Here we go! It is with distinct pleasure sharing this paper with my everpresent SF audience. It is the first one for this year. The topic is extremely timely: the morality of war. This is a real philosophical paper for the journal Moral Philosophy/Filosofia Morale. I thank Professor Roberto Mordacci, dean of the faculty of philosophy of Università Vita-Salute San Raffaele, for his kind invitation. It was the opportunity to write officially about Kant’s morality, one of my greatest philosophical conceptions. I reframed it and tackled the most difficult question in morals: can war be just? And the answer is resolute: no… but! And I leave you all with this hoping to have feedback on the reading. The paper can be found here: academia and on the journal’s webpage.
La teoria retributiva della pena afferma che è giusto punire qualcuno perché e solamente perché se lo merita; dunque è giusto punire chi trasgredisce poiché ha trasgredito. Ad essa si oppone la teoria consequenzialista, secondo la quale il trasgressore deve essere punito in virtù delle conseguenze positive della pena per l’individuo punito (ad esempio, in termini di rieducazione) o per la società (rinforzo della norma, comunicazione ed esempio, deterrenza etc.).
Pensiamo che il Prof. Luca Surian, psicologo e ricercatore dell’Università di Trento, abbia saputo, con la sua introduzione sullo stato della ricerca in psicologia morale – pubblicata per il Mulino con il titolo “Il giudizio morale” (2013) – realmente fornire al lettore utili stimoli per avvicinarsi alla materia, o per farsi una prima idea, ma vera (e vera perché chiara), dei temi in argomento.
Con l’epoca moderna abbiamo i primi segni dell’incrinatura del dominio del paradigma razionalista[1]. Si può già vedere, in pensatori come Pascal e Nicole, i quali riprendono diverse direzioni del pensiero di Agostino, una sorta di recupero del sentimento contro la ragione, o per lo meno il superamento temporaneo della tradizionale contrapposizione tra sentimento e ragione. Non sono d’accordo con questa interpretazione. Penso piuttosto che queste filosofie possano essere tranquillamente catalogate come filosofie della retta ragione, per cui è sempre all’istanza della ragione che è demandato il compito di guidare l’azione. Per quanto riguarda l’amore di cui molto parlano queste filosofie credo basti quanto già osservato a proposito di Agostino; l’amore per il dio non va confuso con l’amore terreno. Che poi la ragione sia inerme senza la grazia del Dio, è una questione del tutto irrilevante per i nostri particolari interessi.
È senz’altro ridicolo tentare di riassumere il pensiero filosofico etico medievale in poche parole. Per questo non tento qui tanto un riassunto, quanto piuttosto di mostrare attraverso le figure filosofiche più importanti o significative, sempre selezionando i contenuti in ragione di una risposta alla nostra domanda, come questo – il pensiero – si muova attraverso i secoli fino alla modernità tenendo per lo più fermo un suo comune dominatore, che è allora in grado di unificarlo: la retta ragione (recta ratio). Preliminarmente possiamo dire che, rispetto all’etica antica, l’etica medievale non concepisce più il peccato come sopraffazione della parte irrazionale dell’anima su quella razionale, ma piuttosto come libera volontà di fare il male. La categoria della volontà è senz’altro una grande novità del pensiero etico medievale. Punto di continuità con il pensiero antico è invece proprio la recta ratio. Mostreremo che anche il pensiero etico medievale per lo più privilegia la componente della ragione a discapito della componente emotiva del processo di presa di decisione e azione morale.
Entrambe le grandi tradizioni antiche, quella platonica e soprattutto quella aristotelica, rimangono ben vive nel pensiero medievale. La prima si impone soprattutto nella prima fase del pensiero medievale, dopo Agostino, che propriamente è un filosofo del tardo antico; la seconda si impone nella seconda parte del pensiero medievale, con particolare forza dopo la traduzione in latino dell’Etica Nicomachea. Contrariamente alle tradizioni antiche, si afferma spesso, durante il medioevo, la visione per cui il sommo valore non è la felicità ma l’amore, atto della volontà. Sicché la volontà riceve un’attenzione prima sconosciuta. Sottolineo questo solo per dire che questo primato della volontà, spesso sostenuto (da Agostino prima di tutti), non è di per sé in contraddizione con il pensiero per cui deve essere la razionalità a guidare il processo di presa di decisione e quello d’azione. La contrapposizione volontà ragione non è la contrapposizione passione (o emozione, sentimento) ragione, a meno di non concepire la volontà come determinata dalla passione. A noi interessa il rapporto ragione passione.
La storia della filosofia morale è senz’altro molto lunga e complessa, dunque ogni tentativo di ridurla a schema evolutivo secondo categorie dal potenziale dicotomico come quelle di ragione ed emozione non può che portarci ad una conoscenza parziale della complessità che compone il percorso della filosofia morale dal suo nascere ad oggi. La riduzione è nondimeno necessaria, e le categorie riducenti possono senz’altro avere due vantaggi: primo, agevolano la nostra comprensione della storia, altrimenti difficilmente raggiungibile; secondo, permettono alle volte, quando le categorie sono inusuali rispetto alla norma, di scoprire fatti nuovi o portare alla luce fenomeni prima all’oscuro, attraverso il darsi di nuove interpretazioni. Tolto l’ausilio della semplificazione e della categoria rimaniamo in preda al caos e all’indeterminazione più assoluti, i quali non permettono la nostra comprensione dei fatti. Il farsi carico di questa necessità però non implica sfigurare i fatti della storia attraverso le proprie categorie e il proprio metodo di comprensione – nonostante si ammetta questo sia in certa misura necessario o costitutivo al darsi della realtà – ma anzi tendere verso una sempre maggiore aderenza alle vicende storiche del pensiero.
Esaminate le vicende del pensiero filosofico morale, azzardo un’asserzione audace, che cercherò di supportare mostrando l’andamento della storia, interpretata alla luce della risposta che le varie filosofie nel loro susseguirsi hanno dato alla domanda del ruolo relativo di emozione e ragione nel processo di presa di decisione e azione morale. L’asserzione audace è che la storia della filosofia morale occidentale, almeno fino alla modernità, è caratterizzata da un pensiero che enfatizza ed esalta la componente della ragione nel processo di presa di decisione e azione morale, mentre demonizza e scredita la componente emotiva, alla prima opposta. Se la ragione ci mette in contatto con le idee più alte e nobili (es. con la divinità stessa), l’emozione non è che il ricordo nell’uomo della sua animalità. Dove la ragione è l’alta manifestazione dell’anima, l’emozione è la bassa manifestazione del corpo. La ragione favorisce e arricchisce la nostra vita morale, mentre l’emozione per lo più impedisce il suo corretto darsi. La moralità stessa è concepita come un sistema di principi coglibile astrattamente dalla ragione, e le emozioni come motivazioni che possono favorire o sovvertire la nostra decisione razionale, motivazioni che sono però moti (ciechi) non-razionali che tendono a dominarci. Questa tendenza generale della filosofia morale rappresenta per noi il paradigma della tradizione, messo in discussione dalla filosofia sentimentalista del XVIII secolo. A questa discussione del paradigma, o rivoluzione, come più avanti l’ho chiamata, segue la risposta della tradizione, che si compie in Kant. Il pensiero post-kantiano però vede il superamento del paradigma tradizionale, nel solo senso che tendenzialmente l’emozione non è più ignorata come elemento di disturbo o inessenziale alla morale.
La filosofia morale contemporanea tenta di indagare alcuni casi particolari delle azioni umane: le azioni umane definibili volontarie. Le azioni umane volontarie sono quelle in cui il soggetto si trovava nella condizione di poter determinare la propria scelta senza costrizioni e, a seconda di come si interpreti il mondo delle possibilità del soggetto, a seconda delle sue possibilità. In questo senso la filosofia morale si sforza di comprendere il ruolo del soggetto nel momento stesso in cui decide di intraprendere le azioni. In senso ampio, uno dei problemi generali della filosofia morale sta nella determinazioni delle motivazioni che sono dietro ogni scelta: il problema dell’intenzionalità.
John Mackie è un autorevole interprete di Hume e la sua filosofia incorpora alcune reminiscenze humeane. Innanzi tutto egli sostiene che non esistano dei fatti intrinsecamente morali che consentano una fondazione dell’oggettività in etica. Se essi ci fossero, allora o sarebbero indagabili dalle teorie scientifiche oppure no. Se no, allora dovremmo avere una facoltà particolare in grado di conoscere le peculiari proprietà morali, il che è molto difficile da accettare. Tale argomento si chiama argomento della stranezza per via del fatto che le proprietà morali sarebbero “strane” rispetto alle normali proprietà fisiche, studiate dalle scienze naturali. In secondo luogo, se la morale si fondasse direttamente su proprietà morali oggettive, allora non darebbe adito a grandi discussioni, viceversa, tali problemi ci sono. Inoltre, Mackie osserva che nella storia non solo ci sono state moltissime varianti di sistemi morali, ma pure all’interno di una stessa società sono stati adottati più codici distinti: in medesime società, in tempi diversi sono stati adottati i più svariati sistemi morali. Inoltre, si potrebbe anche discutere sull’idea che tali codici morali abbiano effettivamente delle regole in comune, universali, giacché alcuni sistemi etici prevedevano il cannibalismo, piuttosto che il sacrificio rituale di animali o uomini. Insomma, la morale non si fonda su proprietà morali distinte da quelle fisiche né consente di pensare ad un linguaggio morale che sia in sé oggettivo.
I fatti sono oggetto di conoscenza della scienza naturale
La scienza è un sistema di costruzione di mezzi
La scienza, dunque, non costituisce un sistema di fini
La scienza è neutra rispetto a ciò che conosce
I valori sono definiti da proprietà e relazioni che non valgono per i fatti
L’atto valorativo è un atto soggettivo
I valori sono relativi al soggetto
Ovvero ogni atto di valutazione è relativo all’individuo che lo compie
Non ci sono atti di valutazione oggettivi
Non esistono procedimenti che consentano di dirimere preferenze di valori
La norma non è determinata da alcun principio oggettivo fondativo
L’adozione di un’etica è agente-relativa
Per Max Weber tutto ciò che esiste sono i fatti i quali sono indagati dalla scienza naturale. La scienza, in questo senso, si limita a riportare i legami causali tra fenomeni senza darne una valutazione. L’interesse dello scienziato è l’indagine della realtà per quel che essa è, con il solo fine di giungere alla costruzione di mezzi tali che ci consentano una migliore gestione dell’esistente. La realtà va dominata con gli strumenti della scienza naturale.
Fondazione epistemologica dell’etica su intuizioni di verità formali oggettive
Proprietà delle proposizioni intuitive:
Sono proposizioni dal contenuto molto generale e formulate con pretesa di consenso universale
Le proposizioni intuitive non sono necessarie
Le proposizioni intuitive sono motivanti per chi le assume
Le proposizioni intuitive costituiscono l’espressione di una convinzione profonda, rivedibile solo a condizione di sostituirla con una nuova proposizione sostitutiva
Modalità di conoscenza di proposizioni intuitive:
Le proposizioni intuitive non necessitano di una prova per essere credute
Le proposizioni intuitive non sono fondate su premesse
Le proposizioni intuitive devono essere comprese in modo chiaro in ogni parte da chi le assume
Le proposizioni intuitive si rifanno a intuizioni preteoriche
I doveri si distinguono i due categorie:
Prima facie
Generali
L’intuizionismo di Price e Clark si fondava sull’adozione di entità intrinsecamente normative. L’oggettività morale si fondava, per Clark, sui fatti che erano dotati di determinate proprietà morali, indipendentemente da come noi li conosciamo o consideriamo: la natura è di per sé buona. Gli intuizionisti si configurano come dei teorici profondamente critici nei confronti della posizione volontarista che, viceversa, assumeva l’idea che nel mondo naturale non esistono fatti morali e gli agenti si comportano automaticamente in base al principio egoistico dell’utilità. L’intuizionismo di Price si richiamava all’evidenza di proposizioni morali indubbiamente vere, riconosciute come tali dal soggetto morale. Price faceva seguire, da ciò, l’evidenza di alcuni doveri morali, come i doveri verso Dio, verso sé e verso gli altri.