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Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde – Robert Luis Stevenson

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Sebbene io fossi intimamente doppio, non ero in nessun caso un ipocrita; questi miei due aspetti erano perfettamente in pace fra loro; ero sempre me stesso, sia quando mettevo da parte ogni ritegno e sprofondavo nel fango, che quando mi affaticavo, alla luce del giorno, per il progresso della scienza o per alleviare la sofferenza e il dolore.

Robert Luis Stevenson

Londra, XIX secolo. Il signor Utterson passeggia placido con un suo amico. Entrambi sono persone pacate, silenziose, normali, prive di interessi perché potrebbero condurli in luoghi sconvenienti. La loro condizione abituale è quella di vivere, e rivivere ogni giorno la vita del giorno precedente. Utterson è lo specchio della sicurezza della vita quotidiana, ancorata alle rutine e alle virtù che conducono un uomo ad essere un’entità qualunque. Però l’esistenza di Utterson verrà minata dalla curiosità: il signor Enfield, l’amico, gli racconta uno strano accadimento. Qualche tempo prima aveva incontrato un uomo deforme, ma la cui deformità non stava nell’aspetto quanto nello spirito: egli era capace di trasmettere un senso di genuina repulsione al solo sguardo. Quest’uomo dall’aspetto ripugnante è il signor Hyde. Costui aveva la capacità di lasciare profondamente disgustati gli astanti, per quanto costoro non potessero in prima istanza afferrarne il motivo: 

Non gli avevo mai posto gli occhi addosso prima, questo era certo. Era piccolo, come ho già detto; fui colpito dapprima dall’espressione rivoltante del suo viso, con una singolare mescolanza di grande attività muscolare di apparente debolezza di costituzione, e, ultimo ma non meno importante, dalla strana, intima sensazione di turbamento provocata dalla sua vicinanza. Tale sensazione si manifestò in me con un incipiente irrigidimento e fu accompagnata da un marcato abbassamento delle pulsazioni. In quel momento io l’attribuii ad una idiosincrasia, a una personale avversione, e mi meravigliai soltanto dell’acutezza dei sintomi; ma in seguito ebbi motivo di credere che la causa fosse insita nella natura umana e che si riferisse a qualcosa di molto più nobile del sentimento dell’odio.[1]

Ben presto, Utterson viene a scoprire che tra il signor Hyde e un suo vecchio amico, il medico e ricercatore dottor Jekyll, c’è qualche legame. Jekyll gli consegna il testamento, nel quale lascia ogni suo avere, anche in caso di scomparsa prolungata, al signor Hyde. Questo fatto non piace al signor Utterson, la cui vita era già stata leggermente scossa dalla curiosità verso quel signor Hyde, così peculiare e legato a Jekyll. Ma questo testamento getta ombre cupe sulla sua fantasia: egli è ben consapevole del pericolo nel quale Jekyll era caduto. Il signor Hyde appare sempre più di frequente e lascia tutti gli astanti sempre più sgomenti, tanto più che il signor Jekyll è una persona rispettabile, benvoluta, con amici e una buona posizione e la sua associazione mefistofelica con il signor Hyde non rassicura alcun amico. La situazione precipita quando il signor Hyde, che già aveva dato segni evidenti di follia violenta calpestando una bambina con un gusto satanico negli occhi, ammazza a bastonate un uomo. Dopo qualche giorno, il signor Jekyll e il signor Lanyon rompono e Utterson si trova sempre più in una spiacevole posizione. Per tante ragioni. Innanzi tutto, quello che egli ritiene uno dei valori fondamentali della sua esistenza, la tranquillità sopra ogni cosa, sembra essere venuto meno. In secondo luogo, lentamente gli spiriti più pulsionali del residuo della sua anima emergono sempre più prepotentemente: la curiosità, prima di tutto:

Eppure quella figura non aveva un volto dal quale egli potesse riconoscerlo; persino nei suoi sogni non aveva volto o ne aveva uno che lo confondeva e gli svaniva davanti agli occhi, e fu così che nacque e crebbe nella mente dell’avvocato una curiosità prepotente, quasi disordinata, di vedere le fattezze del vero signor Hyde. Se avesse potuto mettergli gli occhi addosso, almeno una volta, pensava che il mistero si sarebbe rischiarato e forse sarebbe svanito, come succede di solito alle cose misteriose quando vengono esaminate attentamente.[2]

E la paura di qualcosa di imprecisato ma terribilmente concreto aumentava i patemi di Utterson. Alla fine arriverà a scoprire la verità, una verità inquietante, definitiva sul conto dell’amico Jekyll. Una verità sconvolgente.

Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde è uno dei grandi capolavori della narrativa del XIX secolo e di ogni tempo. La trama semplice e densa di mistero conduce direttamente verso una delle consapevolezze rimosse dell’uomo occidentale: esso è una guida negli inferi della cattiva coscienza che si cristallizza in modo definitivo durante il secolo vittorioso e inquietante che fu il lungo ‘800. Stevenson racconta la storia di un uomo scisso a metà, tra l’essere primitivo, primordiale e l’essere civile, artificiale. I due esseri sono moralmente l’uno l’antitesi dell’altro: come l’uomo primitivo è puro nel male perché il suo egoismo è assoluto, così l’uomo civile è buono. Ma entrambe sono facce costituenti dell’unica moneta che è l’essere umano, uno e due allo stesso tempo: la coscienza unifica (coscienza rappresentata dalla narrazione in prima persona che chiude il racconto) ciò che la natura e la civiltà hanno reso doppio. Si faccia caso che la doppiezza dell’animo umano si traduce anche nel fisico, ma non nella coscienza e nella memoria, perché tanto Hyde che Jekyll hanno la stessa “mente”, gli stessi ricordi e la stessa base su cui ragionare. Così, la dualità è frutto di un apprendimento successivo, perché l’uomo nella sua essenza è solamente Hyde: ciò che viene nascosto, seppellito, viene ad essere rimosso solo in quanto qualcos’altro gli sta sopra. Questo sostrato successivo, posticcio, è dovuto all’apprendimento delle regole della civiltà, che si sommano ma non annullano l’animo primordiale della bestia che sta dentro di noi:

Fu esaminando l’aspetto morale, e nella mia stessa persona, che imparai a riconoscere la profonda e primitiva dualità dell’uomo; mi accorsi che, di fronte alle due nature che lottavano per il predominio della mia coscienza, anche se potevo a ragion veduta essere l’una o l’altra, ciò avveniva soltanto perché ero radicalmente tutte e due; e già dal principio, anche prima che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse incominciato a suggerirmi la pura possibilità di tale miracolo, avevo imparato a soffermarmi con piacere, come su un bel sogno ad occhi aperti, sull’idea della separazione tra questi due elementi.[3]

I due elementi sono parti costituenti originarie dell’essere umano nel momento attuale, nella sua forma compiuta. Non è un caso che Jekyll, raccontandosi, scopra la “dualità” ragionando sulle componenti morali. E’ proprio la morale a creare la scissione tra le due anime, non la purezza della bestia, proprio perché essa è pura pulsione aggressiva, che si sfoga direttamente verso un oggetto. Solo con l’occhio interiore morale è possibile guardare a quella parte che è diretta esclusivamente verso l’esterno. Si lascia intendere, infatti, che gli episodi di violenza, scatenati da ira, rabbia, non siano gli unici peccati che compie Hyde, ma si può intravvedere tutto lo spettro dell’animalità umana che riaffiora direttamente in superficie: il protagonista dice esplicitamente che i suoi atti sono deprecabili al massimo grado (e non si può non pensare che alla violenza fisica non si associ una qualche altro corrispettivo a livello sessuale, testimoniato dalle strane frequentazioni notturne di cui si dice di Hyde). In questa ottica, non sorprende, allora, che Jekyll guardi ad Hyde in modo indulgente, parternalistico perché, in fondo, gli riconosce le ragioni di esistenza, come il filone filosofico del buon selvaggio, che amava indulgere sui costumi dei “primitivi”: riconosce la sua stessa origine e non può condannarla tout court: “Jekyll provava per lui qualcosa in più dell’interesse di un padre, Hyde qualcosa in più dell’indifferenza del figlio”.[4] Appunto, Hyde non ha quasi coscienza, se non quella degli avvenimenti esterni verso cui è integralmente proteso. Nella sua peculiare prospettiva non c’è riflessione o ripensamento perché ciò implica avere già una forma di regola appresa a partire dalla quale ragionare e secondo cui valutare eticamente la realtà. Ma Hyde è pura pulsione, è pura aggressività. Dunque, è indifferente nei confronti di Jekyll, per quanto sia consapevole che sia lo stesso Jekyll che lo riconduce all’oblio.

Uno e due. La via percorsa da Jekyll, dunque, inizia in una consapevolezza puramente astratta ma si traduce in una via mediata da uno strumento specifico: una “pozione”. Impossibile, oggi, non pensare alla droga, di cui Stevenson esibisce una peculiare conoscenza degli effetti, ma di questo diremo dopo. L’aspetto duale finisce per diventare una scissione aperta e consapevole fino a tradursi a livello fisico, tramite l’espediente della pozione:

Sentii che dovevo scegliere tra questi due. Le mie due nature avevano in comune la memoria; ma tutte le altre facoltà erano divise tra loro in modo diverso. Jekyll, che era un composto, ora con sensibile apprensione e ora con avido slancio, progettava e condivideva i piaceri e le avventure di Hyde, mentre Hyde era indifferente a Jekyll, o se lo ricordava come il bandito della montagna ricorda la caverna in cui si nasconde dagli autori”.[5]

Si noti che l’espediente narrativo della pozione associ il racconto più al genere della fantascienza che non al sempre citato misto tra horror e giallo. Non c’è nessun assassino da scoprire, né c’è alcun legame con la narrativa horror, se non l’aura di mistero: ma il mistero, l’inquietudine non possono considerarsi prerogative dell’horror, giacché basterebbe considerare la distanza tra questo racconto e quelli horror di Lovecraft per rendersi conto dell’inadeguatezza di questa inconsulta categorizzazione.

La trasformazione di Jekyll conduce all’abbandono o al ritorno di una delle due “nature”. Ma questa ha una terribile conseguenza: dopo un certo momento in poi, la natura di Hyde sembra riemergere prepotentemente su quella di Jekyll, che diventa sempre più cedevole nei confronti della controparte. Se Jekyll al principio era la parte dominante, con il procedere dell’assunzione della pozione la relazione si inverte: Hyde prende il sopravvento e il corpo di Jekyll si trasforma direttamente in quello di Hyde anche senza più dover ingerire la pozione. Questo conduce all’ulteriore problema: se Jekyll decideva di essere Hyde a tempo determinato per sfogare quelle pulsioni apparentemente rimosse senza il senso di colpa determinato dalla sua posizione sociale e morale, adesso che il regresso è compiuto l’inversione è molto più difficile. Jekyll scopre a sue spese che il ritorno alle origini è una strada pericolosa, dalla quale è difficile tornare in dietro. Non è un caso. Il Kurz di Cuore di Tenebra compirà lo stesso percorso regressivo, con la differenza che questo percorso si gioca attraverso lo spazio fisico e non in quello interiore.

La forza di Hyde finisce per prevalere perché le pulsioni liberate divengono ingovernabili, come l’acqua che casca al seguito del crollo di una diga. Ed il tutto era determinato dal fatto che se Jeckyll era un campione della civiltà, rimaneva comunque insoddisfatto nel profondo, in quell’antro nascosto che ci portiamo dentro tutti e che ci spaventa quando affiora in tutta la sua forza: “Dividere la sorte con Jekyll voleva dire rinunciare a quei piaceri che mi ero segretamente concesso e a cui ultimamente avevo incominciato a indulgere. Scegliere Hyde voleva dire rinunciare a mille interessi ed aspirazioni e divenire di colpo e per sempre disprezzato e senza amici”.[6] La coscienza lucida, l’io attuale narrante, si rende conto che una vita “regolare” sembra preferibile a quella pulsionale, eppure si lascia chiaramente intravedere il fatto che probabilmente le cose non stanno affatto così, che quella “regolarità”, quella “moralità” ci pesa, ci condanna e che ci priva dei piaceri brutali della bestia che sopravvive dentro di noi e alla quale costruiamo una gabbia che può sempre cedere da un momento all’altro.

In questa visione si comprende come la purezza del male, così inteso, è molto più cristallina che non la purezza del bene. Il male, determinato dalle pulsioni primordiali, è tale: può essere ridimensionato ma non eliminato. Il bene può essere eliminato, perché si è venuto a formare sopra delle fondamenta diverse. Il bene è determinato dalla coscienza morale, dalle regole etiche successive alla natura primordiale dell’essere umano. La dualità si è formata solo con l’apprendimento, molto lentamente ed è una forma piuttosto precaria, che può involvere per ritornare alle origini. Inoltre, le conseguenze del bene sono una vita piuttosto ordinaria, i cui piaceri sono tanto sofisticati da essere spesso impalpabili. La via del male, invece, è molto più chiara nel piacere, anche se essa diventa chiaramente problematica, oltre ad essere inaccettabile per qualunque persona dotata di buon senso e amore per vita, e non solo per la propria. Ma la forza, la violenza hanno conseguenze nitide, comprensibili, accessibili, ben chiare. Non c’è bisogno di ragionare, si colgono subito i vantaggi della forza e della brutalità. Il sangue che cola dalle labbra del leone è proprio ciò che aumenterà il suo potere.

Nel momento storico in cui la coscienza dell’Occidente si rinnova in una forma molto più radicale di razionalismo, seguita alle riorganizzazioni e standardizzazioni della vita imposte dal nuovo regime industriale e statale, ecco che riaffiora la coscienza della nostra essenza più basilare. Questo elemento profondamente conturbante e inquietante è mostrato dalla regressione operata anche a livello strutturale: si inizia con una passeggiata tra individui normali e si conclude con la confessione di Jekyll. Ma questo espediente consente di portare il lettore (e l’autore) verso una nuova consapevolezza: che il mondo che ci circonda, abitudinario, quotidiano, rutinario, è comporto da Jekyll e Hyde. E’ impossibile non pensare alla chiusura, alla conclusione sconvolgente di un altro romanzo di un genio scozzese, Erbert G. Wells, L’isola del dottor Moreau, nel cui finale l’uomo che ha visto gli uomini bestia si confonde vedendo i suoi simili, vedendo in essi la bestia che c’è dentro di loro. Questo tema, a livello filosofico, sarà ripreso in modo inequivocabile da SchopenhauerNietzsche, per quanto sarà ribaltato in senso positivo: la bestia che c’è dentro di noi è quel dobbiamo ritrovare per ritornare ad essere vivi.

Scissione, uomo/bestia. Siamo tutti così, nessuno escluso, nonostante la scissione tra la bestia e il santo lasci intendere che siamo tutti civili, puliti, incensati. Ma non è così: “Dopo tutto, riflettei, ero come i miei vicini; e qui sorrisi, paragonandomi agli altri uomini, paragonando la mia attiva e buona volontà con la pigra crudeltà della loro indifferenza. E proprio nel momento preciso di quel vanaglorioso pensiero, fui colto da malessere, da una nausea spaventosa e da un tremito mortale”.[7] Questo era il punto, uno dei punti fondamentali. La nostra pelle non è altro che la pelliccia che nasconde gli artigli del giaguaro e il nostro sorriso non è altro che un modo per mostrare i denti: possiamo dilaniare la carne, possiamo mordere. Ma attraverso il sorriso mostriamo anche la nostra simpatia, empatia, calore. Ed è questa impossibilità di comprendere dove finisca la bestia e dove inizi l’uomo civile a farci vacillare nella comprensione di noi stessi, inquietudine del Conrad di Cuore di tenebra.

In questa dimensione il ruolo della droga diventa controverso. Essa determina quella regressione che conduce inevitabilmente alla spensieratezza e sospensione momentanea della coscienza, necessaria per rientrare negli abiti della bruta bestia. Genera piacere, estasi, ritorno alle origini. Ma le conseguenze sono, in realtà, disastrose. Stevenson tratteggia continuamente Jekyll come un tossicodipendente: necessita di continuo della pozione e la sua assunzione è un mezzo doloroso per raggiungere il suo scopo. “Ce l’ha? – Gridò – Ce l’ha? E la sua impazienza era tanto viva che mi prese persino per un braccio e incominciò a scrollarmi”[8] e ancora e soprattutto: “Trovai che certe sostanze avevano il potere di scuotere e sradicare questo vestito di carne, come un vento agita le tende di un padiglione”.[9] Inoltre, l’assunzione della “pozione” conduce a dolori inverosimili, per via della trasformazione fisica che essa comporta. Jekyll decide anche di non assumere mai più le sembianze di Hyde, ma è più forte di lui, alla fine cede alle lusinghiere tentazioni. Il tutto perché egli non è soddisfatto dalla sua vita di studioso:

Già a quel tempo non riuscivo a dominare la mia avversione per l’aridità di un’esistenza dedita allo studio. Ero sempre bramoso di divertimento; e siccome i miei piaceri erano (per non dir altro) poco dignitosi, ed io ero  non soltanto conosciuto, e ben considerato, ma anche prossimo all’età matura, questa incoerenza della mia vita diveniva ogni giorno più sgradita. Fu per questo che il mio nuovo potere mi tentò fino a che divenni suo schiavo.[10]

La vita quotidiana, sobria è l’anticamera della morte delle pulsioni e delle passioni, e queste non possono sopirsi. Il problema è la conciliazione con il proprio ruolo sociale che, come abbiamo detto, richiede l’adozione di un costume ben più “civile”, almeno in una dimensione decisamente superficiale. Sicché l’adozione della droga, come espediente di trasgressione e regressione, diventa l’elemento salvifico per chi non riesce a vivere dentro quelle strette maglie anguste che usualmente le persone intendono con “civiltà”. Vivere una vita non propria, costretti in una camicia di forza, in un’uniforme, conduce inevitabilmente al riconsiderare quella natura pulsionale, pura, malvagia (secondo Stevenson, perlomeno) che sta alla base di tutti noi. Ed ecco che la nostra coscienza notturna, la vita dell’Occidentale diventa segnata: il vestito ha solo rivestito il corpo di una bestia, quella bestia che sempre sarà l’essere umano. Siamo tutti come quei soldati che, pur dotati di un’uniforme così rigida e pulita, simbolo dell’organizzazione e figlia del razioncinio, finiscono per essere i flagellatori del mondo e di noi stessi.

Lo strano caso del dottor Jekill e il signor Hyde è uno dei grandi frutti dell’ingegno umano. Leggerlo è un viaggio insostituibile dentro la verità. La verità più profonda celata dentro noi stessi: “…ho imparato che il destino e il peso della nostra esistenza sono stati imposti per sempre sulle spalle dell’uomo, e ad ogni tentativo per liberarsene, essi ci ricadono addosso con una oppressione ancora più dura e terribile”.[11] Siamo bestie, ma non possiamo permettercelo.


ROBERT LUIS STEVENSON

LO STRANO CASO DEL DOTTOR JEKILL E IL SIGNOR HYDE

FELTRINELLI

PAG.: 112.

EURO: 5,90


[1] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 100.

[2] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 43.

[3] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 108.

[4] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 119.

[5] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 119.

[6] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 119.

[7] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 124.

[8] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 101.

[9] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 109.

[10] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 113.

[11] Stevenson L. J., Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde, Edizioni Paoline, Chieti, 1966, p. 109.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

3 Comments

  1. Giorgio Giorgio 18 Novembre, 2019

    Articolo interessante e disamina convincente. Non mi trovo d’accordo su questo punto: “” Il signor Utterson passeggia placido con un suo amico. Entrambi sono persone pacate, silenziose, normali, prive di interessi perché potrebbero condurli in luoghi sconvenienti. La loro condizione abituale è quella di vivere, e rivivere ogni giorno la vita del giorno precedente. “. In realtà, fra le pieghe della narrazione, si scorge in entrambi una propensione al versante “umbratile” della personalità piuttosto spiccato. Nel racconto di Enfield a Utterson sulla “porta”, il primo dichiara di tornare da un posto “in capo al mondo” che suggerisce abitudini non certo compatibili con la forma vittoriana da esprimere pubblicamente. Solo Utterson si castiga esplicitamente, ma la sua curiosità morbosa nel voler vedere il volto di Hyde tradisce la medesima propensione. E’ solo un punto di vista, ovviamente,
    Buon lavoro!

    • Redazione Redazione 19 Novembre, 2019

      Ciao Giorgio,

      Grazie per averci letto e per averci scritto. Bellissimo commento sul quale non mi sento di rispondere perché ormai ho letto il testo troppi anni fa (in fondo 6 anni sono troppi anche per me eheheh!). Oggi lo rileggerei in inglese. Forse è arrivato il tempo di farlo! In ogni caso, davvero un’osservazione di spessore.

      Grazie per le gentili parole

    • Redazione Redazione 19 Novembre, 2019

      Ciao Giorgio,

      Grazie per averci letto e per averci scritto. Bellissimo commento sul quale non mi sento di rispondere perché ormai ho letto il testo troppi anni fa (in fondo 6 anni sono troppi anche per me eheheh!). Oggi lo rileggerei in inglese. Forse è arrivato il tempo di farlo! In ogni caso, davvero un’osservazione di spessore.

      Grazie per le gentili parole

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