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Case di studenti – Tra autarchia e anarchia

© Scuola Filosofica

A Emilio, Matteo, Luca

e tutti gli altri miei coinquilini

che, in tutti questi anni,

hanno arricchito la mia vita,

al di là di ogni rottura di palle!

Preambolo

Dopo dieci anni di vita in affitto nei posti più diversi, posso dire di avere una certa cultura sulla natura delle case di studenti. O, per meglio dire, di una loro componente che spesso sfugge ad ogni logica di razionalizzazione, nel senso che in pochi dedicano studi e interesse a tale argomento che investe, invece, una enorme quantità di giovani. Vale a dire la codifica o, almeno, la disamina critica dei regolamenti che rendono possibili (o impossibili) le più elementari forme di convivenza tra perfetti estranei. Infatti, sia detto chiaramente, che non essendoci alcun legame di “classe”, laddove gli studenti sono tipicamente una compagine eterogenea ben difficilmente unita da interessi collettivi (a parte, e non sempre, la volontà di rompere la solitudine con feste e divertimenti di varia natura), se ne può concludere che la vita nelle case di studenti sia resa possibile dall’autoregolamentazione delle parti in causa.

Infatti, gli studenti non costituiscono una “classe” analoga agli operai o agli insegnanti. In primo luogo perché non hanno diritti comuni da difendere (nonostante le apparenze) perché le differenze istituzionali e pratiche tra discipline e corsi di studio rende ciò implausibile. In secondo luogo perché non hanno scopi condivisi, nella misura in cui tutti devono laurearsi, cioè hanno un obiettivo personale e individualizzato, che non prevede per la sua riuscita la presenza di terzi (almeno non in senso stretto). In terzo luogo le differenze di età e di interessi rendono la compagine studentesca quanto mai sfuggente ed aleatoria, ben difficile da riassumere in unico movimento, almeno in questo momento di assenza di ideologie dominanti al di fuori del mondo studentesco. In quarto luogo, e ben più importante, gli studenti non sono ancora una forza lavoro, sicché non sono che un’appendice del vero potere, costituito dai soldi, ovvero dallo stipendio dei genitori. In assenza di un contratto lavorativo, in assenza di scambio di forza lavoro per un compenso, non c’è un diritto che debba venire difeso, fatto salvo il diritto allo studio. Inoltre, gli interessi degli studenti sono genericamente tre: studiare, avere un compagno/compagna, divertirsi nel tempo libero. Nonostante le apparenze, si tratta di tre obiettivi comuni, sì, ma quanto mai individuali. Una volta che si trova la compagna, una volta che l’elemento diversivo diminuisce di interesse, rimane ben poco altro che si può condividere di per sé, in quanto appartenenza di classe.

2 La nascita della colonia penale agricola in Europa

DZankell, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Il paragrafo precedente ha voluto analizzare come si sia sviluppata nel diciottesimo secolo un’intensa attività, da parte delle principali potenze europee, di colonizzazione interna nelle terre extraeuropee. Molte volte la colonizzazione avvenne anche tramite la ‘colonia penale agricola’. Come vedremo in questo paragrafo, si sviluppò un importante dibattito sulle condizioni dei coloni e sull’utilità delle colonie stesse.

Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppò in Italia, come altrove in Europa, specialmente in Olanda e Francia, un intenso dibattito sui sistemi penitenziari: si prendeva infatti in considerazione l’idea di rendere le pene detentive meno truci, svincolando il detenuto da quel triste avanzo della galera: la catena.[1] La pena non doveva essere semplicemente ‘punitiva’, ma doveva avere al suo interno un significato catartico per il detenuto. L’Italia, a differenza di quasi la totalità dei Paesi europei dell’Ottocento, aveva pochi possedimenti d’oltremare che permettessero la sperimentazione di colonie penali; solo stati come Francia e il Regno Unito, cercarono di effettuare una colonizzazione dei possedimenti d’oltremare con l’invio di condannati dalla madrepatria.[2]

Nell’ambito del dibattito sui penitenziari in Europa si ragionò comunque sulle possibili alternative al carcere come simbolo del luogo di pena: nacque così il concetto di ‘colonia penale agricola’. Secondo la definizione del Digesto “le colonie penali potevano essere di due specie: di oltremare e interne, le prime in territori conquistati in luoghi lontani dalla madrepatria, le seconde all’interno dei confini naturali”[3].

Zombie e fantasmi – Due figure complementari

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Scopria anche Il vampiro: un’analisi filosofica


Ispirato da una proficua discussione con Francesco Marigo, mio caro amico, vorrei proseguire la strada intrapresa da Il vampiro: un’analisi filosofica con una analisi sugli zombie. Innanzi tutto, gli zombie potrebbero essere ispirati ad alla religione voodoo, ma quelli a cui mi riferirò io sono gli zombie concepiti dalla cultura popolare dei film. Come anche i vampiri, gli zombie sono delle figure che non mi hanno mai detto niente, sicché, rifiutando di pensare che il loro successo sia dovuto alla superficialità della gente, sempre invocata per spiegare qualcosa che non si capisce, tento di comprenderne il significato. Anche perché pure la superficialità ha le sue ragioni e la sua logica, sicché spiegare un fenomeno invocando la superficialità non aggiunge molto alle nostre conoscenze, semmai sposta il problema e addirittura lo complica.

Prima di iniziare vale la pena dire che, a differenza del vampiro, gli zombie sono considerati un autorevole problema filosofico a tal punto che la Stanford Encyclopedia of Philosophy, una delle sovrane fonti filosofiche analitiche e non solo del nostro evo, dedica una intera pagina alla questione. Infatti, prima di tutto ci si può domandare se gli zombie siano possibili, se la loro esistenza sia compatibile con il nostro mondo o se siano impossibili. In secondo luogo essi possono essere utilizzati in esperimenti mentali, ovvero scenari ipotetici in cui si testano le teorie filosofiche: la letteratura epistemologica (dai problemi di Gettier allo scetticismo) e la filosofia della mente (celebri i casi della terra gemella o proprio degli zombie) sono costitutivamente indirizzate da simili scenari immaginari. Gli zombie sono spesso invocati per i problemi legati alla relazione mente/corpo nella theory of mind and consciousness. Detto questo, io mi concentrerò esclusivamente sulla figura simbolica dello zombie, così come ci viene presentata dalla cultura popolare. Per i più interessati alle altre vicende, rimando all’autorevole voce della Stanford sugli zombie.

Il vampiro – Un’analisi filosofica

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Scopri anche Zombie e fantasmi – Due figure complementari


Forse qualcuno di voi si è chiesto il motivo per cui i vampiri piacciono tanto. Almeno, a me questa domanda è balenata per la testa più di una volta. Infatti a me i vampiri non dicono assolutamente niente. Non li trovo né belli né brutti, né affascinanti né repellenti. Non mi sembrano neppure una stramberia. Semplicemente li ignoro.

Naturalmente mi sono imbattuto nella visione di più di un film o narrativa che, in modo diretto o indiretto, considerava la figura del vampiro. Ma il mio problema non era capire in sé cosa fosse il vampiro, ma comprendere perché i vampiri piacciono tanto. E sin dalle origini, sin dai lavori di Bram Stoker e dell’eccezionale Nosferatu il vampiro di Murnau, il vampiro si è imposto subito all’attenzione del pubblico. Ci deve essere un motivo per questo. O, come sempre, una serie di motivi.

Intanto il vampiro evoca una atmosfera gotica, di mistero e di antico, che può affascinare. Infatti, il vampiro (un essere di fantasia) ha un forte legame con il passato oscuro, quasi sempre del medioevo, in cui le immagini dell’immaginario sono spesso di morte e di dominio dell’occulto. Il fascino per i poteri misteriosi congiunti al male hanno sempre interessato le persone, perché rivedono un aspetto della loro realtà che li domina ma li vorrebbe vedere dominatori: essi si sentono schiavi della tecnologia, che non capiscono (quanti sono in grado di spiegare il funzionamento di uno smartphone o del computer, strumenti ormai indispensabili? Ma anche quanti sono in grado di spiegare il funzionamento della caffettiera?), ma allo stesso tempo vorrebbero essere i depositari di quel sapere che la tecnologia dispone e dischiude. Quindi il fascino goticheggiante avvolge il vampiro e lo rende comprensibile alla luce della società ad alto impatto tecnologico che, però, ignora i fondamenti naturali di quello stesso sapere. Il vampiro conserva il fascino del potere che non può essere dominato.

Gli Scacchi in Paradiso

[Nota dell’autore. Originariamente l’articolo costituiva il terzo dei miei commenti all’articolo Gli scacchi come fenomeno culturale: perché gli scacchi hanno avuto da dire nella storia dell’Occidente di Giangiuseppe Pili (11 Maggio 2014); è stata sua l’idea di trasformarlo nel mio primo articolo in ScuolaFilosofica. Esso è stato rielaborato il 1° Maggio 2020 (ricorrenza liturgica di San Giuseppe artigiano, Patrono dei lavoratori), con una piccola variazione del titolo, e ulteriormente modificato in modo lieve il 15 Ottobre 2024 (ricorrenza liturgica di Santa Teresa di Gesù, Patrona degli scacchisti).]

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.

(Divina Commedia, Paradiso XXVIII 88-96)

 

 

Dante e Beatrice si trovano nel cielo Cristallino (o Primo Mobile), sede dei nove cori angelici. Beatrice ha appena fugato i dubbi di Dante sulla struttura e la dinamica dei cerchi concentrici fiammeggianti (che ospitano i cori) e ruotanti intorno a quello che sembra essere il loro centro comune – il quale, in realtà, li contiene [Paradiso XXX 10-12] –, un punto luminosissimo corrispondente a Dio.

Macbeth – William Shakespeare

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Consigliamo Re Lear di William Shakespeare


Macbeth è una delle più famose tragedie di William Shakespeare. E’ la storia di Macbeth, nobile scozzese, che tramite un omicidio diventa re di Scozia. Macbeth era un suddito fedele del re Duncan. Da coraggioso uomo d’arme Macbeth non pensa di tradire il suo re, fino a quando incontra tre streghe, le quali predicono il futuro di Macbeth, un futuro di ascesa e discesa, fosco e tragico. Tuttavia all’altro comandante, Banquo, le streghe predicono che la sua progenie sarà di re. Macbeth non è sicuro di ciò che bisogna fare e si consiglia con la moglie, lady Macbeth. Costei lo spingerà a prendere possesso di quel futuro che così sicuramente gli è proprio, ovvero assecondare la profezia delle tre streghe. Per tale ragione Macbeth uccide il re Duncan, dopo aver organizzato un banchetto in casa sua in suo onore, avendo così avuto premura di mettere il sonnifero alle guardie del re e al re stesso. Macbeth uccide le guardie in un simulato attacco di rabbia, così da non lasciare testimoni o altre possibili spiegazioni sull’accaduto. I figli di Duncan intuiscono il pericolo e fuggono. Ma Macbeth non può fermarsi al regicidio. Egli deve anche eliminare Banquo e suo figlio, per via della profezia. Assolda due sicari per questo compito, sicché uccidono Banquo al banchetto organizzato appositamente per eliminare il nobile uomo, ma falliscono nell’assassinare il figlio. A questo punto Macbeth è re di Scozia e sembra non avere più nemici. Eppure il destino è segnato, come lo era fin da principio.

Gente di Dublino – James Joyce

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Consigliamo Dedalus di Joyce


Poi ci mettemmo a passeggiare lungo il canale; faceva la donna di servizio in una casa di Baggot Street, mi disse. Le passai un braccio attorno alla vita e per quella sera non andai oltre qualche stretta. Le diedi un appuntamento per la domenica dopo, e questa volta ci recammo a Donnybrook dove la porta in un campo. Mi disse di avere una relazione con un lattaio… Ne valeva la pena, te lo garantisco. Tutte le sere mi porta sigarette e mi paga il biglietto del tram di andata e ritorno. Una volta mi ha portato due sigari proprio di lusso e della stessa marca, sai, di quelli che fumava l’altro… Avevo paura che restasse in cinta, ma sa il trucco.

Gente di Dublino

Gente di Dublino è una raccolta di racconti di James Joyce. Si tratta di un’opera che ritrae la città di Dublino, metaforicamente considerabile come la condizione umana della miseria. Si tratta, infatti, di una serie di quadri verosimili, in cui lo stile è principalmente realista in senso classico (a differenza, per certi aspetti, delle opere successive, come dell’Ulisse e Dedalus): il linguaggio restituisce principalmente le cose così come appaiono e descrive i contorni psicologici dei personaggi da un punto di vista esterno ed imparziale. Non soltanto lo stile è realista, ma l’oggetto stesso del ritratto porta con sé una carica di forte vividezza e verosimiglianza. L’oggetto principale di Gente di Dublino è la miseria umana nelle sue varie forme, sia essa nata dall’indigenza, dal degrado morale piuttosto che dall’inesistenza di carattere.

Lo scandalo “Datagate”. Ovvero: “Tanto rumore per nulla”.

Dopo circa tre anni [l’articolo è stato scritto nel 2012 N.d.R.], assistiamo al secondo “psicodramma” che vede per protagonisti i Servizi di intelligence (soprattutto degli Stati Uniti) e i palazzi del potere di mezzo mondo. Dopo lo scandalo “WikiLeaks”, che ha visto come “mattatore” assoluto sul palcoscenico Julian Assange – e come vittima sacrificale il soldato Manning, “gola profonda” dello scandalo e, per il momento, unico condannato (35 anni di carcere) – un altro dipendente del governo americano, sempre nel nome dei più nobili diritti alla libertà di informazione e alla trasparenza, ha deciso di vuotare il sacco (ma fino a che punto?) e di lanciare il sasso nello stagno diffondendo informazioni classificate ad alcuni organi di stampa e quasi certamente – cosa più preoccupante per l’amministrazione USA – ad altri Servizi di intelligence di Paesi non proprio “amici”. Come tutti i sassi lanciati in uno stagno provocano, lì per lì, un allarme generale tra anfibi, rettili e uccelli che abitano l’ecosistema, per poi tornare in breve tempo alla “stagnazione” tipica dell’ambiente palustre, così, in proporzione più ampia, le rivelazioni dell’analista informatico della NSA (National Security Agency, l’agenzia di intelligence statunitense che si occupa di SIGINT e ELINT – Signal e Electronic Intelligence), Edward Snowden, hanno provocato un’altra tempesta in un bicchier d’acqua, tanto eclatante quanto, alla resa dei conti, inconsistente, con reazioni che hanno oscillato tra i toni melodrammatici del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, a quelli battaglieri, tipici della grandeur francese, dell’inquilino dell’Eliseo, François Hollande, passando attraverso una oramai tristemente tipica via di mezzo (che forse vorrebbe ispirarsi alle teorie di Guicciardini, me ne è solo una brutta copia, o meglio, un’errata interpretazione) delle autorità italiane, e il più coerente e decoroso silenzio di quelle britanniche.

Scacchiera didattica per istruttori e giocatori!

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Consigliamo Un mistero in Bianco e Nero – Filosofia degli scacchi!


Ispirato dal recente articolo di Laura Baire sulla didattica, vorrei illustrarvi un metodo che consente di lavorare proficuamente sulla scacchiera. L’idea mi venne molti anni fa, quando avevo l’abitudine di scrivere appunti direttamente sulle scacchiere disegnate dei libri di scacchi. Avevo pensato anche ad un metodo per poter replicare la tecnica sulle scacchiere normali, ma il problema era rappresentato dal pericolo di rovinarle. Alla fine mi venne l’idea giusta ma, come talvolta succede, non ho mai trovato l’occasione di attuarla.

Al bellissimo corso di istruttori del 2013 ho avuto modo di conoscere Sebastiano Paulesu (su cui la bella intervista del CM Gian Luca Cirina), una delle personalità più brillanti della didattica negli scacchi italiani. Lui ci ha mostrato alcune sue tecniche, tra cui la sua scacchiera e rudimenti del suo metodo ideografico, assolutamente da conoscere e divulgare, perché potrebbe consentire quel salto di qualità indispensabile per far decollare finalmente gli scacchi nelle scuole e nei circoli, ancora troppo legati ad un insegnamento rigido e tradizionale. Colgo qui l’occasione di segnalare almeno altri due maestri della didattica da seguire: Carlo Alberto Cavazzoni e Lucio Rosario Ragonese, entrambi dotati di una fervida immaginazione e capacità di trasmettere contenuti mediante forme innovative, ancora non sufficientemente applicate in modo pervasivo, come dovrebbero essere. Voglio anche segnalare, qui, l’importante lavoro che Giuseppe Sgrò sta attualmente svolgendo per l’insegnamento degli scacchi nelle scuole.