Rivista di scacchi 27
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Era una questione personale. Tutto negli scacchi diventa una questione personale, il fatto e il non fatto, il detto a parole e soprattutto il non detto in alcun modo. In fin dei conti la madre di tutte le superstizioni è l’immaginazione, la volontà recondita di trovare cause sbagliate per eventi veri. Uno sguardo sbagliato si tramuta spesso in infinite interpretazioni: gli scacchisti sono sempre in bilico tra la verità e l’assurdo.
Nella casa del grande maestro lettone, Aron Nimzowitsch, si disputava una partita importante per nessuno tranne che per lui e per il geniale Capablanca, suo sfidante. Era ormai patta quando Aron lascia un pezzo in presa e così finisce la partita: una beffa. L’ironia alla dea invisibile degli scacchi non manca e si diverte spesso a vedere saltare i nervi. Ma, nonostante la provocazione divina, Nimzowitsch sembra essere tranquillo: fallace apparenza.
Pili G., www.scuolafilosofica.com
“Il cavallo? Cavallo in h1! E’ chiaramente impazzito… Mossa 18 ) Ch1”.
Penso tra me quando vedo la mossa del mio avversario. E’ un peccato che non si possa parlare, ogni tanto in una partita a scacchi viene di sbottare qualche cosa, un insulto magari o una domanda. In effetti, le domande e gli insulti per tanti hanno lo stesso sapore, ma per me, giocatore di scacchi incallito, sono indispensabili.
Ragioniamo, allora, il cavallo in h1 difende i punti g3 e soprattutto il pedone debole in f2, dunque il cavallo l’ha piazzato là con uno scopo difensivo. No, forse no. E’ più probabile che abbia considerato che il cavallo in h1 fosse in grado di occupare poi una posizione vantaggiosa: portandosi in h1 può portarsi in f2. Forse la motivazione riguardava la proprietà del cavallo di muoversi ad elle…
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Consigliamo – Il piccolo Cavaliere del Re degli Scacchi di C. A. Cavazzoni
“Scacco matto!” Disse il vecchio Evaristo con la mano tremante.
“Al diavolo… ma, alla fine, stavo meglio io…” Rispose acido l’altro signore anziano, Ernesto.
Evaristo e Ernesto erano amici da lunga data e amavano disquisire sulle varie posizioni. Se uno dei due vinceva, l’altro aveva da ridire sul motivo della vittoria. Da circa cinquant’anni andava avanti così. Quel giorno invece…
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Capita che gli esseri umani vogliano misurarsi coi computer che hanno creato in qualche attività di tipo intellettuale, come quando si fa giocare il tal campione di scacchi contro un software scacchistico (…). Man mano che aumentano la potenza e le capacità dei calcolatori elettronici, molte persone si sentono rassicurate dal fatto che un campione del mondo di scacchi riesca ancora a battere il computer, e viceversa, avvertono una sorta di disagio se, invece, è la macchina a spuntarla. (…) Il fatto è che a molti dà fastidio l’idea che un computer possa essere più intelligente di noi.[2]
Francesco Berto
Attorno al computer scacchistico, vivono due generi di opinioni distinte e contrastanti: da una parte ci sono i “luddisti”, quelli che vedono nell’arrivo del computer la fine dell’intelligenza e la vittoria del meccanicismo negli scacchi. Generalmente i “luddisti” sono dei nostalgici e vorrebbero tornare all’ingenuità, persa con il computer.
Tutti gli scacchisti seri si saranno soffermati spesso in sede di analisi su una questione di importanza primaria: perché abbiamo sbagliato proprio in quel momento, proprio quella mossa così importante? Quando diciamo di “aver sbagliato”, generalmente intendiamo due cose: o di non aver giocato la mossa vincente o di non aver evitato una mossa perdente. La domanda si snoda in due problemi, talvolta diversi, ma uniti dalla stessa radice.
Molti riducono la questione al puro dato di fatto: abbiamo sbagliato perché invece di giocare una mossa ne abbiamo fatto un’altra per ragioni più o meno sensate (o più o meno insensate). Quello che accade, sempre e comunque, è che di fronte all’errore cerchiamo dei resoconti coerenti che spieghino l’insensatezza, assoluta o relativa, del nostro agire. Per le mosse vincenti non ragioniamo così perché già sappiamo il motivo del nostro comportamento. Tuttavia, ben pochi si sono sforzati di andare oltre questo livello e domandarsi perché in generale compiamo determinati errori piuttosto che altri e perché taluni ricorrono più spesso.
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La settimana scorsa andavo ad una lezione di scacchi al mio attuale circolo di Milano, la magnifica Accademia a pochi passi dal Duomo in via laghetto. Orbene, andavo di fretta, come al solito in ritardo e, nel poco tempo a mia disposizione dovevo anche mangiare. Inghiottendo i bocconi, quasi strozzandomi, mi capitò pure di sporcarmi il mio giaccone blu scuro, quello buono. Studente fuori sede, privo delle piacevoli cure di una donna, lontane seicento miglia da me l’amata e la madre, questo è un guaio serio al quale si può scegliere o di indossare il cappotto primaverile o spendere una ventina di euro in una buona lavanderia. Sto ancora decidendo.