebbe corrotto quando i barbari sono entrati in Italia, dando vita ai volgari, lingue affatto paragonabili alla grandezza e all’eleganza del latino. Leon Battista Alberti, al contrario di Biondo, era un umanista volgare e apprezzava la nuova lingua che andava delineandosi: a tal proposito, nel 1440, l’Alberti pubblicò la prima grammatica della lingua italiana, intitolata Grammatica della lingua toscana, tramandata attraverso una copia apografa, conservata oggi nella Biblioteca Vaticana. Leon Battista Alberti, aveva senz’altro, rispetto a molti altri studiosi, delle opinioni più moderate: egli pensava che il latino fosse una lingua da imitare, in quanto era una lingua universalmente compresa, e pensava che il volgare dovesse mirare a un livello alto, da affidare ai saggi. Per citare Claudio Marazzini: “il latino doveva indicare al volgare la strada da percorrere”.
Nel 1441, gli sforzi dell’Alberti nella promozione del volgare, culminarono con l’organizzazione del Certame coronario, una gara poetica in cui i concorrenti avrebbero dovuto presentare dei componimenti poetici sul tema dell’amicizia, scritti nella lingua volgare. Il certame purtroppo non ebbe effetti positivi, in quanto gli oppositori di Leon Battista Alberti cercarono in ogni modo di sabotare la gara, senza dare nessun premio ai partecipanti.
Nel Cinquecento, la gara linguistica fra italiano e latino, andava confermandosi, ma al contrario dei secoli precedenti, per la prima volta la lingua volgare, andò in “vantaggio”, nei confronti della lingua madre, trovando per la strada dei grandi letterati che valorizzarono la futura lingua italiana: si tratta di autori come Ariosto, Tasso, Aretino, Machiavelli e Guicciardini, fra gli altri. Oramai erano sempre più numerosi gli studi sulla lingua e sempre più numerose le pubblicazioni riguardanti grammatiche e studi sulla lingua. Aldo Manuzio nel 1501 stampò due classici, Virgilio e Orazio, e diede vita alle cosiddette edizione aldine, laddove si caratterizzava il carattere di stampa corsivo. In quello stesso anno, ed è ciò che maggiormente ci interessa, Pietro Bembo, pubblicò il Petrarca volgare sotto una sua disamina. Questo fu un evento eccezionale: nella prefazione Manuzio, che era lo stampatore (e di fatto l’editore) dell’opera, difendeva il lavoro del suo cliente, da coloro che avrebbero potuto constatarne l’allontanamento dagli aspetti tipicamente latineggianti del grande scrittore trecentesco. L’opera prendeva il titolo di Le cose volgari di Messere Francesco Petrarca. Ma le innovazioni che Bembo portò all’interno della lingua italiana ebbero anche una pubblicazione in un’altra opera, questa volta interamente redatta da Bembo: si trattava delle Prose della volgar lingua, pubblicate nel 1525. Qui Pietro Bembo dà grande prova di sé cercando di elencare tutti gli aspetti innovativi di cui la lingua volgare si doveva fare portatrice. Compariva fra gli altri, l’uso dell’apostrofo per segnare l’elisione. Come tutti gli altri teorizzatori della questione linguistica, anche Pietro Bembo, partì dall’analisi della natura del volgare fornendo quindi prima di tutto un analisi storico linguistica, secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbarici, una posizione non solo difendibile ma chiaramente vera. E quando Bembo parlava di volgare senz’altro si riferiva al toscano letterario trecentesco dei grandi autori Petrarca e Boccaccio, e in minor misura a quello di Dante, le cosiddette Tre Corone. Nello specifico, non apprezzava nella Commedia di Dante l’uso di un certo iperealismo stilistico. Per Pietro Bembo ci si doveva ispirare inoltre a Cicerone, per quello che concerneva la prosa, e a Virgilio, per ciò che concerneva la poesia.
Sempre nel Cinquecento si sviluppò la teorizzazione da parte di Giovan Giorgio Trissino e di Calmeta della teoria cortigiana della lingua, secondo la quale l’italiano migliore era quello usato nelle corti; Bembo non d’accordo con quest’analisi, sostenne che la lingua cortigiana era una lingua di difficile definizione, per via della tantissime sfaccettature fra le varie “Italie”, non riconducibile dunque all’omogeneità di una lingua. La teoria del Trissino però aprì le strade ai sostenitori dei cosiddetti regionalismi. Di fatto, in ultima analisi, Pietro Bembo stilò le regole, che vennero in buona parte accettate fatta eccezione che dai fiorentini (Bembo era infatti un patrizio veneziano), del volgare toscano, la futura lingua italiana. La teoria della lingua di Bembo, secondo la quale aveva stabilito quale fosse la lingua e quali fossero gli esempi da emulare, ebbe una portata e fortuna di difficile stima, all’interno del panorama linguistico del volgare italiano, e fu così infatti che per tre secoli, fatta eccezione qualche breve parentesi, non ci fu la necessità di attuare nuove teorizzazioni e nuove concezioni di quello che doveva essere la concezione linguistica dell’italiano. Non a caso è stato l’Ottocento il secolo in cui si sentirà nuovamente l’esigenza di ripensare all’italiano, un secolo denso di avvenimenti storici che portarono a uno stravolgimento totale della lingua.
Dal Seicento all’Ottocento, come detto, si attraversa un periodo di stasi sulla questione linguistica. Importanti passi avanti vengono fatti su quello che era lo studio della lingua. Basti pensare alla nascita delle varie accademie, fra cui la più importante fu l’Accademia della Crusca, che a partire dal 1612 pubblicò le prime edizioni del Vocabolario italiano. Questa fu un innovazione di grande rilevanza, soprattutto per la sua unicità e alti standard di autorevolezza. L’Accademia della Crusca era/è una sorta di centro di ricerche nazionale per la lingua italiana. Nel seicento uscirono tre edizioni diverse del Vocabolario italiano, nel 1691, la terza fu quella più completa, composta di tre tomi con lemmi e descrizioni molto più complete. Il Settecento è stato il secolo in cui si delinearono le gerarchie linguistiche all’interno del panorama europeo: l’italiano assume una importanza notevole, basti pensare a Wolfgang Amadeus Mozart che tramite il suo librettista Lorenzo Da Ponte, scriveva opere liriche in italiano. Ma allo stesso tempo il francese, la cui importanza è paragonabile a quella dell’inglese oggi giorno, ebbe notevoli influssi nelle letterature europee: Carlo Goldoni scriverà diverse commedie in francese, nonché le sue bellissime Memorie, di cui consigliamo la lettura. È il secolo, il Settecento, in cui si sviluppa la filosofia del linguaggio, tramite l’autorevole pensiero di Diderot, di Alessandro Verri e di Melchiorre Cesarotti, il quale quest’ultimo scrisse il Saggio sulla filosofia della lingue dove analizza di fatto il pro-toscano.
Ma, come già più volte accennato, è stato l’Ottocento il secolo della svolta nella questione della lingua, in cui fu Alessandro Manzoni a cercare una soluzione a questo dibattito, sempre aperto. Nell’Ottocento si ebbe uno scontro fra i Puristi e i Classicisti: i primi erano caratterizzati da un’intolleranza nei confronti di ogni innovazione e dei prestiti linguistici dall’estero. Il capofila di questa corrente di pensiero era il veronese padre Antonio Cesari che rifletteva il suo studio nei confronti della perfezione linguistica che si era raggiunto nel trecento. La teoria linguistica manzoniana segna una svolta nelle discussioni sulla questione della lingua. Della lingua italiana è stato un saggio su cui Manzoni lavorò per circa trent’anni e su questi argomenti sono presenti alcune delle sue pagine migliori e più profonde. Ma lo studio della lingua da parte di Manzoni lo si ritrova nelle varie edizioni de I promessi Sposi nei quali possiamo osservare i mutamenti, nonché la maturazione, dello scrittore lombardo nei vari decenni.
La carriera linguistica e letteraria di Alessandro Manzoni si divide in tre fasi. La fase eclettica è il periodo in cui Manzoni fece l’uso di un linguaggio letterario con uno stile duttile, ricco di francesismi e milanesismi, laddove si ha quindi un linguaggio non del tutto scorrevole e possiamo anche dire “poco italiano”. È la fase che coincide con la pubblicazione del Fermo e Lucia, la prima stesura dei futuri Promessi Sposi. La fase toscano-milanese coincide con la stesura della cosiddetta edizione “ventissettina” dei Promessi Sposi pubblicata appunti fra il 1825 e il 1827 (era pubblicata a capitoli). In questa edizione la lingua è genericamente toscana e concordata con i principali dizionari italiani. L’ultima fase, fra il 1840 e il 1842, è quella in cui Manzoni pubblica l’ultima e definitiva edizione dell’opera che l’ha consacrato in questi centosettant’anni di vita: dopo uno studio approfondito della lingua italiana che portò Manzoni a stabilirsi per qualche anno a Firenze, dopo la cosiddetta “risciacquatura nell’Arno”, l’autore milanese pubblicò un’opera con l’uso di un fiorentino colto, che potremo quindi chiamare italiano vero.
Nel frattempo l’Italia si unì dopo varie guerre, nell’Italia che conosciamo oggi, fatta eccezione di Roma (che si sarebbe unita qualche anno più tardi), e il Trentino (dopo la prima guerra mondiale), e Alessandro Manzoni nel 1868 pubblicò un saggio intitolato Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla. Ora era chiaro che l’italiano doveva diventare un mezzo veicolante e coercitivo all’interno del nuovo paese. Si dovrà aspettare ancora qualche decennio finché esso lo divenne davvero, ma gli studi di Manzoni rimangono comunque prestigiosi e fondamentali all’interno dell’apparato linguistico che oggi giorno parliamo. I Promessi Sposi sono l’esempio di come gli italiani dovrebbero e potrebbero parlare, ma la storia della/di una lingua non è mai ferma. Vediamo come si è evoluta più di recente.
L’Italia si è unita nel 1861. Mentre gli italiani si sono maggiormente integrati linguisticamente a partire dal 1914 dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. L’esercito italiano era molto vario linguisticamente: i battaglioni erano formati da soldati di varie regioni, così un sardo che mai era uscito dalla sua isolanità andò a combattere al fianco di un veneto. Spesso l’italiano era solo un mezzo non conosciuto ai più, ma è da questo momento che si scopre realmente che l’Italia è unita e che combatte sotto un’unica bandiera e che nel futuro si deve creare anche un’unica bandiera linguistica. Dopo la guerra l’italiano, grazie anche agli investimenti dei programmi fascisti, conoscerà una più ampia diffusione del suo uso. Ma ancora dopo la seconda guerra mondiale i dialetti verranno lentamente soppiantati, naturalmente per un uso più marginale e più informale, a favore dell’uso dell’italiano comune.
Nel 1964 Pierpaolo Pasolini, regista, scrittore, pensatore, teorizzò una nuova questione sulla lingua italiana: dai suoi studi pubblicati egli affermava la nascita di un neo-italiano, laddove la capitale linguistica italiana, non era più Firenze o Roma, bensì il cosiddetto triangolo industriale formato da Milano, Torino e Genova con lo sviluppo di una nuova lingua tecnologica, legata alla nuova classe capitalistica, segnata da un linguaggio più grezzo e meno espressivo. Il nuovo italiano portò alla semplificazione sintattica del periodo, con una netta e drastica diminuzione dei latinismi e con la prevalenza dell’influenza della tecnico-scientifica rispetto a quella della letteratura, con di fatto, una perdita di prestigio della lingua. Questo era il pensiero di Pierpaolo Pasolini, l’ultimo a teorizzare sulla questione della lingua. Dopo di lui, al contrario si sono aperti i dibattiti, per la salvaguardia dei dialetti e degli alloglotti che oggi vanno via, via scomparendo in un mondo sempre più globalizzato e glocalizzato.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Marazzini C., La lingua italiana, Il Mulino, Bologna, 2010.
Pili G., “I promessi sposi“, www.scuolafilosofica.com, 2012
Pili G., “Dante Alighieri“, www.scuolafilosofica.com, 2012
Pili W., “Orazio“, www.scuolafilosofica.com, 2013
Pili W., “Virgilio“, www.scuolafilosofica.com, 2013
Pili W., “Marco Tullio Cicerone“, www.scuolafilosofica.com, 2014
Pili W., “Storia del fascismo italiano dal 1919 al 1932“, www.scuolafilosofica.com, 2014
Pili W., “Appunti di Glottologia italiana“, www.scuolafilosofica.com, 2013
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